La corte
Titolo originale: L’hermine (L’ermellino)
Regia e sceneggiatura: Christian Vincent
Fotografia: Laurent Dailland. Musica: Claire Denamur.
Montaggio: Yves Deschamps.
Interpreti: Fabrice Luchini (Michel Racine), Sidse Babett Knudsen (Ditte Lorensen-Coteret),
Eva Lallier (Ann Lorensen-Coteret), Corinne Masiero (Marie-Jeanne Metzer),
Sophie-Marie Larrouy (Coralie Marciano), Fouzia Guezoum (Nacera Boubziz),
Simon Ferrante (Simon Orvieto).
Produzione: Albertine Productions. Distribuzione: Academy Two.
Durata: 110’. Origine: Francia, 2015.
Christian Vincent
Parigino, nato nel 1955, Christian Vincent ha frequentato l’Institut des Hautes Études Cinématographiques della sua città, dove si è diplomato nel 1983. Ha realizzato diversi cortometraggi, come Il ne faut jurer de rien (1983) che ha per protagonista l’attore Fabrice Luchini, che torna in altri suoi film. Alla fine degli anni ’80 realizza il suo primo lungometraggio, la commedia brillante La timida (1990), con Luchini protagonista. È un inaspettato successo di critica e pubblico. Il film vince tre premi César, gli Oscar francesi, tra cui quello per la miglior opera prima. Del 1992 è Beau fixe. Con il terzo lungometraggio, La Séparation (1994), racconta la fine di una relazione amorosa. Nel 1997 è la volta di Je ne vois pas ce qu’on me trouve, film ironico e umoristico. Sceglie poi di girare un film sulla miseria sociale, Sauve-moi, scritto durante un laboratorio di scrittura frequentato da diciassette disoccupati. Il film successivo è Les Enfants (2005), seguito dalla commedia Hotel a cinque stelle (2006). Del 2013 è La cuoca del presidente. Infine arriva, nel 2015, La corte, in cui Vincent ritrova Fabrice Luchini. Il film, presentato in concorso alla Mostra di Venezia, viene premiato per la miglior sceneggiatura e a Luchini va la coppa Volpi come miglior interprete maschile.
Sentiamo Vincent: «Al principio di tutto c’era il desiderio di lavorare ancora una volta con Fabrice Luchini, 25 anni dopo il film La timida. Ma lo avremmo fatto solo se avessimo trovato un personaggio e una storia. Mentre parlavamo di questo, abbiamo immaginato, io e il mio produttore, Fabrice Luchini come il presidente di una corte di assise. Ho pensato subito che Luchini sarebbe stato bene con la toga rossa e il colletto di ermellino. Ai tempi io non sapevo niente sul mondo della giustizia, ho iniziato ad assistere a un processo da giurato. Ho scoperto che la corte è un po’ come un teatro, con il pubblico, gli attori, la sceneggiatura e le quinte. E l’aula del tribunale è il regno della parola, fondato essenzialmente sulla natura orale del dibattito: un luogo dove coesistono quelli che padroneggiano il linguaggio con altri che non riescono neanche a capire il significato delle domande che gli vengono rivolte. Puoi osservare tutto questo in un tribunale se fai parte della giuria...
Ho seguito alcuni processi in provincia e ho ripetuto l’esperienza alla corte di assise di Parigi. Un giovane uomo era accusato di avere assassinato il suo amante. Questo accadeva quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura. Avevo gli elementi di cui avevo bisogno per scrivere. Se volevano che il film fosse credibile, tutta questa documentazione era necessaria. Tutto quello che mancava era la storia…
La storia è arrivata molto semplicemente. È scaturita spontaneamente dalla personalità del personaggio del magistrato. Io ho immaginato il Presidente della corte di assise che si chiudeva in ritiro. Un uomo rispettato e temuto nella sua corte, ma disprezzato e ignorato a casa. A casa, eccetto che dal suo cane, non è tenuto in considerazione da nessuno, mentre in tribunale è chiamato “vostro onore”. Così ho immaginato un piccolo uomo, senza molte gioie nella sua vita. Un uomo che è stato innamorato di una donna, una volta nella vita, cinque o sei anni prima...
Lei, Ditte, è esattamente l’opposto del carattere di Racine, il giudice. Racine è la notte, il lato oscuro di ciascuno di noi, mentre Ditte è la luce. Racine punisce mentre Ditte riporta le persone alla vita...
Luchini interpreta il ruolo del giudice molto solennemente. Come attore è anni luce lontano dal metodo dell’Actor’s Studio e da qualsiasi tecnica che comprende l’introspezione, la ricerca psicologica o l’identificazione. Prima di iniziare le riprese ha voluto incontrare il presidente della corte di assise che avevo già incontrato un paio di volte. Così un giorno si è recato al tribunale di Parigi per assistere ad un processo. E ha visto la sobrietà con cui il presidente istruiva il suo processo. Non una parola di troppo. Alla fine della prima ora aveva capito...
