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Scheda del film (217 Kb)
Neruda - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 2 novembre 2017 – Scheda n. 4 (1006)

 

 

 

 

 

 

Neruda

 

 

 

Titolo originale: Neruda

 

Regia: Pablo Larraín

 

Sceneggiatura: Guillermo Calderón. Fotografia: Sergio Armstrong.

Musica: Juan Federico Jusid.

 

Interpreti: Luis Gnecco (Pablo Neruda),

Gael García Bernal (Oscar Peluchonneau),

Mercedes Morán (Delia del Carril),

Diego Muñoz (Martínez), Pablo Derqui (Víctor Pey).

 

Produzione: Fabula. Distribuzione: Good Films.

Durata: 126’. Origine: Cile, 2016.

 

 

Pablo Larraín

 

 

Nato a Santiago del Cile nel 1976, Pablo Larraín è una delle figure oggi più importanti di tutto il cinema mondiale. Molti suoi film li abbiamo presentati al Cineforum.

Primo lungometraggio: Fuga (2005). Nel 2007, dirige il suo primo film conosciuto internazionalmente, Tony Manero, visto alla Quinzaine, a Cannes 2008. Post Mortem è in concorso a Venezia 2010. Dirige Prófugos, prima serie della HBO prodotta in Cile. Del 2011 è No – I giorni dell’arcobaleno, ancora alla Quinzaine di Cannes e candidato agli Oscar come miglior film straniero. Del 2015 è Il club, presentato al festival di Berlino e premiato con l’Orso d’argento. Neruda è il suo sesto film, seguito da vicino da Jackie che vedremo più avanti nel nostro programma.

Ecco qualche dichiarazione di Larraín: «Della vita di Pablo Neruda abbiamo scelto la storia della sua fuga, delle indagini e della leggenda letteraria. Per noi, Neruda è un falso biopic. Non è veramente un biopic, un film biografico all’americana, perché non volevamo fare un ritratto del poeta che fosse totalmente serio. Semplicemente perché  è impossibile. Abbiamo messo assieme elementi inventati e giocosi. Il pubblico potrà librarsi assieme a lui nella sua poesia, nella sua memoria e nella sua ideologia comunista, tipica della Guerra Fredda...

Neruda fuggiasco ha scritto una buona parte di “Canto General”, il suo libro più massiccio, completo e rischioso. I suoi scritti sono pieni di rabbia e di voli della fantasia, di sogni terribili e di una descrizione cosmica dell’America Latina in crisi. Sono scritti furiosi e disperati. Neruda parla di guerra, rabbia e poesia, ci apre le porte su un’indagine selvaggiamente immaginaria: così il film crea una confluenza tra arte e politica, da un punto di vista cinematografico e letterario...

Ho scelto di raccontare la fuga di Neruda perché lui amava le storie poliziesche. Per questo il film è un road movie arricchito dall’elemento delle indagini della polizia e implica cambiamenti e personaggi che si evolvono insieme a elementi della farsa e anche dell’assurdo. Nessuno rimane esattamente com’era all’inizio, né il cacciatore, né la preda. Abbiamo inventato un mondo, esattamente come Neruda ha inventato il suo. Abbiamo creato un romanzo che ci avrebbe fatto piacere che Neruda leggesse...».

 

 

La critica

 

 

Il cileno Pablo Larraín ragiona, di film in film, sulla storia del suo paese, sulle dittature, sui personaggi decisivi o minimi, quelli che sono stati al potere, quelli che hanno vissuto negli angoli oscuri. Ha raccontato in maniera sempre splendida, attraente, viva e profonda, anche spavalda alcuni momenti decisivi, la dittatura di Pinochet, la fine della dittatura, il dopo dittatura, in Tony Manero, Post mortem, No, Il club (2015).

Neruda non ha niente di quel tipo di film che gli americani chiamano biopic. È invece un’appassionante e non apologetica galoppata e descrizione di alcuni momenti della vita del Neruda poeta nazionale comunista propagandista internazionalista aulico lirico epico popolare egoista. Neruda è nome d’arte, vero nome Ricardo Eliécer Neftali Reyes Basoalto, nato nel 1904 a Parral e morto nel 1973 a Santiago del Cile, premio Stalin per la pace nel 1955, premio Nobel per la letteratura nel 1971, ricercato dopo l’avvento al potere del dittatore Videla nel 1946, riuscito a sfuggire alla polizia nel 1948, vissuto in esilio in Europa, tornato in Cile nel 1952, sostenitore di Allende. Dieci giorni dopo il colpo di stato di Pinochet dell’11 settembre 1973, Neruda, malato, muore in ospedale per il cancro alla prostata o per chissà cos’altro. Dunque, niente a che fare con le biografie pomposamente incensanti. Neruda è anzitutto una storia a due facce, una di fronte all’altra, quella del poeta, interpretato con impressionante somiglianza dall’attore cileno Luis Gnecco, e quella dell’ispettore Peluchonneau che lo deve trovare e arrestare, interpretato da un perfetto Gael García Bernal. Il film comincia con una scena rivelatrice del doppio punto di vista dell’intero film. Neruda entra in parlamento, si scontra ad alta voce con i suoi avversari, la macchina da presa esplora la grande sala e su di un lato ci sono i pisciatoi usati tranquillamente dai senatori. Ecco: il film si muoverà così, tra l’ufficialità, la superficie, i sotterranei, il non-nascosto e il nascosto. Tra il Neruda politico e senatore, quello della poesia, quello che beve forte, quello che partecipa a festini erotici con donnine. E, sul versante opposto, tra il poliziotto ligio al suo ruolo e il poliziotto che legge le poesie di Neruda, uno definito da un contadino della Cordillera andina “un po’ abbrutito e un po’ stronzo”, uno che vuole identificarsi con il poeta, che vorrebbe arrestarlo per conoscerlo.

