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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
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Giovedì 11 ottobre 2018 – Scheda n. 1 (1030)
L’isola dei cani
Titolo originale: Isle of Dogs.
Regia e sceneggiatura: Wes Anderson.
Fotografia: Tristan Oliver. Musica: Alexandre Desplat.
Interpreti: Cani e umani in animazione.
Produzione: American Empirical Pictures. Distribuzione: Twenty Century Fox.
Durata: 101’. Origine: Gran Bretagna, 2018.
Wes Anderson
Bentornato signor Anderson. Wes Anderson, nato a Huston, Texas, nel 1969, è stato spesso nostro ospite al cineforum. Ha studiato in Texas, poi si è trasferito a New York dove ha conosciuto l’amico e attore Owen Wilson, che ha sceneggiato i primi tre film di Wes. Ha esordito nel 1994 con un corto, Bottle Rocket, che, grazie all’aiuto del Sundance Film Festival di Robert Redford, si è allungato fino a diventare un lungometraggio intitolato Un colpo da dilettanti (1996). Del 1998 è Rushmore, ritratto autobiografico di un adolescente capriccioso. Con I Tenenbaum (2001), racconto spigliato su una famiglia molto eccentrica, diventa conosciuto internazionalmente. Del 2005 è il suo film più singolare, con Bill Murray, Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Nel 2007 ha presentato a Venezia Il treno per il Darjeeling, film preceduto da un romantico cortometraggio, Hotel Chevalier. Dopo un bel film d’animazione tratto da un libro di Roald Dahl, Fantastic Mr. Fox (2009), Wes Anderson è tornato a raccontare una storia di ragazzi ambientata negli anni Sessanta con Moonrise Kingdom (2012). Del 2014 è il brillante The Grand Budapest Hotel. Infine ecco quest’altro film d’animazione, L’isola dei cani.
Sentiamo Wes Anderson: «È senza dubbio una delle sceneggiature più strutturate che ho scritto, eppure all’inizio il nucleo del soggetto era composto da un’idea semplicissima, quella di un branco di cani confinati su un’isola di rifiuti. Era così basilare che all’inizio non sapevo neppure perché volevo realizzarla, eppure ci ho speso anni per fare il film. L’ho sempre concepito come un film di animazione. Le idee sono iniziate a moltiplicarsi quando con Jason Schwartzman abbiamo fuso il nucleo principale con l’altra idea di ambientare un film in Giappone. La storia ha letteralmente preso il volo...
Mi sono ovviamente lasciato ispirare dal cinema giapponese, in particolare da Hayao Miyazaki e dal grande Akira Kurosawa. Per quanto riguarda l’aspetto politico del film ci siamo chiesti immediatamente chi aveva confinato i cani protagonisti sull’isola, e perché. Quando abbiamo deciso che si trattava di una mossa arbitraria del governo, tutto è scaturito di conseguenza. Se guardiamo alla storia possiamo trovare così tanti esempi di decisioni prese da governi in maniera sconsiderata e razzista che non ci siamo riagganciati a un fatto specifico. Come dicevo, ci siamo rifatti ai capolavori di Miyazaki, soprattutto al modo poetico in cui usa i silenzi nei suoi film. Ovviamente ci sono anche musiche, ma mi hanno colpito particolarmente i momenti di magnifica tranquillità. Il film che mi ha ispirato in particolare è stato Totoro. Per quanto riguarda Kurosawa, alcuni personaggi sono stati ricreati sull’eco di quelli di Toshiro Mifune. E anche i film urbani di Kurosawa mi hanno dato molte idee, anche se poi ne L’isola dei cani alla fine questo richiamo al Kurosawa urbano e neorealista non si vede. Qualche volta la fonte d’ispirazione ti porta altrove rispetto a quello che pensavi…
Ho lavorato molto con la voce degli attori per definire le psicologie dei vari “personaggi”. In realtà i cani non parlano molto durante il film, ognuno di loro ha poche battute per scena. Ma tutti gli attori che davano loro la voce hanno recitato con tale immedesimazione che ho cominciato subito a vedere Jeff Goldblum, Bryan Cranston, Bill Murray e Edward Norton in questi cani, e giorno dopo giorno sono diventati parte integrante nella costruzione delle loro psicologie...
Per me il processo di doppiaggio è molto veloce e spontaneo, con gli attori registro le prove che facciamo e molto spesso il materiale lo prendo dalle prove stesse, dove si esprimono con totale libertà di idee e nella performance. Ricordo che per Fantastic Mr. Fox il ruolo di Jason Schwartzman, che era molto importante, venne registrato in un giorno soltanto, in fretta e furia perché dovevamo partecipare a una cena che non volevamo perdere. Anche se a quel tavolo saremmo stati solo io e lui. Quasi tutto il materiale scaturì da una singola ora di registrazione, piena di tale energia e freschezza! Poi siamo andati a cena…».
