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Scheda del film (239 Kb)
Le cose che verranno (L'avenir) - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 29 marzo 2018 – Scheda n. 23 (1025)

 

 

 

 

 

 

 

Le cose che verranno

 

 

L’avenir

 

 

 

 

Titolo originale: L’avenir

 

Regia e sceneggiatura: Mia Hansen-Løve

 

Fotografia: Denis Lenoir. Musiche: Raphael Hamburger.

 

Interpreti: Isabelle Huppert (Nathalie), André Marcon (Heinz),

Roman Kolinka (Fabien), Edith Scob (Yvette),

Sarah Lepicard (Chloé).

 

Produzione: CG Cinéma e Detailfilm. Distribuzione: Satine Film.

Durata: 100’. Origine: Francia, 2016; distribuzione in Italia: 2017.

 

 

Mia Hansen-Løve

 

 

Nata nel 1981 a Parigi, Mia Hansen-Løve entra nel mondo del cinema molto giovane: a 17 anni esordisce come attrice in due film diretti da Olivier Assayas, Fin août, début septembre (1998) e Les destinées sentimentales (2000). Il loro sodalizio, nato sul set, diventa anche un legame nella vita. Nel 2001 inizia gli studi presso il Conservatoire d’art dramatique di Parigi. Nel 2003 comincia a collaborare con una delle più autorevoli riviste mondiali, i Cahiers du Cinéma. A 22 anni debutta dietro la macchina da presa con il corto Après mûre réflexion. Del 2006 è il suo primo lungometraggio, Tout est pardonné, che vince il Premio Louis Delluc alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes ed è nominato ai premi Cèsar, gli Oscar francesi, come miglior opera prima. L’opera seconda Il padre dei miei figli vince il premio speciale della giuria della sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes del 2009. Nel 2012 la cineasta gira Un amore di gioventù, premiato al festival di Locarno. Il successivo Eden è un bel film musicale, seguito da questo Le cose che verranno – L’avenir.

Sentiamo la regista: «Il cinema, per me, è un modo di esplorare il processo interiore di una persona che è sempre in divenire. Ed è anche la possibilità di catturare l’esistenza attraverso una presenza. I film sono, per me, dei ritratti in movimento, e solo il cinema può realizzare questo. Riuscire a fissare ciò che vi è di sensibile, di carnale o anche semplicemente di effimero, così come tentare di aprire una porta verso l’impalpabile, verso l’infinito...

Cerco di miscelare ritratti della società contemporanea con una esplorazione dell’anima al fine di arrivare più lontano nella descrizione di un’interiorità. Si tratta di incarnare un destino, cercare di dargli senso, senza necessariamente passare attraverso le parole. Cerco di raccontare una verità e di trovare una forma di pienezza, di compiutezza, anche senza che le storie debbano necessariamente finire bene. Questo è ciò che mi aspetto dal cinema...

Quando scrivo mi preoccupo del ritmo, della musicalità, o di altre cose necessarie, ma molto meno della mancanza di informazioni sulla “psicologia” dei personaggi. Ciò che è necessario sapere si esprime in autonomia, senza aver bisogno di spiegarlo. Così mi sforzo piuttosto, dalla scrittura al montaggio, di sopprimere quanta più informazione possibile. Se ho la sensazione che una scena è “solamente utile”, la sopprimo. Se la tengo, è perché ha un valore esistenziale, poetico. Più che mai, ne Le cose che verranno - L’ avenir, il destino dei miei personaggi è filmato come una eterna possibilità per ricominciare. Penso sempre a quest’idea: come credere alla libertà e al destino allo stesso tempo? Ciò crea una tensione tra la convinzione che bisogna accettare di lasciarsi condurre dagli eventi e la possibilità di autodeterminarsi all’interno di questo movimento, una tensione che noi non possiamo controllare. Volevo in questo film dare l’impressione che il personaggio di Isabelle Huppert non avesse assolutamente idea non solo di cosa potesse riservarle il domani, ma neanche l’attimo successivo...

I miei film non si prestano a prove prima delle riprese, semplicemente perché la verità di ogni scena dipende moltissimo dai luoghi, dalla loro luce, dalla loro atmosfera e dall’influenza che tutte queste cose esercitano sugli attori. La sceneggiatura, la struttura, i dialoghi, sono molto importanti, ma la scommessa, durante le riprese, è riuscire a portarli in vita, e questo si raggiunge grazie alla interazione tra cast e regista, e può soltanto avvenire in quel preciso momento. Tutto questo può aver bisogno di tempo oppure può capitare velocemente, assomigliare a ciò che si aveva in mente o prendere direzioni diverse. Non ci sono regole, a parte quella di porsi in una condizione di disponibilità e di ascolto assoluto...

Io mi sono sempre sentita “fuori sincrono” con la mia età, a un livello quasi patologico, il che è un po’ il motore per la mia scrittura. Questo ha nutrito una malinconia da cui il cinema mi ha liberato. Uno scrive per liberarsi dei propri demoni, ma poi torna costantemente da loro. Quando giro un film, il mio sentimento di distanza con il mondo svanisce. Il ritmo piuttosto rapido con cui ho scritto e diretto negli ultimi dieci anni nasce da questa dipendenza verso un senso del presente ritrovato. Poco importano l’età o il sesso dei personaggi: quando preparo un film ho l’impressione di essere completamente all’unisono con loro e con me stessa. Le cose che verranno - L’avenir è il ritratto di una donna che insegna e ama profondamente il suo lavoro. Insegna filosofia: il destino di Nathalie e la sua forza di fronte alla rottura, è indissociabile dal suo rapporto con le idee, il loro insegnamento e la loro trasmissione. Non potevo avvicinarmi a ciò in modo aneddotico. Inoltre, ciò che ha reso ancora più forte il mio desiderio di filmare una professoressa di filosofia che è assorbita dal suo lavoro, è la mancanza di libertà del cinema nel rappresentare gli intellettuali o i processi contradditori del pensiero. Ci sono pochi film dove apprendiamo quali giornali leggono i personaggi, a quali idee sono legati, i dibattiti politici che li animano. Ho sempre cercato di inserire i miei personaggi nel mondo ma Le cose che verranno - L’avenir è stata per me l’occasione di assumere pienamente la relazione con i libri, con il pensiero. Si tratta di una forma di precisione che si può vedere anche come poetica: è toccante, per me, ascoltare il nome dei luoghi che attraversano i personaggi, così come quelli delle riviste che leggono o delle canzoni che ascoltano».

