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Giovedì 16 novembre 2017 – Scheda n. 6 (1008)
L’infanzia di un capo
Titolo originale: The Childhood of a Leader
Regia: Brady Corbet
Soggetto: liberamente ispirato a un racconto di Jean-Paul Sartre
e al romanzo Il mago di John Fowles.
Sceneggiatura: Brady Corbet, Mona Fastvold, Caroline Boulton.
Fotografia: Low Crewley. Musica: Scott Walker.
Interpreti: Robert Pattinson (Charles Marker),
Stacy Martin (Insegnante di francese), Bérénice Bejo (Madre),
Liam Cunningham (Padre), Tom Sweet (Prescott).
Produzione: Bron Capital Partners. Distribuzione: Fil Rouge Media.
Durata: 113’. Origine: Belgio, 2015.
Brady Corbet
Nato nel 1988 a Scottsdale, in Arizona, Brad Corbet ha debuttato al cinema come attore quasi per caso. Un giorno, scopre che nella casa accanto alla sua stanno girando un film, Thirteen - 13 anni, va a vedere e viene scritturato per far parte del cast. Comincia così una carriera di attore, prima nelle serie tv, poi dividendosi tra tv e cinema. Lo nota il regista indipendente Gregg Araki che lo vuole nel drammatico Mysterious Skin (2004), presentato alla Mostra di Venezia del 2004. Nel 2007 è uno degli spietati torturatori del remake americano di Funny Games di Michael Haneke. Seguono altri film minori fino all’incontro con Lars Von Trier per Melancholia (2011). Appare in tre film del 2014: Forza maggiore di Robert Östlund, Sils Maria di Olivier Assayas e Giovani si diventa di Noah Baumbach. Infine passa alla regia con questo L’infanzia di un capo presentato alla Mostra di Venezia del 2015 e premiato con il Leone d’oro del futuro per la migliore opera prima.
Sentiamo Corbet: «Sono sempre stato interessato a questo periodo della storia del mondo, il periodo tra le due guerre. Questo momento storico ha definito la politica estera come la conosciamo oggi, in America e in gran parte del resto del mondo. Volevo provare a fare un film poetico sulla politica e sulle dinamiche interpersonali, ma non un film politico in senso stretto. Diciamo che volevo fare un film che avesse possibilmente anche una forza ribelle un po’ punk rock, perché credo fermamente a quanto diceva Marlon Brando: in ogni scena, bisogna trovare il cliché, e fare il contrario. Questo è però un film basato su eventi inquietanti della vita reale. In definitiva, è la storia di un’infanzia da cui emergerà un dittatore...
Non volevo però fare l’ennesimo film su Hitler o Mussolini, volevo piuttosto costruire un’allegoria o una lettura poetica della Storia, nella quale i personaggi mantenessero uno spazio vuoto a sufficienza perché lo spettatore lo potesse riempire con i propri “fantasmi storici”. La storia del film si ispira a Sartre, alla sua idea di una personalità ancora acerba che prende coscienza un po’ alla volta del potere che riesce ad esercitare sugli altri, del proprio fascino e del rispetto che riesce ad imporre: per questo è l’infanzia di un capo, di un dominatore, di un despota. La storia gioca con questo lato enigmatico dei bambini, con il fatto che siano come una promessa di qualcosa che non è ancora noto, che non si sappia insomma ancora di che persona adulta si tratterà. Il risultato è molto inquietante. Il film rispetto al racconto di Sartre prende però una direzione diversa, ha l’obiettivo ancora più ambizioso di raccontare il XX secolo e l’ascesa di tutti i totalitarismi, causata secondo me per prima cosa dalla ferita insanabile della Prima Guerra Mondiale e dalla sua conclusione a Versailles...
Un altro passaggio fondamentale per fare il lavoro che avevo in mente è stato convincere uno dei miei musicisti preferiti, Scott Walker, a comporre una musica potente e dissonante, che riuscisse a punteggiare e scandire tutta la storia. Come tutta la grande musica cinematografica, la colonna sonora di Scott Walker, con la sua spettrale intensità, riesce a calarci fino in fondo nell’atmosfera del film: i suoi suoni stridenti e aggressivi hanno la potenza ipnotica e subliminale degli arsenali simbolici e delle coreografie del totalitarismo, e sembrano anche dei gridi di sofferenza per i demoni di certi momenti storici, i demoni che possono trasformare un bambino in un futuro dittatore».