La critica
Era inevitabile che la messinscena lineare del cinema di Wes Anderson prima o poi incontrasse il mondo giapponese. Un mondo a livelli orizzontali e verticali, graficamente lineare e geometrico, fatto apposta per essere riproposto attraverso l’estetica del regista americano, che ovviamente non cambia mai e qui torna in tutta la sua riconoscibilissima evidenza: inquadrature frontali, primi piani e campi lunghissimi ricchi di particolari, miniature semoventi, riduzione della realtà a segno grafico…
L’isola dei cani, ora che esiste, è in realtà il film che esisteva già. Eppure, l’immaginario giapponese, per quanto avvicinato e riadattato, non viene mai veramente riprodotto. Fin dal prologo, Anderson ricorre all’iconografia pittorica del disegno su carta e dell’illustrazione, alla pittura ottocentesca e poi al teatro nō, al manga e all’anime; ma lo fa lasciando che le immagini del suo film siano arricchite dalle infinite altre immagini del mondo a cui rimandano, e non appiattite sul semplice rimando o la semplice citazione. L’isola dei cani non è un omaggio all’iconografia giapponese. Ben oltre il semplice innamoramento del neofita, è piuttosto la ricerca di una radice comune a due mondi che dialogano per la prima volta, lo scavo oltre la forma immediata è riconoscibile da un segno, un tratto, un disegno. In questo senso, la scelta dell’animazione in stop motion è più giustificata rispetto a Fantastic Mr Fox, perché nell’estrema libertà compositiva che la tecnica comporta Anderson sonda le potenzialità del suo procedimento artistico, ne sfrutta il potenziale creativo per riprodurne paradossi e origini: ad esempio, nei movimenti circolari della macchina da presa che, ripresi da un punto di vista frontale, risultano ironicamente piatti; o nella profondità di campo gestita su più livelli, a partire dalla tipica divisione a pannelli delle abitazioni e delle scenografie giapponesi (e bravo a chi prima di oggi aveva intuito che le case di bambola di Anderson erano anche, o in realtà, delle case di bambù). Il racconto stesso del film, che a partire dalla cacciata di tutti i cani dall’ideale metropoli Megasaki (come sempre sospesa fra modernariato tecnologico e gusto passatista) porta su un’isola di rifiuti dove gli animali sono abbandonati, attraverso i fili delle linee funicolari che collegano il mare e la terraferma, rimanda all’idea di relazione e legame. La scoperta e l’accettazione dell’identità del singolo all’interno di un gruppo sociale, tema fin abusato nel cinema di Anderson, riguarda sia il rapporto fra i singoli cani (fra quelli costretti a lasciare la placida dimensione di animali domestici e quelli randagi), sia fra questi ultimi e gli uomini, chiamati a rifondare un’idea di collettività. Come sempre in Anderson, anche in L’isola dei cani la gentilezza del tratto e la carineria dell’insieme (con i soliti primissimi piani, anche canini, che mostrano il massimo dell’ingenuità di un cuore, o i segnali buffi di un mondo dolcemente stupido, dal bubolare di un gufo allo starnuto di un cane con tanto di nuvoletta del fiato trasformata in riccioli di lana…) è accompagnata da improvvise apparizioni di immagini di dolore e violenza fisica. La testa infilzata di componenti meccanici del piccolo protagonista umano del film, Atari, nipote del perfido sindaco di Megasaki, Kobayashi, che parte alla volta dell’isola dei cani per ritrovare il suo amato Spots, è un rimando all’estetica cyberpunk giapponese, e alla stessa maniera dei momenti in cui a essere richiamati sono i manga e gli anime si inserisce quasi invisibilmente nel tessuto del racconto, in una forma assorbita e riutilizzata. Non è un caso che i momenti a tecnica mista del film, con il disegno animato che si sostituisce alla stop motion, siano filtrati da schermi televisivi (rigorosamente in bianco e nero su apparecchi anni Sessanta) e da schermi di servizio; o che la scelta linguistica di far parlare gli umani in giapponese e i cani in inglese metta sullo stesso piano due universi e li faccia dialogare attraverso il commento e la traduzione simultanea in diretta. Che il cinema di Anderson non sia mai stato diretto e istintivo, che sia troppo di testa e solo per chi accetta di far parte del suo giochino intellettuale, lo si è sempre detto e saputo: ma mai come questa volta l’ennesima ripetizione di una formula fissa ha mostrato la necessità non di evolversi, ma di operare uno scavo (come in fondo indica l’ultimo movimento di macchina del film…) nella propria identità, provando a smuovere con altre tecniche, altre forme, altre culture e altri immaginari, la propria superficie piacevolmente piatta.
RRoberto Manassero, cineforum.it, 29 aprile 2018
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