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Wajib - Invito al matrimonio - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 4 aprile 2019 – Scheda n. 23 (1052)

 

 

 

 

Wajib

Invito al matrimonio

 

 

Titolo originale: Wajib

 

Regia e sceneggiatura: Annemarie Jacir

 

Fotografia: Antoine Héberlé. Musica: Koo Abuali

 

Interpreti: Mohammed Bakri (Abu Shadi), Saleh Bakri (Shadi),

Maria Zreik (Amal), Rana Alamuddin (Fadya).

 

Produzione: Ape&Bjorn, JBA. Distribuzione: Satine Film.

Durata: 96’. Origine: Palestina, 2017.

 

 

Annemarie Jacir

 

 

Nata a Betlemme, in Palestina, nel 1974, Annemarie Jacir è la prima regista ad aver diretto sia il primo corto di una donna palestinese in concorso a Cannes, sia il primo lungometraggio palestinese di una donna in assoluto. Il corto è Like Twenty Impossibles (2003). Il lungo è Il sale di questo mare (Milh Hadha al-Bahr, 2008), suo lungometraggio d’esordio. Di famiglia cristiana, ha trascorso l’infanzia tra Betlemme e Riad, in Arabia Saudita. Il padre lavorava per la UNRWA, l’agenzia ONU responsabile dei campi-profughi. A 16 anni, Annemarie si trasferì negli Usa, dove si laureò in politica e letteratura. Ha lavorato come operatrice telefonica, conduttrice radiofonica, tutrice di lingua inglese, cameraman e scenografa teatrale. Infine è stata assunta in un’agenzia letteraria di Hollywood: leggeva sceneggiature di registi e scrittori. Si accorse che venivano prodotti film sulla base di pessimi testi e decise di tentare la carriera di regista. Seguì un master alla Columbia University, a New York, e tornò in Palestina per fare cinema. Nel novembre del 2007, dopo aver finito il suo primo lungometraggio, Il sale di questo mare, le autorità israeliane le impedirono di stabilirsi definitivamente in Palestina. Si trasferì con il marito ad Amman, in Giordania, a pochi chilometri dal confine con la Palestina. Da questa esperienza, che ha definito “un esilio”, trasse ispirazione per il suo secondo lungometraggio, Quando ti ho visto. Il divieto le fu infine revocato e oggi la regista risiede nella città di Haifa, in Israele. È autrice di libri di poesie e co-fondatrice di Philistine Films, una casa di produzione indipendente giordano-palestinese.

Sentiamo Annemarie Jacir su Wajib: «Il cinema è un’arte di cui mi sono innamorata, È anche una tecnica e cerco sempre di migliorarmi. In quanto palestinese, sono ovviamente attratta dalle storie delle persone che conosco. Ma non solamente da quelle...

Il titolo Wajib nasce da una tradizione ancora oggi molto importante e sentita in Palestina. Quando qualcuno si sposa, gli uomini della famiglia, il padre e i figli, consegnano personalmente gli inviti al matrimonio a ciascun invitato, glielo danno di persona. Non consegnare gli inviti personalmente è considerata una mancanza di rispetto. La parola wajib significa essenzialmente “dovere sociale”. Quando mia cognata si è sposata, è stato dovere di mio marito consegnare gli inviti con suo padre. Decisi di seguirli silenziosamente per i cinque giorni impiegati per attraversare la città e i villaggi circostanti. Come osservatrice silenziosa a volte era divertente e altre volte doloroso. Gli aspetti di quella speciale relazione tra padre e figlio, le tensioni dell’amore che li lega, sono venute fuori a piccole dosi. Ho iniziato a lavorare così all’idea di questo film, partendo da questa fragile relazione...

Il “dovere sociale”, ciò che devi fare nella società e nella tua famiglia. È il wajib di Shadi (Saleh Bakri): aiutare il padre a distribuire gli inviti. Mentre il wajib di Abu Shadi (Mohammad Bakri) è invitare alcune persone al matrimonio, anche se sa che non potranno venire o non vorrebbe venissero. Il wajib fornisce un contesto alla mia storia: mi permette di esplorare una relazione padre-figlio e anche il funzionamento di una comunità, come ognuno dei suoi membri reagisce sia in pubblico, sia in privato. Il wajib assume una forma diversa a seconda della società. A volte può essere soffocante e persino estenuante. Ma è anche ciò che permette alle tradizioni di sopravvivere. La distribuzione degli inviti di nozze in Palestina, una terra occupata da 70 anni, è cruciale. Immagino sia come reclamare un’identità e le contraddizioni che ne derivano. Non c’è posto più legato a questa tradizione del Nord della Palestina...