 

 

La critica

 

 

Inutile girarci intorno, il cinema di Mia Hansen-Løve è così. Tutto si può dire della regista francese – al suo quinto film – tranne che non faccia un cinema personale, identitario, suo. Le cose che verranno sposta l’attenzione su questioni diverse dal passato e si pone interrogativi altri rispetto ai suoi precedenti lavori, ma è innegabile che quella che inizialmente sembrava una tendenza o una forma di racconto prevalente si è tramutata rapidamente in stile.

Le cose che verranno racconta la storia di Nathalie (Isabelle Huppert), una donna sulla soglia dei sessant’anni, insegnante di filosofia, sposata e con due figli che non vivono più con i genitori. Nel giro di poco tempo, una serie ineluttabile di eventi inaspettati le sconvolge completamente la vita. Il marito la lascia per un’altra donna, l’anziana madre muore, la piccola casa editrice con cui pubblica non le rinnova il contratto e il suo vecchio studente e pupillo Fabien, dottorando in filosofia, interrompe gli studi, prende un’altra strada e si allontana sempre più da lei. C’è come un sottile fil rouge che unisce i film di Mia Hansen-Løve. Se volessimo vederli come tappe di un percorso attraverso le età della vita osservato dalla prospettiva femminile, non sarebbe difficile pensare che, ogni volta, parli di una diversa fase della nostra esistenza.

Tutto era iniziato con Tout est pardonné (2007) dove la storia di una coppia che si lascia si tramuta lentamente in quella della loro figlia seienne, che una volta adolescente, va in cerca del padre che non vede da anni. In Il padre dei miei figli (2009) la diciottenne Clémence cerca allo stesso modo di trovare suo padre, un padre che però è appena morto in maniera inaspettata sconvolgendo la sua vita e quella di sua madre e sua sorella minore. E se la giovane Camille, protagonista di Un amore di gioventù (2011) si porta dentro sino all’età adulta la travolgente e insopprimibile fiamma del primo amore, la Nathalie di Le cose che verranno è forse il riflesso maturo di ognuna di loro. Perché ciò che da sempre sta più a cuore ad Hansen-Løve è raccontare il tempo attraverso la vita (e viceversa). Come anche in Eden (2014) – l’unico nel quale la prospettiva è presa dal lato maschile – la narrazione procede per ellissi, il tempo che passa e i sedimenti che lascia sulle esistenze e sulle psicologie dei suoi personaggi sembrano conseguenze inevitabili, indelebili, impossibili da rimuovere. Anche in quest’ultimo film la protagonista è al centro di ogni inquadratura e il mondo che le sta intorno, sempre colto un po’ fuori fuoco e nel vorticoso incedere della camera a mano, sembra centrifugarla, sballottarla, confonderla. E se davvero Nathalie è idealmente l’incarnazione di ognuna delle protagoniste degli altri film, quello che la regista ci dice su di lei nel mostrarci la sua solitudine (che lei chiama libertà, come se avesse paura di definire le cose per quello che sono, proprio lei che insegna filosofia e cioè la forma di pensiero che ha fra i suoi scopi quello di trovare un nome alle cose) è che il suo ruolo è indefinibile. Smette d’improvviso di essere moglie, di essere madre, ma anche figlia. E smette di essere educatrice, di tramandare e insegnare quello che sa. Il suo ruolo borghese si smarrisce completamente, d’improvviso le sue ambizioni smettono di essere tali, il mondo le pare privo di motivazioni. E forse fa la scelta sbagliata, quella di accettare la propria condizione e di non cercare di cambiare il proprio destino finendo, anzi, per essere quello che tutti gli altri si aspettano che sia. Ovvero una donna sola, troppo vecchia per amare, per insegnare e per cercare di ritrovarsi, ma troppo giovane per andarsene per sempre. D’altra parte non c’è nulla di peggio che essere il prolungamento delle aspettative degli altri, sembra dire la regista, non c’è niente di peggio che accettare di scomparire perché la società – che ha bisogno di capire, di definire e di assegnare ruoli – decide che è così. Anche se il peggio di tutto questo forse è che la filosofia, nemmeno lei, aiuta a capirci qualcosa.

LLorenzo Rossi, cineforum.it, 18 aprile 2017

 

 

 

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The VVitch

 

di Robert Eggers

 

 

Strano titolo. Scritto sia così The VVitch che così The Witch. Un film visionario.

New England, 1630. Il rigido William dice di avere solo praticato il verbo di Cristo, ma viene giudicato e allontanato dalla comunità con la moglie e i cinque figli. Si rifugiano in una piccola fattoria ai confini di un bosco... Succede che...

Bell’esordio di Robert Eggers, stile raffinato, ottimo cast.

Durata: 92 minuti.

 

 

 

 

Giovedì 5 aprile, ore 21

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