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Il filo nascosto - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 14 febbraio 2019 – Scheda n. 16 (1045)

 

 

 

 

Il filo nascosto

 

 

 

Titolo originale: Phantom Thread

 

Regia, sceneggiatura e fotografia: Paul Thomas Anderson.

Musica: Jonny Greenwood.

 

Interpreti: Daniel Day-Lewis (Reynolds Woodcock), Lesley Manville (Cyril Woodcock),

Vicky Krieps (Alma), Sue Clark (Biddy),

Joan Brown (Nana), Brian Gleeson (dott. Robert Hardy),

Harriet Sansom Harris (Barbara Rose), Camilla Rutherford (Johanna).

 

Produzione: Annapurna Pictures. Distribuzione: Universal Pictures International Italy.

Durata: 130’. Origine: USA, 2018.

 

 

Paul Thomas Anderson

 

 

Nato nel 1970 a Studio City, in California, Paul Thomas Anderson è cresciuto nella San Fernando Valley che nel finale del suo film Magnolia veniva biblicamente sommersa da una pioggia di rane. Abbandonata la scuola di cinema, si apre la strada con Sydney (1996). Il secondo film, Boogie Nights, stupisce tutti: storia di una famiglia che produce film porno. Il tema della famiglia fonte di dolore torna in Magnolia (1999): padri assenti, figli instabili, cicatrici del passato. Ancora un nucleo familiare in Ubriaco d’amore, premio per la regia a Cannes 2002 e tono da commedia romantico-surreale. Nel 2008 dirige Daniel Day-Lewis in Il petroliere che a inizio del Novecento tenta la scalata al potere. Ancora personaggi ai limiti in The Master (2012). Poi un grande film, Vizio di forma (2014), con Joaquin Phoenix. E adesso Il filo nascosto, storia dello stilista Reynolds Woodcock. Anderson si è anche dedicato ai videoclip: le musiche del Filo nascosto sono di Jonny Greenwood dei Radiohead. P. T. Anderson è di casa con i suoi film qui al cineforum...

Sentiamolo raccontare Il filo nascosto: «Londra, 1955: la città si risolleva dalla guerra. La regina Elisabetta II offre linfa al paese. Al centro di questa società c’è Reynolds Woodcock che veste contesse, ereditiere, grandi dame, rende coraggiosi i timidi e bellissime le persone meno attraenti. Ha un talento immenso, ma è interessato solo a se stesso e difficile. All’interno dell’atelier che gestisce con la sorella Cyril, tutto è regolato. Un giorno, una giovane immigrata dell’Est Europa di nome Alma fa il suo ingresso nella vita di Reynolds e manda in frantumi il suo mondo meticoloso con la temuta forza dell’amore. Se all’inizio gli appare come un’illuminazione temporanea, in seguito si scopre completamente rapito. Riuscirà Alma a mostrargli il segreto delle gioie condivise con un’altra persona?».

 

 

La critica

 

 

