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Giovedì 23 novembre 2017 – Scheda n. 7 (1009)
Io, Daniel Blake
Titolo originale: I, Daniel Blake
Regia: Ken Loach
Sceneggiatura: Paul Laverty. Fotografia: Robby Ryan. Musica: George Fenton.
Interpreti: Dave Johns (Daniel Blake), Hayley Squires (Katie),
Dylan McKiernan (Dylan).
Produzione: Sixteen Films. Distribuzione: Cinema De Paolis.
Durata: 100’. Origine: Gran Bretagna, 2016.
Ken Loach
Regista ben conosciuto da chi frequenta regolarmente il cineforum, Ken Loach è nato nel 1936 a Nuneaton, nella contea del Warwickshire, nella regione delle Midlands Occidentali, in Inghilterra. Figlio di operai, ha dedicato la sua lunga carriera a descrivere le condizioni di vita dei ceti meno favoriti. Ha girato il primo film per la tv, Z Cars, nel 1962, e il primo per il cinema, Poor Cow, nel 1967. In totale, ha diretto finora una trentina di lavori televisivi e venticinque film, ultimo questo I, Daniel Blake, premiato a Cannes con la Palma d’oro nel 2016. Aveva già vinto una precedente Palma d’oro con Il vento accarezza l’erba nel 2006; ha ricevuto anche il Pardo d’onore al Festival di Locarno nel 2003 e il Leone d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia nel 1994. Loach ha cominciato a girare film nel periodo del Free Cinema, insieme a registi come Lindsay Anderson, Karel Reisz, Joseph Losey e Tony Richardson. Da giovane ha prestato servizio nella Royal Air Force, ha studiato legge a Oxford, ha recitato nel teatro sperimentale dell’università, ha diretto spettacoli teatrali a Birmingham. Nel 1961 inizia a lavorare per la ABC Television, poi passa alla BBC e realizza 10 episodi di The Wednesday Play, serie che rivoluziona il genere del dramma televisivo e inventa il docu-drama con storie realistiche sulla classe operaia e sul ceto medio. Comincia a girare film, Poor Cow (1967) e Kes (1970). Negli anni Settanta e Ottanta alcuni suoi film hanno problemi di censura, anche perché attaccano il primo ministro, la signora Thatcher. Ecco un elenco riassuntivo dei suoi film: Family Life (1971), Riff Raff (1991), Piovono pietre (1993), Ladybird Ladybird (1994), Terra e libertà (1995), My Name Is Joe (1998), Il vento che accarezza l’erba (2006), Il mio amico Eric (2009), La parte degli angeli (2012), Jimmy’s Hall - Una storia d’amore e libertà (2014) e Io, Daniel Blake (2016).
Lasciamo la parola a Ken Loach: «Avevo dichiarato, dopo aver girato Jimmy’s hall, che era in concorso a Cannes nel 2014, che quello sarebbe stato il mio ultimo film. È stata una dichiarazione folle, ma in quei tempi ero completamente esausto per la preparazione del film. Alcune settimane dopo la fine delle riprese, mi ha ripreso la voglia di fare cinema e ho iniziato con il mio sceneggiatore Paul Laverty a fare ricerche su quel che ci pareva un evidente business della burocrazia statale: una macchina che usa l’arma della crudeltà intenzionale per dissuadere i cittadini a richiedere il sussidio o le indennità malattia a cui hanno diritto. È una realtà talmente scioccante e poco raccontata che abbiamo deciso di farne un film...
Credo sia fondamentale dare voce alle persone messe ai margini della società: e il cinema ci permette di farlo. Nella vita è difficile avere un quadro chiaro e preciso della realtà: il cinema invece, permette di distillare l’esperienza delle persone. Così, vedendosi riflesso sullo schermo e con la giusta distanza, lo spettatore si può identificare nei personaggi di un film. Il cinema può allora diventare una lente di ingrandimento che ci permette di avere una visione più chiara di noi stessi e della realtà che ci circonda. Credo che questo genere di film nasca nella tradizione del Neorealismo Italiano che ha creato un modo rivoluzionario di affrontare il cinema. Il cinema non mi interessava molto quando ero ragazzo, volevo fare teatro: Shakespeare e i grandi classici! Mi sono avvicinato al cinema negli anni ’60 ed è in quel periodo che sono rimasto folgorato dal realismo del cinema italiano e cecoslovacco».
