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Morto Stalin se ne fa un altro - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 7 febbraio 2019 – Scheda n. 15 (1044)

 

 

 

 

Morto Stalin

se ne fa un altro

 

 

 

 

Titolo originale: The Death of Stalin

 

Regia: Armando Iannucci

 

Sceneggiatura: Armando Iannucci, David Schneider, Ian Martin, Peter Fellows,

liberamente ispirata al graphic novel La morte di Stalin

di Fabien Nury e Thierry Robins (edizione italiana Mondadori)

 

Fotografia: Zac Nicholson. Musica: Christopher Willis.

 

Interpreti: Steve Buscemi (Nikita Khrushchev), Michael Palin (Vyacheslav Molotov),

Jeffrey Tambor (Georgy Malenkov), Jason Isaacs (il generale Georgy Zhukov),

Simon Russell Beale (Lavrentiy Beria, il capo dei Servizi Segreti).

 

Produzione: Quad Productions. Distribuzione: I Wonder Pictures.

Durata: 106’. Origine: UK, 2017.

 

 

Armando Iannucci

 

 

Nato a Glasgow, in Scozia, nel 1963, Armando Iannucci è un comico, sceneggiatore e autore televisivo e cinematografico scozzese. È anche noto per le sue trasmissioni molteplici in radio, tra le quali spicca On the Hour, e in televisione, alcune molto famose come The Day Today e The Thick of It. Il padre di Iannucci è napoletano, il che spiegherebbe l’inclinazione del figlio per la satira e l’umorismo, mentre la madre è di Glasgow. Nella città scozzese il padre migrante aveva avviato un’impresa alimentare specializzata nella produzione di pizze fin dagli anni cinquanta. Armando Iannucci, il figlio, ha studiato letteratura prima a Glasgow e poi allo University College di Oxford, con un Master of Arts conseguito nel 1986. Abbandonati gli studi sulla letteratura del XVII secolo ha intrapreso dapprima una carriera teatrale. Poi è passato alla tv con apprezzate trasmissioni comiche e infine al cinema. Nel 2010 è uscito il suo primo lungometraggio, In the Loop, premiato al Sundance, il festival cinematografico di Robert Redford. Del 2012 è la serie televisiva Veep - Vicepresidente incompetente, per il canale americano via cavo HBO, pensata come una versione statunitense della sua precedente serie britannica The Thick of It. Questo Morto Stalin se ne fa un altro è il suo secondo ed esplosivo lungometraggio.

Ecco qualche dichiarazione di Iannucci: «Stavo pensando già di mio a un film sui regimi autoritari dopo aver osservato l’ascesa di movimenti nazionalisti e populisti come quelli di Berlusconi in Italia, Le Pen in Francia e Nigel Farage in Inghilterra. Una società francese mi ha contattato per propormi The Death of Stalin, ed era un’occasione perfetta perché è praticamente tutto vero, molti degli eventi assurdi e terrificanti che vedete nel film sono basati sulla realtà e meritavano di essere raccontati. All’epoca stavo ancora lavorando a Veep e sapevo che la quarta stagione sarebbe stata l’ultima per me. L’ho fatto sapere ai produttori francesi, e loro hanno aspettato che io fossi disponibile...

Un lavoro di questa portata richiede anche una certa dose di ricerca storica. Siamo andati a Mosca e al Cremlino, abbiamo parlato con gente che ha vissuto in quegli anni. Alcuni dettagli del film, come le borse già pronte vicino alle porte o le persone che andavano a dormire vestite in caso fosse necessario scappare nel cuore della notte, si basano su queste testimonianze. Abbiamo scoperto cose che non c’erano nel graphic novel da cui il film è tratto, come la storia della squadra di hockey che è sparita per colpa del figlio di Stalin. Ci siamo anche documentati sui vari personaggi, e il mio collaboratore Andrea Riseborough in particolare ha fatto molte ricerche su Svetlana, la figlia di Stalin, e ha parlato con persone che l’avevano conosciuta. Il film è una commedia, ma si basa soprattutto sull’isteria, che abbiamo voluto ricreare fedelmente...

Molte di quelle situazioni che sembrano assurde, come il concerto all’inizio del film o le reazioni alla morte di Stalin, sono eventi reali. La deviazione più significativa dalla realtà storica è la compressione degli eventi che nel film durano una decina di giorni. Per quanto riguarda il cast, mi piace sceglierlo già in fase di scrittura così posso adattarmi alla personalità degli attori, e proviamo insieme ripetutamente per due settimane prima delle riprese, così tutti sono pronti sul set e sanno non solo chi interpretano, ma anche chi sono tutti gli altri personaggi...

Stalin è una figura molto ambigua in Russia. Se ne parli con i giovani, ti dicono che alcuni lo considerano un mostro che ha ucciso molte persone, mentre altri lo ritengono l’eroe che ha vinto la guerra. Il partito comunista si è opposto all’idea che girassimo questo film, ma non ha potere sulla realizzazione dei lungometraggi; il Ministero della Cultura invece difende la libertà d’espressione. Il film ha una distribuzione in Russia, l’uscita è prevista per febbraio. Non so se ci andrò di persona, se mi invitano forse manderò un sosia...

Il titolo originale è The Death of Stalin, semplicemente La morte di Stalin. Ma mi piace molto il titolo dell’edizione italiana. Ieri sera, qui al Torino Film Festival, è stato divertente: quando il titolo è apparso sullo schermo, la gente si è messa tutta a ridere. Ci chiedevamo quale potesse essere un equivalente da noi, e in Inghilterra c’è l’espressione “The Queen is dead, long live the King”».

