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Giovedì 25 gennaio 2018 – Scheda n. 14 (1016)
Agnus Dei
Titolo originale: Agnus Dei
Regia: Anne Fontaine
Sceneggiatura: Sabrina B. Karine, Alice Vial, Anne Fontaine, Pascal Bonitzer.
Fotografia: Caroline Charpentier. Musica: Grégoire Hetzel.
Interpreti: Lou de Laâge (Mathilde), Agata Buzek (Suor Maria),
Agata Kulesza (Madre Superiora), Vincent Macaigne (Samuel),
Joanna Kulig (Irena).
Produzione: Mandarina Cinema, Aeroplan Film, Anna Wloch.
Distribuzione: Good Films.
Durata: 110’. Origine: Polonia, Francia, 2016.
Anne Fontaine
Nome vero Anne Sibertin-Blanc, nata nel 1959, in Lussemburgo, ballerina di formazione, debutta al cinema come attrice nel 1980 in Tenere Cugine, recita in altri film come Si ma geule vous plaît e P.R.O.F.S. (1985). Nel 1986 collabora alla regia teatrale del romanzo di Céline, Viaggio al termine della notte, insieme a Fabrice Luchini. Incontra Philippe Carcassone, suo futuro marito, che produce il primo film di Anne come regista: Les histoires d’amour finissent mal... en général (1993) che vince il premio Jean Vigo come miglior esordiente. L’anno successivo gira il mediometraggio Augustin seguito da Dry Cleaning (1993) e da Augustin, roi du kung-fu (1999), Comment j’ai tué mon père (2001), Nathalie... (2003), Entre ses mains (2005), Nouvelle chance (2006), La fille de Monaco (2008), Coco avant Chanel (2009), ritratto della stilista Coco Chanel, Il mio migliore incubo (2011, con Isabelle Huppert), Two Mothers (2013, con Naomi Watts e Robin Wright). Nel 2015 dirige Gemma Bovery (2015, visto al cineforum) e quindi questo Agnus Dei.
Sentiamo Anne Fontaine: «Agnus Dei è ispirato a un fatto storico poco conosciuto, avvenuto in Polonia nel 1945. La storia di queste suore è incredibile. Secondo le note scritte da Madeleine Pauliac, il medico della Croce Rossa che ha ispirato il film, 25 di loro furono violentate nel loro convento – alcune fino a 40 volte di seguito – 20 furono uccise e 5 rimasero incinte. Questo evento storico getta una luce oscura sui soldati sovietici, ma è la realtà; una verità che le autorità si rifiutano di divulgare, nonostante numerosi storici ne siano a conoscenza. I soldati non ritenevano di commettere un atto ignobile, erano autorizzati dai loro superiori, come premio per i loro sforzi. Atti brutali come questo, sfortunatamente, sono ancora largamente praticati ai giorni nostri. Le donne continuano a essere oggetto di simili fatti disumani nei paesi in guerra di tutto il mondo. La storia mi ha subito catturata. Senza sapere neanche perché, sapevo di avere un legame personale con questa vicenda. La maternità e il fatto di porsi delle domande sulla fede erano dei temi che m’interessava esplorare. Volevo avvicinarmi il più possibile a quello che è accaduto a queste donne, per descrivere l’indescrivibile. La spiritualità doveva essere al centro del film...
Volevo anche capire com’è realmente la vita in un convento, dal suo interno. Per me era importante comprendere la routine quotidiana delle suore, e conoscere il ritmo delle loro giornate. Sono andata in visita presso due comunità Benedettine, lo stesso ordine religioso del film. Sono entrata solo come osservatrice la prima volta, poi la seconda ho fatto esperienza della vita di una novizia. La vita nella comunità mi ha molto colpito, questo modo di stare assieme, pregando e cantando sette volte al giorno: è come stare in un mondo dove il tempo è sospeso. Si ha la sensazione di fluttuare in una sorta di euforia, nonostante si sia vincolati da una fortissima disciplina. Ho visto come si creano le relazioni umane: la tensione e la psicologia altalenante di ogni suora. Non è un mondo congelato e unidimensionale. Quello che più mi ha colpito, e che ho cercato di trasmettere nel film, è quanto fragile sia la fede. Spesso pensiamo che la fede fortifichi coloro che ne sono pervasi. Ma non è così: come confida Maria a Mathilde nel film, anzi è esattamente l’opposto: “ventiquattro ore di dubbio per un minuto di speranza.” Questa nozione riassume le mie impressioni dopo aver parlato con le sorelle...
Le persone che ho conosciuto hanno avuto sin dall’inizio un’opinione favorevole riguardo al progetto, nonostante siano state rivelate delle scomode verità sulla Chiesa. Come far fronte alla maternità quando la tua intera esistenza è stata affidata a Dio? Come mantenere la fede quando ci si trova ad affrontare dei fatti così tragici? Cosa fare con i neonati? Quali sono le possibilità?...
Il nostro lavoro consisteva nel fondere gradualmente i due mondi del film: il mondo materialista di Mathilde, questo medico comunista molto determinato, e quello spirituale delle sorelle, in una Polonia tradizionalista, sconvolta dalla guerra. Come avrebbe fatto Mathilde a fare breccia nel muro dietro al quale queste donne vivevano, come dimenticate dalla società, desiderose che nulla cambiasse e fosse rivelato?