Fino a non molto tempo fa, quando mi chiedevano perché facevo film, rispondevo che mi sembrava il modo migliore di usare il mio tempo, alternavo momenti di solitudine, quelli in cui scrivevo, alla frenesia delle riprese, quando sei sempre circondato da una schiera di collaboratori, ai giorni pieni di dubbi dedicati all’edizione del film. Oggi, quando mi chiedono perché faccio un film, rispondo che così posso filmare il mio paese, la diversità del nostro territorio, i suoi linguaggi e le sue culture. E se decido di filmare in un tribunale, c’è una ragione. Un processo con una giuria è uno dei rari posti nella nostra società dove tutti possono ascoltare quello che viene detto, dove tutte le culture coesistono e dove tutte le classi sociali si mescolano. L’opposto di stare ognuno con i propri simili...
Quanto agli attori, ho un grosso problema: non sono fisionomista, praticamente sono agnosico, non riconosco le cose e le persone, però scelgo gli attori in base alle loro caratteristiche fisiche. Questo per spiegarvi il motivo per cui scelgo sempre attori così diversi tra di loro. La mia più grande paura è che il pubblico possa confondere un personaggio con un altro. Dopo tutto, io scelgo per i miei film attori che sembrano persone normali o se preferite, attori che non sembrano attori. Tanto che quando io cammino per la strada, sia che stia preparando un film o no, tutte le persone che incontro mentre cammino mi fanno venir voglia di filmarle…»
La critica
Un’ora. Un’ora di dialoghi, discussioni, domande, risposte, sguardi, silenzi e interrogazioni, per di più senza andare di corsa, ma semplicemente costruendo la solida e invisibile struttura di un mondo… Ci mette un’ora il sorprendente e inatteso La corte a diventare un film, con qualche piccola debolezza, ricorrendo alla solita canzone indie-pop per spezzare il ritmo e lasciando per un attimo i personaggi alla loro solitudine, fuori dal tribunale della città francese in cui è per buona parte ambientato, o al massimo fuori dai bar e dall’albergo che gli orbitano accanto. Protagonista non è solamente il giudice della Corte d’assise che presiede il processo per l’uccisione di una bambina di sette mesi (un grandissimo Fabrice Luchini), ma, insieme a lui – sessantenne separato dalla moglie, uomo di legge esperto e un po’ crudele, temuto e insieme deriso dai colleghi – le figure che popolano l’aula di un tribunale: i giudici a latere, gli avvocati della difesa, il pm, i giurati, gli imputati, i testimoni. È attraverso loro, sotto lo sguardo indagatore dell’uomo di legge, che si delinea il quadro di un società – quella francese – strutturata verticalmente, ancora oggi pesantemente divisa in classi, ma chiamata ad affermare un principio di giustizia, a stabilire un senso comune che distingua ciò che è lecito da ciò che è illegale. In maniera sottile, quasi invisibile e mai soffocata, grazie alla precisione dei dialoghi, dei particolari, dei volti e delle battute, La corte costruisce l’immagine a molteplice dimensione di un mondo stratificato. Sono le parole dei giurati, uomini e donne comuni chiamati a partecipare alla cosa pubblica, a chiarire il valore di una provenienza nazionale, regionale e urbana, a indagare livelli di cultura ed educazione, a stabilire le priorità che regolano una società di colti e di disoccupati, di violenti e di invidiosi, di ricchi e di poveri. E sono i vestiti (una sciarpa rossa, un collo d’ermellino, un maglione sformato, un paio di leggins a fiori, un giaccone pesante, un paio di anfibi) a determinare la colpevolezza o l’innocenza di un uomo, a svelare soprattutto lo stato sociale di una persona, la vita quotidiana di una coppia di potenziali assassini e di autentici disperati. E, ancora, sono i gesti, i semplici e nudi gesti della realtà che ogni giudice è chiamato ad analizzare senza emozione, ad affermare non la verità delle cose, ma la possibilità di trovare un senso e una giustizia nel dipanarsi delle cose. Gli stessi gesti, però, che nella vita privata di quello stesso giudice – innamorato di un’anestesista incontrata anni prima e ritrovata in tribunale come giurata popolare – diventano non fredde evidenze, non prove agli atti, ma sfumature, segnali d’amore o di semplice interesse, linguaggio del corpo che invoca la comprensione e l’amore che in aula di tribunale si negano a chiunque…
La corte ricorda vagamente l’ultimo romanzo di Ian McEwan, La ballata di Adam Henry, che ha per protagonista una figura molto simile a quella di Luchini: un giudice donna che oppone il rigore della legge all’impenetrabilità del reale e crolla di fronte all’emergere del sentimento. A un certo punto, però, dopo la splendida, compattissima, profonda eppure leggerissima prima ora, il film a differenza del romanzo segue la strada della commedia: perde forse in intensità e compattezza, ma in questo caso non sbaglia praticamente nulla, scegliendo ancora di giocare sugli oggetti, sui movimenti del corpo e sulle parole, tra il video di un cellulare, una canzone, due mani che si toccano, un vestito... E resta a sorpresa (onestamente: Christian Vincent non è certo un genio e alzi la mano chi non si aspettava la solita commedia geriatrica con Luchini) un frammento in stato di grazia di commedia umana, tra Balzac e il Carrère di Vite che non sono la mia.
RRoberto Manassero, cineforum.it, 17 marzo 2016