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Scheda del film (178 Kb)
L'intrusa - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 28 marzo 2019 – Scheda n. 22 (1051)

 

 

 

 

Lintrusa

 

 

 

Regia: Leonardo Di Costanzo

 

Sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Maurizio Braucci, Bruno Oliviero

Fotografia: Hélène Louvart. Musica: Marco Cappelli, Adam Rudolph.

 

Interpreti: Raffaella Giordano (Giovanna), Valentina Vannino (Maria),

Martina Abbate (Rita), Anna Patierno (Sabina),

Marcello Fonte (Mino), Gianni Vastarella (Giulio),

Flavio Rizzo (Vittorio, il preside).

 

Produzione: Carlo Cresto-Dina, Rai Cinema. Distribuzione: Cinema srl.

Durata: 95’. Origine: Italia, 2017.

 

 

Leonardo Di Costanzo

 

 

Nato a Ischia nel 1958, Leonardo Di Costanzo si è laureato allIstituto Orientale di Napoli, poi si è trasferito in Francia dove ha seguito i corsi di regia di cinema documentario presso gli Ateliers Varan. Questa esperienza lo ha portato ad aprire un centro per documentaristi in Cambogia insieme con il regista Rithy Panh. Ancora oggi Di Costanzo tiene corsi di regia documentaristica. Tra i suoi film ricordiamo Prove di Stato (1999), che affronta il tema della latitanza dello Stato nel comune di Ercolano e A scuola (2003), un bellissimo spaccato di vita scolastica in una scuola media di Napoli, presentato a Venezia. Vengono poi Odessa, in coregia con Bruno Oliviero (2006), e Cadenza dinganno (2011). Del 2012 è Lintervallo, premiato a Venezia e ai David di Donatello come miglior film di un regista esordiente (e visto al cineforum). Lavamposto è un episodio del film collettivo I ponti di Sarajevo (2014). Lintrusa, è stato presentato alla Quinzaine di Cannes.

Sentiamo Di Costanzo: «L’intrusa non è un film sulla camorra; è un film su chi ci convive, su chi giorno per giorno cerca di rubarle terreno, persone, consenso sociale, senza essere né giudice né poliziotto. Ma è anche una storia su quel difficile equilibrio da trovare tra paura e accoglienza, tra tolleranza e fermezza. Laltro, l’estraneo al gruppo, percepito come un pericolo è, mi sembra, un tema dei tempi che viviamo...

Non si deve andare frontalmente per capire i fenomeni, è meglio guardare a fianco, anche nei miei doc ho sempre raccontato a fianco. Qui ho scelto di vivere con coloro che si battono e contendono alla camorra uomini e territorio. Queste persone affrontano quotidianamente dilemmi morali, sono in continuo contatto con il mondo del bisogno, dei cattivi che devono cercare di recuperare. Non ci sono categorie rigide, quali magistratura o istituzioni, qui....

Cerco sempre di guardare Napoli come luogo in cui accadono drammi che riguardano l’umano, mi serve la sua particolarità per accedere all’universalità. Cerco di usare la città senza farmi usare. Per il mio primo lungometraggio, L’intervallo, molte questioni che gli spettatori mi ponevano riguardavano Napoli, qui nessuna domanda sulla città: la storia è universale...

Tema fondamentale de L’intrusa è il problema dell’inclusione di quel che noi percepiamo come cattivo, che ci mette in pericolo. Vale a dire: che cosa scaturisce quando qualcuno percepito come pericolo arriva nel gruppo del bene? Qui, chi è il male? Le mamme o il preside? Si cerca di salvaguardare il gruppo, hanno tutti ragione, Giovanna non sa se Maria si sta redimendo, perché Maria non sa chiedere, pretende...

Il film è basato su battute scritte e improvvisazione controllata all’interno di uno schema, un quadro determinato in fase di preparazione. L’intrusa ha essenzialità di racconto e regia, è diverso da L’intervallo, ha molte meno inquadrature e ogni scena un punto di vista preciso. Ed è una storia corale, tanti personaggi con pochissime occasioni per potersi raccontare, tanto da affidare al corpo, alla faccia – da qui la scelta degli attori – grande importanza...

Avevo studiato per fare l’insegnante di francese, poi, come spesso succede in questo lavoro, venni mandato in una scuola di periferia dove mi resi conto di non avere nessuno strumento per confrontarmi con dei ragazzi complicati e anche difficili. Dalla sofferenza per questa mia mancanza è nata la decisione di andare in Francia. Lì sarebbe stato più facile trovare una scuola di cinema documentario. In Italia c’era solo il centro sperimentale mentre io avevo voglia di imparare a utilizzare la macchina da presa per fare l’antropologo e negli Ateliers Varan, fondata dagli allievi di Jean Rouch, trovai l’idea di cinema che cercavo...

La maggior parte dei film che faccio sono realizzati a Napoli, e dovendo girare in una città che si lascia molto filmare, e alla quale piace farsi guardare anche nei suoi aspetti meno belli, mi sono sempre posto il problema di come non compiacerla e di quale fosse la maniera che mi permetteva di non farmi usare da lei. Fin dall’inizio il mio intento era quello di mettere la capacità di essere attori, tipica dei napoletani, al servizio di qualcosa di molto solido. Volevo sfruttare la loro capacità di muoversi nello spazio e la loro gestualità, evitando di farmi incantare dall’affabulazione della città e di quella dei suoi abitanti. Mi ricordo sempre questa inquadratura di Rossellini che filmava Napoli attraverso il vetro di una macchina al cui interno c’era Ingrid Bergman. Attraverso il vetro dell’auto si vedeva il formicolio delle persone, l’attività dei mercati, la gente. Il bisogno di questo schermo per me è stato sempre un punto di riferimento. È unimmagine che mi porto dentro e che da sempre guida il mio atteggiamento...