È la voce narrante di Peluchonneau a commentare il film, a mescolare le carte. Questa singolarità di costruzione dà luogo anche a continui passaggi di tono con spostamenti dal drammatico verso il divertito, come quando Neruda e la moglie girano in macchina intorno alla Moneda, il palazzo presidenziale, suonando il clacson di notte per non lasciar dormire il presidente Gonzales. O quando un capo mapuche che lo tiene nascosto in casa durante la fuga gli chiede se ha mai ucciso qualcuno e Neruda risponde: “No… Sì, ho ucciso scrivendo, scrivo sempre”.

Il film termina tra i paesaggi innevati delle Ande in boschi di araucarie. Sembra un western. Poi Neruda arriva a Parigi dove Picasso lo aspetta. Peluchonneau non è riuscito né a prenderlo né a incontrarlo.

BBruno Fornara, facebook, dal festival di Cannes,15 maggio 2016

 

Prima di Jackie, Pablo Larraín ha diretto un altro ritratto storico, Neruda, lontanissimo dai luoghi comuni delle biografie filmate ma capace di aprirsi con una riflessione bella e affascinante sul rapporto tra i singoli e la Storia e sul fascino della narrazione come specchio (e prigione) per i suoi personaggi. Così, invece di inseguire un’impossibile ansia di esaustività si concentra su una piccola porzione di vita: la fuga del poeta-senatore da Santiago per evitare l’arresto decretato dal presidente Gonzales Videla nel 1948, dopo il celebre discorso ‘Yo acuso’ in difesa dei minatori che il governo aveva fatto imprigionare in veri e propri campi di concentramento. Se da una parte la sceneggiatura di Guillermo Calderón racconta con una certa disinvoltura le varie tappe della fuga di Neruda, prima nascosto in casa di militanti del Partido Comunista, poi a Valparaiso per cercare di imbarcarsi su una nave e infine sulla cordigliera andina per arrivare in Argentina; dall’altra la regia di Larraín sembra giocare con questa vaghezza cronologica per spostare l’attenzione dello spettatore sul confronto ‘a distanza’ tra il poeta fuggitivo (Luis Gnecco) e il testardo prefetto di polizia Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal). Intanto, qual è la vera faccia di Neruda? La sua vera essenza? Il film sembra divertirsi a sottolineare le sue contraddizioni umane e politiche. All’inizio lo vediamo nelle sue vesti di senatore comunista, virulentemente contrario a un governo (e a un presidente) che pure aveva contribuito a eleggere. Ma subito dopo ecco il Neruda privato e gaudente mentre anima con la moglie Delia (Mercedes Moran) una festa decisamente libertina. Per non parlare delle sue riconosciute frequentazioni di prostitute e case chiuse. Che ‘ritratto’ se ne può dare? Anche il regista sembra evitare una risposta precisa: a volte gioca con il travestimento, quando si mette una parrucca per evitare di essere riconosciuto della polizia o si trasforma nel ritratto di se stesso, incorniciato dentro la vetrina di un fotografo, ma più spesso lascia che una fonte di luce inondi l’obiettivo fino a sfocare l’immagine e confondere i suoi lineamenti. A ribadire anche esteticamente la difficoltà (impossibilità?) di darne un ritratto preciso, di attribuirgli una definizione univoca. Allo stesso modo l’antagonista ha un’identità che prende forma man mano che la caccia procede e si avvicina sempre più alla sua preda: da poliziotto grigio e ubbidiente diventa un personaggio da film noir, ambiguo e sfuggente, con un occhio che sembra volersi aprire solo a metà (un tic? una metafora?) e che proprio inseguendo Neruda in un bordello confessa di aver avuto una mamma puttana e un padre non così ben identificato. Anche se vuole credere di essere il figlio del commissario Peluchonneau, eroe della polizia cilena immortalato da una statua oggetto dei suoi pellegrinaggi sentimentali. E il loro inseguimento cosa può diventare, allora? Più che il tradizionale gioco del gatto col topo - dove per altro è difficile decidere chi sia chi - la caccia diventa il ring dove ognuno dei due contendenti cerca di avere il sopravvento sull’altro. E siccome la storia li fa solo sfiorare, lo scontro è soprattutto psicologico, immaginifico, ai limiti del metafisico. Come Pollicino, Neruda lascia nei luoghi della sua fuga copie dei propri libri che Peluchonneau raccoglie e legge, conoscendo ogni volta un po’ di più il suo fuggiasco e insieme facendosene affascinare e conquistare. E più si avvicina alla sua preda più prende la forma di un personaggio ‘nerudiano’, di un ‘eroe’ letterario più che reale. Così Larraín, che gioca con il tempo (difficile capire dal film che quella fuga durò 13 mesi) e con lo spazio (cambiando spesso ambientazioni, per finire su una cordigliera innevata che sembra il Montana del vecchio West), trasforma un fatto storico in una riflessione sulla forza della poesia e usa la materia romanzesca del film per continuare la sua ricerca sulla forza dell’immagine e su come l’apparire finisca per dare nuove forme anche alla realtà.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 12 ottobre 2016

 

 

 

 

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Battaglia di Okinawa, nel Pacifico. La guerra, il dolore, la fine, le ferite e il piccolo soldato che salva un soldato dietro l’altro.

Durata: 136’.

 

 

Giovedì 9 novembre, ore 21

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