In principio, nell’Inghilterra dell’appena passato dopoguerra, c’è una donna che parla, quasi in primo piano, è seduta, dice: «Reynolds has made my dreams come true», parla a qualcuno fuori campo. Poi vediamo Reynolds – che di cognome fa Woodcock – e già dalle prime scene in cui lo seguiamo la convinzione di lei comincia, per noi, a vacillare. Possibile che sia stato proprio questo Reynolds, fatto com’è fatto, a realizzare i suoi sogni? e quali sogni? Ha già cominciato ad agire il fascino del film e noi ci mettiamo subito a raccogliere una lunga serie di momenti immagini frasi gesti rumori accuratamente studiati per attrarci. Dice la donna di aver dato a Reynolds «every piece of me». Vediamo lui al lavoro, è un couturier, “costruisce” abiti, fare un abito è pensiero, è lavoro, è stordimento, è oblio di tutto. Cosa c’è nella moda, intesa come fashion (fascino...)? C’è dell’arte, c’è potere e attrazione. C’è il bello, persino la verità: «Beauty is truth, truth beauty, - that is all / Ye know on earth, and all ye need to know», diceva Keats. Ci si abbandona a un abito?, si può vivere d’altro che non sia la fashion per chi fa abiti? Il titolo originale del film è Phantom Thread: PT, come P(aul) T(homas), come se P.T.A. nascondesse qualcosa di sé in un orlo del suo film. Non semplicemente il filo nascosto, ma il filo fantasma, il fantasma del filo che tiene insieme tutto quello che la moda è e offre e si dice che sia; e l’altro filo, ancora più fantasma, che lega la fashion affascinante con quello che non è moda e che nella vita e della vita si dovrebbe vivere. (Un punto decisamente a favore di Paul Thomas Anderson è che non porta il film nella pericolosa direzione del fantasmatico così come tiene a briglia molto corta anche il versante gotico della faccenda: la madre morta ma mai defunta e vestita da sposa, cucita da qualche parte dentro il corpo del figlio, se ne sta buona e immobile per pochi attimi contro il muro della stanza, poi sparisce. E il film torna tutto dentro sguardi corpi stoffe misurazioni, torna tutto dentro e davanti ai suoi due corpi e al modo che hanno di stare nel loro mondo.) Tre personaggi, due più una. Lui: lo stupefacente Daniel Day-Lewis, il costruttore di vestiti, oggi si dice lo stilista, ma stilista non gli piacerebbe, odia le cose chic, insulta violentemente il «fucking chic!». Lei: Alma, la giovane donna, l’attrice Vicky Krieps promossa a un ruolo di primo piano. Sempre presente, lì di fianco, Cyril, la sorella di lui, stretta collaboratrice nella maison. Il resto non conta, solo donne, le sarte, le clienti, eccetto un dottore che non serve a niente. Fra i due, fra i tre, entrano in gioco via via l’acquiescenza, il disprezzo, la provocazione, l’attrazione, soprattutto il dominio e la sottomissione, ora dell’uno, ora dell’altra, in una relazione dove ognuno e ognuna dà tenacemente il meglio o il peggio di sé. Reynolds – ripetiamo: di cognome Woodcock – vive il suo tempo con una tempistica meticolosa, in una routine collaudata e immobile, basta vedere come si lava, si fa la barba, si mette le calze bordò, si veste; basta sentire come protesta per un breakfast infestato dai rumori, anche solo il rumore del masticare, anche il burro spalmato fa rumore, anche il tè versato. Perché dovrebbe un uomo così desiderare la giovane cameriera, impacciata, modesta e riservata (all’inizio, soltanto all’inizio...) che lo serve al Victoria Hotel? Forse perché vede in lei qualcosa che non si sarebbe aspettato: lei tiene a mente tutto quello che lui ha ordinato ed è tanta roba (e lui pensa che lei sia meticolosa come lui, ma lui di sicuro di più: e sbaglia!). Comincia con questo incontro e con la cena seguente la loro storia: dove la fashion si imbroglia con l’amore voluto e non voluto, con la perseveranza di lui e di lei nel mantenere la posizione, nell’allargarla, nel cedere e nel resistere, nell’arrivare anche ad abbattere e sottomettere l’altro con l’inganno, fino all’asservimento. Per raggiungere così l’amore (quello vero, quello che ha tanti punti interrogativi). E non è che sia iniziata una “battle of the sexes”: di sesso, nella forma consueta, non c’è neanche l’ombra nel film. Vengono fuori, lungo percorso del filo, storie di superstizione (sugli abiti da sposa), una figura di madre (sulla quale Paul Thomas Anderson scivola via, senza sterzate freudiane non opportune), la sepoltura di piccoli oggetti dentro una giacca o un orlo (“never cursed”), una sfida di sguardi con lei che lo sfida: «If you want to have a staring contest with me, you will lose». Il film è come un vestito, o viceversa. Misurare, tagliare, cucire, ricamare, provare, perfezionare, indossare, ammirare. Trama e ordito. Fili e immagini sapientemente intrecciati, ritorti, ripresi, incrociati: la relazione a due (più una) è fatta di avanzamenti, regressioni, frenate, scontri, riprese, allontanamenti, ritorni. Anche di ferite e colpi velenosi (in senso non metaforico) dentro un percorso che si fa opaco, che passa, svolta dopo svolta, dopo tante svolte, da un’apparente sincerità a una sinuosa e labirintica pericolosità. Dove la sorda aggressività si manifesta come strumento per possedere chi non vuole cedere. È dentro l’imbuto del rapporto di forza che tutto questo viene ingoiato fino alla prova, ripetuta!, del dolore. Come diceva Sofocle, è nel dolore, nell’esperienza del dolore che – forse – si impara qualcosa, meglio se al dolore si viene sottoposti non in una sola dose ma in due, come fa Alma, che vuol dire nutrice (alimento) e anima (e che porta il nome di Alma Reville, la moglie di Hitchcock: anche il critico dev’essere meticoloso nel confezionare la sua recensione-abito), con Woodcock che porta per metà il cognome di Hitchcock e, badare bene, per intero Woodcock vuol dire... Paul Thomas Anderson agisce con mirabile sottigliezza di approccio, tutto il film fila via senza un attimo di sciccheria («fucking chic!»), con un perfetto supporto musicale, sia dal repertorio classico che scritto appositamente. Anderson, all’ottavo lungometraggio, controlla ormai benissimo le sue ossessioni cinematografiche: qui solo vestiti e corpi. Come Alma dice a Reynolds e anche a P.T.A.: «Whatever you do, do it carefully». Aver cura del film come Woodcock ha cura di un abito, come Alma ha cura di Woodcock. C’è, neanche troppo nascosto nel filo, tanto di quel cinema, Truffaut, soprattutto Hitchcock e, secondo me, tranquillo in un angolino c’è anche il fantasma di Buñuel. D’altra parte, insistiamo buñuelescamente, Woodcock ha metà del cognome uguale a Hitchcock e che metà... (anche se di legno e senza prurito). C’è anche tanto cinema di Paul Thomas Anderson, c’è la sua ossessione, qui meglio controllata, per il rapporto con l’altro, per il disequilibrio di ogni rapporto asimmetrico: lei ama un uomo che ama solo il suo lavoro. «Why are you not married?», «I make dresses». Tema quanto mai melodrammatico, esplorato qui però con una linearità obliquamente sicura, con modalità sottili e segrete, semplici semplici come fare una frittata con dei funghi (anche Alma è meticolosa: conosce bene il dosaggio giusto dei funghi), frittata che servirà (prima volta, seconda volta) a far capire a quella testa di... legno di Woodcock cosa vuol dire amare. In una maniera senza dubbio per niente chic. Lei ha detto a lui: «Let me drive for you». Lo fa. Il filo nascosto è la storia di Alma. Con l’invocazione all’Alma Venere e con l’armipotens Marte Woodcock abbandonato sul suo grembo inizia il De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro, poema materialista e voluttuoso, meravigliosamente e rocciosamente divino e umano. «Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas alma Venus» con tutto quello che segue...

BBruno Fornara, facebook, 5 marzo 2018

 

 

 

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Durata: 125’.

 

 

Giovedì 21 febbraio, ore 21

 

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