Noi intendevamo ricreare una sorta di isola per poi far sentire la comunità che le stava intorno; ci interessava rappresentare uno spazio limitato che però è parte di un tutto, disgiunto ma comunicante con ciò che esiste al di fuori di esso...

Quando vado al cinema come spettatore, mi accorgo di essre onnivoro. Per me andare al cinema è come andare a trovare un amico. Così succede che quando vado a vedere i film iraniani mi sembra di incontrare persone che conosco e con cui mi trovo bene...».

 

 

La critica

 

 

Allinizio Napoli è la tavola di un graphic novel, un mondo reale trasfigurato in una idealizzazione quieta. Al suo interno cè uno spazio chiuso, non privo di coordinate geografiche e temporali, ma reso unico, forse inviolabile, dalla sua originalità. Dentro la realtà, fuori dalle sue logiche. È un centro ricreativo per bambini, costruito fra i palazzi periferici dominati dalla camorra; è un doposcuola che regala momenti di condivisioni e divertimento a quelli che saranno gli adulti di domani. È uno spazio rivoluzionario, altro. Di Costanzo vi ambienta tutto il suo film, concedendo pochissimo ad altri luoghi e circoscrivendo al suo interno personaggi e linee narrative del racconto. Nel cortile del doposcuola, negli spazi esterni e interni di una comunità retta da operatori sociali e docenti, la realtà di un mondo dominato dallillegalità trova un pausa; non un ostacolo ma una sospensione. Chi è lintrusa del titolo, la u che tarda ad allinearsi alle altre lettere nel lettering iniziale? È la protagonista Giovanna, che attorno al doposcuola ha creato una comunità di adulti e bambini e gestisce i suoi spazi con un rigore e un senso della legalità così radicati da sfociare nel paradosso, o è la comunità stessa, enclave di pace in una zona perennemente in guerra? È la moglie del camorrista, che nel doposcuola ha trovato rifugio con linganno, e che lì ha deciso di rimanere nonostante larresto del marito, o la sua bambina di dieci anni, rabbiosa e scontrosa, ma desiderosa come tutti di attenzione? O forse, ancora, è quella bambina gentile che frequenta il centro ricreativo di Giovanna e che ha perso la parola dopo aver visto il padre massacrato di botte? Ciascuna di queste figure inverte linnaturale corso delle cose, tira fuori la città stessa dalle proprie tragedie e dai propri luoghi comuni, oppure riporta il sogno della comunità dello spazio a cui non può far finta di non appartenere. Il cortile e gli spazi chiusi dove si svolgono le attività per i ragazzi del doposcuola (lavori con i colori, con la cartapesta, con i pezzi di vecchie bici da ricomporre) raggruppa le infinite linee narrative di una realtà complessa, dove le ragioni di tutti, anche dei criminali, anche di chi sta dalla parte sbagliata, si confrontano con il diritto allaccoglienza e al conforto rivendicato dalla stessa Giovanna. Di Costanzo non scioglie le domande che volutamente fa nascere dal racconto: il cortile è una scena chiusa, ma al suo interno si gioca una partita aperta e decisiva fra emozione e giustizia, ragione e legge, rigore e pietà, amore e vendetta. Di mezzo cè lomicidio di un operaio vittima di uno scambio di persona, larresto del responsabile, laccoglienza di una madre scomoda e dei suoi bambini, la paura e lo scandalo della persone oneste, linflessibile moralità di Giovanna, che non chiude le porte del suo mondo a nessuno, nemmeno a chi ha sposato un assassino. Lo spazio sociale che Giovanna gestisce vive anchesso in una sorta di ideale intervallo, è una scena privilegiata, realistica e insieme fittizia, quasi melodrammatica nellevidenza delle forze che mette in campo. Più che al film precedente di Di Costanzo, però, Lintrusa rimanda ai documentari del regista sul mondo della scuola, a una figura autorevole ed eroica come la sindaca di Ercolano di Prove di Stato o il corpo dirigente di A scuola, al loro incontro quotidiano con lillegalità in uno spazio di condivisione pubblica. E forse anche alla nave cargo di Odessa, trasformata dalla Storia in un luogo strappato dal tempo e dalla realtà. Il limite del film sta nella sua stessa chiusura, nella precisione fin troppo ragionata con cui le linee narrative si intersecano e collidono, evidenziando, più che un eccesso di scrittura, un eccesso di costruzione che toglie al racconto spazi di libertà anche formale. La sua ricchezza, però, sta nel senso della misura; la consapevolezza di raccontare, in un lasso di tempo e di spazio definiti, linterruzione di un sogno, lo scandalo che potrebbe distruggerlo, e infine il ritorno alla paradossale normalità dellassurdo. Come se i dipinti, le maschere, i carri e gli uomini di ferro costruiti dai bambini nel doposcuola di Giovanna realizzassero quel mondo al contrario che è lo scopo di ogni carnevalata e nel quale, per un attimo, in un luogo minuscolo di Napoli, le coordinate della realtà sono ridefinite.

RRoberto Manassero, cineforum.it, 24 settembre 2017

 

 

 

 

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Wajib

Invito al matrimonio

 

 

 

 

 di Annemarie Jacir

 

 

 

Nazareth, città palestinese dentro Israele. Shadi e Abu Shadi, padre e figlio, nella finzione e nella vita, interpretati da Mohammed e Saleh Bakri, girano a consegnare gli inviti di matrimonio della figlia e sorella.

Tra padre e figlio cè molto da discutere: su Nazareth, viverci o andarsene, su oppressione e discriminazione. E anche su chi invitare al matrimonio...

Durata: 96.

 

 

 

Giovedì 4 aprile, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

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