in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 15 novembre 2018 – Scheda n. 5 (1034)
Good Time
Titolo originale: idem
Regia: Benny Safdie e Josh Safdie
Sceneggiatura: Ronald Bronstein, Josh Safdie
Fotografia: Sean Price Williams. Musica: Oneohtrix Point Never.
Interpreti: Robert Pattinson (Constatine “Connie” Nikas),
Benny Safdie (Nick Nikas), Taliah Lennice Webster (Crystal),
Jennifer Jason Leigh (Corey Ellman), Barkhad Abdi (Dash).
Produzione: Elara Pictures, Rhea Films. Distribuzione: Movies Inspired.
Durata: 101’. Origine: USA, 2017.
Benny e Josh Safdie
I fratelli Safdie sono nati e cresciuti nel Queens e a Manhattan, a New York. Sono perfetti cineasti indipendenti. Girano i film che vogliono, li fanno con pochi dollari, li fanno con grande passione. Cominciano insieme con The Pleasure of Being Robbed (2008) e continuano a collaborare per ogni film successivo. Hanno fondato una loro casa di produzione, la Elara Pictures. Nel 2013 presentano il loro doc Lenny Cooke al Tribeca Film Festival e alle Giornate degli Autori a Venezia. Nel 2014 tornano a Venezia con Heaven Knows What, presentato nella sezione Orizzonti. Vanno poi a Cannes dove portano questo loro Good Time nel 2017. Ormai sono coccolati da tutti i festival in giro per il mondo.
Sentiamoli: «Facciamo “film di strada”. Viviamo per le strade. Siamo ossessionati dai personaggi che vivono nel presente. Il tempo è il nemico - sempre - e il presente esiste al di fuori del tempo. I nostri personaggi non sanno mai che cosa succederà domani o tra un’ora. Sono persone trascurate, dimenticate che possono sparire in un secondo e questo è parte della loro bellezza e del loro fascino. In Good Time la nostra ossessione per gli emarginati si sposta verso un tipo diverso di americani dimenticati, il cui senso dell’“adesso” è più dettato dalla trama e dalla struttura narrativa. Più consideravamo fattori come il pericolo, l’urgenza e lo scopo, più ci trovavamo a fare un pulp thriller neogrindhouse, cioè girato con gli ingredienti che si usavano e ancora si usano nei film a basso costo con forti elementi di azione, di scontri e di ritmo...
Good Time si regge su un’immersiva interpretazione del protagonista Robert Pattinson, la cui progressiva disperazione sulla scia di una serie di disavventure e intoppi infonde alla storia energia e un ritmo mozzafiato, dando anche al famosissimo attore, che viene dalla saga di Twilight, l’opportunità di interpretare uno dei suoi ruoli più sfaccettati...
Siamo sempre stati ossessionati dal ventre molle in decomposizione della nostra società. Il soggetto dei nostri film è diventato un’analisi dell’amoralità. La migliore pulp fiction è amorale, è pericolosa e priva di centro morale. In più, è sempre importante per noi amare i nostri personaggi; sono eroi, sempre. Si rifiutano di accettare lo status quo della vita e fanno del loro meglio per lasciare il segno. In Rob Pattinson abbiamo trovato una persona estremamente piacevole e adorabile, ma anche un paradosso incredibile. Ha dato vita a una specie di fusibile: un outsider che cerca però disperatamente una connessione. Quando scrivi per qualcuno in particolare, DEVI inserire un pezzo di lui nel personaggio. Penso che la vera natura di Rob colga in Connie un senso di desiderio e di vulnerabilità che mi sembra incredibilmente tenero...
Conosciamo e amiamo il Queens, dove siamo nati e cresciuti. Volevamo catturare l’energia della zona in modo simile a La febbre del sabato sera. Connie Nikas - con il suo sogno di andarsene dal Queens - è diventato la nostra versione di Tony Manero. Conoscevo Connie, l’avevo già incontrato tante volte nella gente del Queens. Ci sono dei saputelli che riescono ad arrivare alla grande città, a Manhattan, ma che non ci vivrebbero mai. Il Queens, che è il distretto più variegato della città, ha dato i natali a grandi nomi che vanno da Simon & Garfunkel e Donald Trump ai Ramones. È anche una zona molto etnica, con interi quartieri occupati da specifiche comunità. Il Queens può sembrare molto isolato ma anche incredibilmente variegato, con luoghi inaspettati e un’iconografia di nicchia che amiamo catturare nei nostri film. Niente si presta al cinema più di questi posti che puoi trovare soltanto in quartieri molto compatti. Inizi a vedere i luoghi dove i tuoi personaggi possono andare a incassare un assegno o a comprarsi una fetta di pizza. Il Queens viene chiamato “il distretto tragico”. Le persone sono fiere di dire che sono del Queens ma c’è anche questa spinta ad andarsene e ad avere successo nella grande città, perché Manhattan è sempre stata considerata il centro di New York City. Tanta gente non ce la fa ad arrivare in centro, ed è per questo che è considerato un distretto tragico. Il Queens è sempre stato visto come una tregua rispetto alla città, un posto dove essere se stessi. Ma non è mai un bel posto».