La critica
L’esordio alla regia dell’attore americano Brady Corbet (visto in Melancholia, Funny Games, Forza maggiore) è un lavoro talmente straniante da dover riposare nell’anima e nell’inconscio dello spettatore, ingenua vittima di un lavoro tanto unico quanto profondo. Il film, ambientato nel 1919, alla fine della Grande Guerra, è suddiviso in quattro parti, chiamate allegoricamente “tantrum”, e racconta la solitaria infanzia di Prescott (un bravissimo Tom Sweet), bambino cresciuto in una gigantesca tenuta nella campagna francese, dove vive con la madre (Bérénice Bejo), fervida cattolica, e il padre (Liam Cunningham), importante diplomatico del gabinetto Wilson, intento a redigere il lacunoso e infausto Trattato di Versailles. Sin dalle primissime scene capiamo che L’infanzia di un capo, liberamente ispirato al racconto Infanzia di un capo del filosofo Jean-Paul Sartre, non è un film che ama farsi guardare né tanto meno piacere: è un lavoro che vuole scuotere le viscere dello spettatore, catapultandolo nell’immaginario ideologico del primissimo dopoguerra, in cui la Storia partoriva solo cadaveri, rancori e futuri tiranni. In questo senso, la pellicola riflette le emozioni che caratterizzarono il XX secolo, incanalandole negli scatti d’ira del giovane protagonista: egli non è solo testimone degli eventi ma è metafisicamente legato a essi, in un connubio insano di rabbia, odio, rancore, che si rivelerà particolarmente dannoso per gli eventi futuri, quando il bambino diverrà, in uno dei finali più criptici degli ultimi anni, un seguitissimo e osannato leader. L’ambizione di Corbet, però, è da ricercarsi soprattutto nell’estrema manipolazione dell’immagine cinematografica che smette di essere una sterile simulazione del reale, divenendo parte della Storia e dell’emotività stessa del protagonista. Vorticosi movimenti di camera, bruschi stacchi e schizofreniche carrellate orizzontali, oltre a produrre un totale effetto disorientante nell’osservatore, sono i principali elementi utilizzati per trasporre visivamente la perturbante emotività del piccolo Prescott, metonimia del disagio di un’intera civiltà appena uscita da un conflitto, ma pronta a gettarsi nuovamente nelle braccia dell’autodistruzione. A conferma dell’impeccabilità tecnica dell’intero lavoro si erige una fotografia eccezionale, in grado di farci respirare la decadenza del podere nel quale vivono i personaggi, ricreando un’atmosfera a metà strada tra i quadri barocchi di Velázquez e l’abissale profondità di Goya, il tutto accompagnato da una colonna sonora noise e tonitruante del compositore statunitense Scott Walker. Lontano dalla rivoluzione del digitale, che riesce ad immergerci in uno spazio-tempo talmente patinato e perfetto da rendere immacolata la realtà, il 35mm di Corbet rompe gli schemi grazie a un lavoro visionario e avanguardistico, gettando una fioca luce sui fantasmi del nostro passato attraverso un’immagine sporca, materica, che emerge a fiotti dalla cinepresa e trasforma una semplice proiezione cinematografica in un’esperienza sensoriale, organica, epidermica, destinata a rimanere a lungo incompresa.
AAlessandro Lanfranchi, cineforum.it, 28 giugno 2017
Non tutti i saldi vengono per nuocere: si prenda questo L’infanzia di un capo che l’attore Brady Corbet, qui al suo esordio dietro alla macchina da presa, ha tratto (anche) da un racconto di Jean-Paul Sartre, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2015 nella sezione Orizzonti, dove ha vinto il Leone del futuro - Premio opera prima e il Premio Orizzonti per la miglior regia. Un film che sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire. A cominciare dai suoi aspetti squisitamente tecnici come la splendida fotografia (pellicola 35mm) di Lol Crawley o la strepitosa colonna sonora firmata da Scott Walker, l’ottimo cast di attori che lo interpreta e che ruota intorno al fulcro del bambino protagonista, Prescott (il sorprendente Tom Sweet), che sembra la perfetta sintesi tra il Tadzio di Morte a Venezia del duo Mann-Visconti e il figliastro del Barry Lyndon di Kubrick. Una sorta di angelo-demone la cui parabola e, appunto, come dice il titolo, la sua ‘formazione’ avvengono attraverso quattro tappe (i quattro atti del film) tutti segnati da una ‘crisi’ che determina una frattura non solo nel suo percorso di crescita ma anche nei rapporti con la famiglia e, in seguito, con il mondo. Il piccolo Prescott vive con la madre e una governante in una grande tenuta nei pressi di Parigi, città dove il padre del bambino è impegnato, come segretario del presidente americano Woodrow Wilson, nella stesura di quello che poi prenderà il nome di Trattato di Versailles. Il padre fa quindi la spola tra Parigi e la tenuta. Prescott cresce pertanto in un universo femminile completato dalla giovane insegnante di francese che lo segue quasi quotidianamente. Due universi, quello freddo del padre diplomatico e quello caldo della madre fervente religiosa, destinati fatalmente a scontrarsi nel carattere del bambino che sviluppa una sorta di personale ribellione fatta di tenaci disubbidienze, una sconfinata arroganza unita alla caparbia incoscienza dell’età e una sciocca resistenza alle punizioni. Una tempesta interiore che ben si amplifica in quella del mondo esterno uscito stremato dalla Grande guerra ma incapace (nonostante le buone intenzioni) di mettere quei semi che facciano sì che non accada più niente di simile. Al contrario, è la tesi, anche se per certi versi un po’ ambigua del film, proprio in quel clima germogliano i semi che porteranno ai totalitarismi e ad altri peggiori esiti. Restando al film, non sarà un capolavoro, ma un grande, e a tratti riuscito, tentativo di visualizzare, anche con scelte di regia audaci e sorprendenti, una ‘bildung’, una formazione senza romanzo, dagli esiti imprevedibili.
AAndrea Frambrosi, L’Eco di Bergamo, 11 luglio 2017
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