La critica
È sufficiente (non) guardare con attenzione il folgorante inizio di I, Daniel Blake per comprendere le intenzioni cinematografiche di Ken Loach in questo suo ultimo lavoro: uno schermo completamente nero persiste per diversi minuti mentre due voci dialogano in maniera serrata e tesa arrivando in più riprese a sfiorare la lite. Il contesto, neanche a dirlo, è quello di un uomo - il Daniel Blake del titolo – che quotidianamente combatte con la vita per cercare di stare a galla, provando ad assecondare le rigide costrizioni che la burocrazia britannica gli impone per poter godere dei benefici previsti dallo Stato. Lungo la sua strada Daniel incontrerà Katie, una giovane madre che, seppur per ragioni differenti, si trova nelle medesime condizioni. La strada per un’analisi appassionata dei benefici statali o del lavoro dei servizi sociali britannici era dunque spianata; tuttavia, proprio come testimonia lo schermo nero del prologo, a Loach non interessa mostrare (e/o accusare) simili cavilli, la povertà tangibile di alcuni quartieri britannici o l’evidente stato di crisi in cui, ancora oggi, una buona parte della popolazione è immerso. Quello che preme all’autore è invece mettere in scena il disagio intimo e personale a cui è costretto chi, come i due protagonisti, viene lasciato inesorabilmente a margine di una società sempre più cinica e individualista. In maniera opposta ma complementare, il film segue, da un lato, le vicende di un uomo sessantenne privo di significative relazioni umane, e dall’altro di una giovane madre con a carico due bambini. Due perdenti che, per questa stessa ragione, vengono emarginati da una filosofia di pensiero che non ha più tempo per fermarsi a riflettere e aiutare chi non riesce a stare al passo. Il messaggio solidale di cui Loach si fa portavoce, quindi, è tanto semplice quanto genuino, mirato a scuotere le coscienze sulla forza dei valori morali da sempre innati nell’essere umano e costantemente messi al bando per diverse ragioni (l’ultima, in ordine cronologico, la crisi economica di cui ancora il cinema continua a parlare). Detto questo, ha comunque senso interrogarsi su quanto peso abbia, oggi, realizzare un film come I, Daniel Blake. Se infatti Loach non viene meno ai suoi dettami classici, insistendo su una messa in scena lineare e asciutta, è anche vero che spesso finisce per tradirsi semplificando in maniera estrema alcuni passaggi più complessi (la drastica scelta intrapresa da Katie sul finale), lavorando su stereotipi preconfezionati per tratteggiare con ironia i suoi personaggi (Daniel incapace di usare il mouse del computer) e lasciando emergere più del dovuto la sua impronta ideologica. Ecco perché I, Daniel Blake segna un piacevole ritorno sulle scene da parte di Loach dopo il suo annunciato ritiro, ma stenta a lasciare un segno limpido come dovrebbe, rilanciando comunque la sfida a un domani migliore.
SSimone Soranna, cineforum.it, 13 maggio 2016
Ma in che mondo viviamo? Non è una domanda oziosa, ma una presa di posizione e una denuncia sulla cancellazione della dignità del cittadino attraverso un attacco sistematico al ‘welfare’ con lo Stato che taglia e, per logica da liberismo selvaggio, passa la mano a spietate multinazionali private. Risultato: sembra che una macchina del tempo abbia scaraventato indietro l’Inghilterra ai tempi di Dickens con l’aggiunta di una dimensione burocratica kafkiana e in più il tormento di un’ossessione tecnologica alla Orwell. O sai compilare un modulo via internet oppure sarai sanzionato peggio di un delinquente con la sospensione del sussidio di disoccupazione o l’indennità in caso di malattia. Per gli anziani, ma anche per generazioni meno attempate, è un labirinto fatale. E così, come dimostra Io, Daniel Blake, Ken Loach ha tutte le motivazioni per essere sempre e ancora in collera con la società demolita dalle riforme conservatrici. La militanza comunista di Loach non è affatto, almeno in questo caso, una radicale spinta propulsiva che, invece, si spalanca a Newcastle sulla tragica avventura esistenziale di un carpentiere sessantenne e vedovo vittima di un grave infarto: il suo medico gli vieta di tornare a faticare mentre l’agenzia statale che dovrebbe sorreggerlo lo spinge a farlo, avvisandolo che se non cercherà un impiego per 35 ore alla settimana rischia di essere gettato ai margini di qualsiasi forma d’aiuto. Nel suo calvario conosce e sostiene una ragazza madre, Katie, obbligata a lasciare Londra e che per mettere qualcosa nel piatto ai due figlioletti deve togliersi letteralmente il pane di bocca sino ad accettare la degradante vendita del suo corpo. Blake non si arrende, per un momento può anche piegare la testa a modo suo, ma poi non accetta di essere trattato da rifiuto, urla, si ribella dopo aver sopportato le storture del sistema e dei suoi impiegati, attraverso colloqui vergognosi e inutili attese telefoniche. Quindi non può che guardare con simpatia i due giovani vicini di casa che per sbarcare il lunario trafficano con un bizzarro e avido tifoso di calcio cinese in scarpe da ginnastica griffate e alla moda. La sceneggiatura esemplare di Paul Laverty non nasconde un’altra nefandezza: lasciar credere agli elettori che chi gode di un sussidio è perché vuol dormire sino tardi la mattina e mantenersi con le loro tasse. Non c’è salvezza, se non quei banchi alimentari dove puoi trovare generi di prima necessità. La Palma d’oro di Cannes 2016 a Io, Daniel Blake è uno dei verdetti più giustificati e pertinenti di un Festival del Terzo Millennio. Premia la rigorosa semplicità e profondità drammaturgica di Loach che non cede neppure per un istante alla retorica ideologica, creando un cinema vero, duro e sofferto, un capo d’opera come Umberto D. di De Sica, lungo un percorso di sofferenza non sentimentale, di rivolta contro regole che contraddicono persino se stesse, di energica messa in scena quasi documentaristica, regolata e sorvegliata anche da un’ironia acre. Di magnifica presa è l’interpretazione magistrale di Dave Johns: il suo Daniel Blake è indimenticabile per spontaneità e naturalezza.
NNatalino Bruzzone, Il Secolo XIX, 17 ottobre 2016
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