Mathilde ha un lato incredibilmente moderno. È una scienziata, molto avanti rispetto ai suoi tempi, senza considerare che le donne medico erano piuttosto rare all’epoca. È giovane, ha appena completato i suoi studi ed è ancora solo un’assistente nella Croce Rossa. In un certo senso, sta portando a termine un viaggio d’iniziazione. Ci vuole molto fegato a prendersi la responsabilità di far nascere i figli di queste donne, mantenere un segreto così gravoso e prendersi dei rischi, come ad esempio dover attraversare la foresta di notte per raggiungere il convento, o cercare di passare i blocchi stradali sovietici. Il mondo di Mathilde è molto lontano da quello delle suore. Lei vuole guarire le persone e risolvere le situazioni. Eppure non c’è traccia di manicheismo in lei: senza aderire ad una fede specifica, gradualmente, intravede quello che il mistero della fede potrebbe essere...».
La critica
Simmetria e perfezione sono i due termini sui quali la fotografia di Caroline Champetier sceglie di aprire Agnus Dei. Simmetria e perfezione, sul piano architettonico, dell’arco, che struttura il camminamento coperto attorno al chiostro del convento; simmetria e perfezione, sul piano musicale, del canto gregoriano, recitato in due file simmetricamente contrapposte e perfettamente lineari, sul piano visivo, dalla serie di suore. È dunque, quello dei conventi, un mondo tanto rigoroso, quanto equilibrato e pacifico. Silenzioso, ovattato, scandito da rituali e doveri precisi, eppure – e bastano pochi secondi per intuirlo – fortemente incrinato da qualcosa. In sottofondo al canto di preghiera, un urlo; nelle file di donne inchinate a rendere grazie a Dio, una testa che non si piega. Queste donne nascondono un segreto. Un segreto enorme e sconvolgente, che solo suor Marie (Agata Buzek) avrà il coraggio di affrontare apertamente, andando in città a cercare l’aiuto della dottoressa Mathilde Beaulieu (Lou de Laâge): molte delle suore sono state vittime di abusi da parte dei soldati sovietici e sette di loro sono incinte. Una storia vera, che risale alla Polonia del ’45. Una storia che parte dalla violenza carnale subita, dallo stupro e dal dolore che lo accompagna, per andare oltre: come affronta tutto questo una sposa di Gesù?
La prima reazione è, necessariamente, quella a cui queste donne – “les innocentes” del titolo originale del film di Anne Fontaine – sono più abituate: la chiusura, la colpa. Tacciono ciò che ai loro occhi appare un irrimediabile peccato, portano in silenzio il fardello della vergogna, si barricano nell’oscurità del convento, così fortemente protetto da porte inaccessibili (per uscirne Marie passerà da una feritoia nel muro). Il timore di una donna comune, nel denunciare al mondo una violenza subita, si moltiplica esponenzialmente, invischiandosi tra i doveri di una figura religiosa. Così, anche quando Mathilde si confermerà in grado di porre rimedio, rimarrà presente e opprimente l’impossibilità di spogliarsi di fronte a un occhio estraneo, di essere toccate anche solo per una visita di controllo. Ed è proprio in questo duplice tormento di donne che, oltre ad esser donne, sono anche devote, che Agnus Dei trova la sua forza, facendosi un film doloroso, dal quale è impossibile distogliere lo sguardo, sebbene una morsa stringa lo stomaco dello spettatore dalla prima all’ultima inquadratura. Non c’è solamente il senso di “sporco”, di “sbagliato”, di fragilità che chiunque proverebbe di fronte a uno stupro; c’è anche la paura della dannazione, il timore di perdere la fede, e con essa, essenzialmente, il fondamento della propria vita e di se stesse. Quale Dio consente che le sue spose vengano violate? E soprattutto, perché lo fa? La sola risposta possibile sembra trovarsi proprio lì, in quella fede che si vede svanire davanti ai propri occhi: «La nostra consolazione è pregare», si ripeterà più volte nel corso del film. E sarà grazie alla preghiera, ma anche grazie alla forza morale di Mathilde – che mai le tradirà, e riuscirà a essere accolta come una figura chiave nel processo di “guarigione”, attraverso un abbraccio a metà della pellicola –, che le donne riusciranno a non perdere la speranza. Nell’incontro col mondo profano della dottoressa (che è pure atea), starà la risposta per un nuovo sguardo: i bambini non sono più un castigo, un tradimento divino, da “affidare a famiglie sconosciute” (con la tradizionale bugia del “posto migliore” che sottintende la morte), bensì doni. Una suora può essere madre? Sì, è la risposta di Anne Fontaine e degli sceneggiatori Pascal Bonitzer e Alice Vial. Una suora può essere madre, in quanto prima, ed essenzialmente, è donna. Il suo essere devota diverrà punto di forza e non chiusura verso il mondo esterno – l’apertura si avrà visivamente con un’inondazione di luce nel chiostro, e narrativamente con l’ingresso dei bambini orfani nel convento – e verso la sua “essenza”. L’essere suora non sarà più un antipodo dell’essere donna. La fede si farà valore aggiunto, e non più elemento di limitazione e di costrizione della “femminilità”.
KKatia Dell’Eva, cineforum. it, 2 dicembre 2016
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