 

 

La critica

 

 

Nessuno è perfetto neppure dentro alla turpitudine sino ai baffoni. E così Iosif Vissarionovic Dzugasvili in arte (tirannica) Stalin, esemplare mostro del Novecento, forse perché il cinema western esaltava sempre quel qualcuno pronto ad ammazzare più di qualcun altro, non nascondeva affatto, rivoluzionando - solo per se stesso - la penitenziale ortodossia bolscevica, l’innocente predilezione per John Ford e John Wayne, anche se il Duca, solo che ne avesse avuto la possibilità, gli avrebbe volentieri sparato dove i calzoni, come i cow boy, hanno bisogno di un cavallo. Il peccatuccio borghese di cedere, in privato, alla spettacolare fascinazione dei demoni capitalistici hollywoodiani lo colse anche nell’ultima notte in dacia, quando l’ictus fatale scatenò una resa dei conti tra i suoi tremebondi e tremanti accoliti, ora raccontata nella spiazzante farsa, che strizza l’occhio alla tragedia, intitolata Morto Stalin se ne fa un altro per la firma dello scozzese (con papà italiano) Armando Iannucci. Si chiamavano Krusciov ministro dell’agricoltura, Beria capo supremo dell’apparato di sicurezza e di repressione, racchiuso nella sigla NKVD, Malenkov vice leader, i tre principali membri del Comitato Centrale che trovarono il Piccolo Padre praticamente spirato e in una pozza di mina. Per il perverso Beria era quello il momento tanto atteso di spedire il Capo sotto terra e di arraffare il potere assoluto rimasto vacante di un despota. Ma che i suoi talloni potessero stritolare a piacimento chiunque non andava troppo a genio al ciarliero e riformista Krusciov, che non impiegò molto a trascinare gli altri compagni dirigenti dalla sua parte grazie alla partecipazione del generale Zhukov, l’eroe della seconda guerra mondiale. Come al solito unanimi in tutto, anche nel far piazzare una pallottola in fronte a Beria. Così l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche cambia padrone. Erano i primi di marzo del 1953. Tratta da un graphic novel (pubblicato da Mondadori), la commedia di Iannucci ha il gran merito di non spaventarsi di fronte all’impasto di lacrime, sangue e risate, anzi si scatena nel volteggio impazzito di un teatrino dell’assurdo e del demenziale, caratteristiche intrinseche della comicità involontaria di qualsiasi dittatura. I suoi bolsi folletti si comportano in maniera seria in un contesto da opera buffa dove, però bisogna tener conto anche delle molte vittime di un regime, non ultime quelle lasciate sulle strade di Mosca dai fucili e dai mitragliatori degli scherani di Beria che volevano impedire l’afflusso di massa nella capitale per i funerali epocali. La poca lucidità di Malenkov, la lealtà esasperata e pura di Molotov, la frenesia di Krusciov, la protervia di Beria, la petulanza e il forte grado alcolico dei due orfani, Svetlana e Vasily, convergono in una convulsione di stragi, rastrellamenti, terrore, complotti con la bara in spalla, concerti radiofonici fatti ripetere perché Giuseppe il Terribile voleva una registrazione mai realizzata. E assestano al climax un tocco profondo di follia alla Marx, i fratelli, ovviamente, non Karl. La messa in scena di Armando Iannucci si preoccupa soprattutto di coreografare, dentro ad un ambiente ben ricostruito, la resa degli interpreti che da Steven Buscemi (Krusciov) a Simon Russel Beale (Beria), passando per Jeffrey Tambor (Malenkov), Michel Palin (Molotov), Jason Isaac (Zuhkov) e Adrian McLoughlin (Stalin), si rivelano maschere toccate dalla grazia dell’umorismo in nero, dove non si sa che medico chiamare al capezzale del moribondo perché l’agonizzante, ancora in salute, aveva ‘purgato’ i migliori consegnandoli al boia o ai campi di lavoro in Siberia. L’effetto è quello di uomini allo sbando che temono ancora l’ombra del trapassato, avendo trascorso troppi anni a difendersi dalle sue rappresaglie, così che alla sera tornati a casa dettavano alle mogli quanto avevano detto durante il giorno in modo da non ripetere certi errori nel trattare certi argomenti. Il gioco al massacro di schietto stampo inglese non si tradisce mai con la pietà e il politicamente corretto, sogghigna apertamente e beffardamente con grasso piacere. Il che non significa lasciar travolgere dal grottesco l’eredità urticante di un’era di criminali politici e di nefandezze. Morto Stalin, se ne fa un altro è assai chiaro nella sua satira e non si confonde mai per il divertimento gratuito. Già, perché, nonostante l’assonanza, gulag e gulash non sono precisamente la medesima cosa.

NNatalino Bruzzone, Il Secolo XIX, 4 gennaio 2018

 

 

 

 

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 di Paul Thomas Anderson

 

 

Questo è uno dei più bei film usciti la scorsa stagione. Regia di quel Paul Thomas Anderson che viene considerato ormai un grandissimo autore del cinema mondiale.

Persino un critico sempre molto misurato come Paolo Mareghetti si lascia andare all’inizio della sua recensione (entusiastica) a queste parole: «Poche altre volte ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un film così sapientemente costruito e strutturato, dove ogni scena, ogni inquadratura dà l’impressione di non poter essere che in quel posto e in quel momento».

Lui, Daniel Day-Lewis, è il famoso sarto-stilista di moda. Lei, Vicky Krieps, all’inizio non è niente ma poi...

Un mondo fascinoso. L’atelier. Vestiti e bellezza. L’odio per la sciccheria! Le mani che cuciono. La dedizione totale al lavoro. L’insinuarsi dell’amore (e una qualche ombra di insano sadomasochismo...).

Durata: 130’.

 

 

Giovedì 14 gennaio, ore 21

 

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