La critica
Il cinema da sempre ci ha abituato al racconto di notti che assumono il colore dell’incubo, del dolore e della follia, nelle quali il protagonista sprofonda negli abissi della propria disperazione e dei propri errori. Sono corse contro il tempo, contro gli ostacoli messi da altri, che riflettono, allo stesso modo della città trasfigurata dalle luci notturne, storture e problemi sociali più vasti, e in qualche modo anche contro sé e le proprie colpe. Tra i tanti esempi celebri, il grottesco viaggio nella New York underground vissuto dal protagonista di Fuori orario di Martin Scorsese. (...)
Good Time, in concorso a Cannes 2017, riprende, digerisce e rielabora molti di questi topoi, aggiornandoli ai canoni di un’estetica invasiva a cavallo tra l’iperrealismo e l’onirico e, perlomeno talvolta, non lontana dagli standard tipici del videoclip. Che il film della coppia di fratelli voglia imprigionare lo spettatore in un ritmo adrenalinico e scatenato e di conseguenza renderlo il più possibile empatico verso la sofferenza, il disagio e la disperazione del protagonista e di suo fratello è chiaro fin dall’inizio, quando si viene immediatamente immersi in un prologo lunghissimo, di forte impatto e che non lascia tempo di ambientarsi, durante il quale si svolge la rapina da cui poi scaturisce l’intera vicenda e che presenta i titoli di testa quando il film è iniziato già da oltre venti minuti. Non un dettaglio, ma quasi una dichiarazione d’intenti e in qualche modo anche di stile, una maniera per trascinare immediatamente e fino in fondo chi assiste nelle psicologie dei personaggi e nelle loro condizioni. Fin da subito la cinepresa si appiccica ai primi piani dei volti, alternando piani sequenza dalla mobilità traballante a momenti dal montaggio molto serrato, con una fotografia sporca e con un costante utilizzo della musica elettronica in sottofondo; significativo da quest’ultimo punto di vista è per esempio il momento – l’entrata nella tavola calda – in cui la musica extradiegetica, cioè di commento alla narrazione, si sovrappone, mischiandosi, alla musica diegetica, che sta dentro alla scena, altrettanto ritmata, proprio in una delle fasi più tese e drammatiche della fuga successiva alla rapina. Il lavoro sulla colonna sonora, intesa nel suo significato più completo fatto di musiche e di rumori, è del resto forse l’aspetto più evidente della furia stilistica che caratterizza l’opera. Talvolta in maniera efficace, e talaltra in modo più scolastico, le sonorità di vario tipo sono l’aspetto più immediato che riflette l’abisso, materiale e psicologico, in cui il protagonista sprofonda ora dopo ora. Che più direttamente, anche nei momenti di calma momentanea e apparente che rappresentano la classica “quiete prima e dopo la tempesta”, trasmettono la sua disperazione senza via d’uscita. Disperazione è la condizione intorno alla quale ruota il baricentro di Good Time, che anche da questo punto di vista rielabora le tradizioni sia dell’heist movie, del film su una rapina, che dei film d’ambientazione notturna a cui accennavamo all’inizio. (...)
Il disagio e la malattia vengono spesso rappresentati in maniera diretta ed evidente. Si veda la sequenza dell’ospedale e in particolare il fugace incontro con l’anziana donna costretta a letto e sul punto di morire. Oppure la vitalità disperata di Corey, alla cui psiche in frantumi la dolente interpretazione di Jennifer Jason Leigh dà una forza implacabile. Malattie fisiche e psicologiche, disagi e sofferenze acquistano, tra le righe, un senso più vasto; diventano l’eco di una società in frantumi e in ginocchio, nella quale le difficoltà economiche si riflettono nelle difficoltà fisiche e mentali. È un ritratto torvo di una comunità disperata quello dipinto dai fratelli Safdie, a cui le sequenze dall’atmosfera in bilico tra l’iperrealismo di stampo scorsesiano (qua e là nel film riecheggia in particolare Taxi Driver, oltre a Fuori orario privato del grottesco) e l’onirico più dichiarato – si vedano i frequenti momenti in cui le luci delle insegne e dei semafori si riflettono nell’inquadratura in maniera totalmente antinaturalistica – conferiscono un impatto ancor più cupo e caotico, rafforzando lo spaesamento dato dal ritmo adrenalinico, dalla musica straniante e dalle altre scelte stilistiche. Il film quindi viaggia su due strade parallele e in qualche modo dipendenti: la disperazione del protagonista e quella dal significato più vasto e sottilmente sociale di chi, costantemente o occasionalmente, lo circonda e ha a che fare con lui. Con il protagonista che in qualche modo si nutre della sofferenza altrui, piegandola alle proprie disperate esigenze, in maniera sempre più esagerata man mano che la sua disperazione appare senza sbocchi. Da questo parallelismo nasce l’elemento forse più interessante del film. La definizione cioè di un personaggio estremamente ambiguo, difficile da collocare semplicemente nella categoria tipica di chi è costretto ad agire in un certo modo dalle circostanze andando contro la propria natura che tante volte si è vista in film dalla tematica e dall’impostazione simili.
EEdoardo Peretti, Cineforum, n. 570, dicembre 2017
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