Ho deciso di ambientare la storia a Nazareth, che diventa quasi il terzo personaggio del film. Nazareth è la più grande città della Palestina “storica”, ora Stato d’Israele, i cui abitanti sono palestinesi cristiani (40%) e musulmani (60%) con la piccola minoranza palestinese che ha preferito rimanere piuttosto che vivere una vita da rifugiati, anche se sono stati costretti ad avere documenti d’identità israeliani. Con una popolazione di 74.000 abitanti in una superficie ridotta, le condizioni di vita sono tese, con una forte competizione per le abitazioni, una grande mescolanza tra le persone. Sotto molti aspetti, Nazareth è diventata oggi un ghetto. Sono uomini e donne che si battono per i loro diritti e per delle risorse limitate. Il popolo di Nazareth possiede una grande umanità, tanto umorismo e voglia di vivere. Ma per me, Nazareth, è una città di sopravvissuti…

Padre e figlio trascorrono buona parte del film in auto. Questa vecchia Volvo, piena di ricordi, era la loro auto quando la famiglia era unita ed è tutto ciò che rimane loro di quel periodo. Mi piaceva l’idea di rinchiuderli in questa macchina, dove sarebbero stati costretti a parlarsi e confrontarsi l’un l’altro. Wajib è il mio film con più dialoghi e ciò che mi interessava di più era tutto ciò che il padre e il figlio non si dicevano o non si sono mai detti. Li ho mostrati così come sono quando sono soli in macchina, e come sono invece quando vanno di casa in casa, dove sono obbligati a recitare un ruolo. Mi è anche piaciuta l’idea che il film si svolgesse in un solo giorno...

Shadi e Abu Shadi distribuiscono i loro inviti a parenti, amici, colleghi. Tra loro ci sono cristiani, musulmani e anche degli atei. In questo periodo dell’anno, le immagini di Natale sono presenti ovunque, indipendentemente dal tipo di religione. Siamo pur sempre a Nazareth, nella città di Gesù, come dice la zia di Shadi».

 

 

La critica

 

 

In arabo wajib significa dovere, qualcosa che bisogna compiere. Nel film di Anne-Marie Jacir si riferisce alla tradizione che vuole consegnare di persona, a ognuno degli invitati, le partecipazioni di nozze. Non succede altro in Wajib - Invito al matrimonio, che inizia con il padre e il fratello della sposa (Mohammad Bakri e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella realtà) che salgono in macchina e cominciano a girare per Nazareth per consegnare gli inviti per il matrimonio della figlia (e sorella) Amal (Maria Zreik). Eppure in ogni scena succede qualcosa. O meglio: in ogni scena scopriamo qualcosa, che ci aiuta a capire meglio il peso della tradizione (da cui il titolo del film) ma anche lo scontro generazionale, la vita in una città palestinese diventata parte dello stato d’Israele, le rabbie e i compromessi che questa situazione comporta, il ruolo delle donne, il peso delle usanze. E molto altro ancora, tutto girando in macchina per consegnare le partecipazioni come tradizione vuole. A reggere il film, che non ha mai un momento di cedimento, è la regia della Jacir (classe 1974, qui al terzo lungometraggio dopo alcuni corti, tutti inediti in Italia) capace di inseguire un equilibrio perfetto tra la normalità dei fatti raccontati e l’eccezionalità della situazione, umana e politica, in cui i due protagonisti si muovono. Una messa in scena che scivola come lungo un invisibile filo, teso sopra le tante ‘trappole’ possibili, a cominciare da un approccio troppo didascalico o troppo ideologico, e che invece il film sa evitare con abilità. Una leggerezza, ci tengo a sottolinearlo, che non è mai superficialità o sciatteria ma che rivela invece un’idea ben precisa non solo di cinema ma anche di vita e di coscienza. A cominciare dalla tensione sotterranea ma evidente (e che in passato dev’essere stata anche drammatica) che ogni tanto torna a mettere il padre contro il figlio. Il primo è un rispettato professore di scuola che spera, quasi alla fine della carriera, di essersi meritato la promozione a preside, per la quale è disposto anche a qualche compromesso, come la frequentazione e il conseguente invito al matrimonio per un collega israeliano che probabilmente è anche un informatore della polizia e dei servizi segreti. Una ‘spia’, taglia corto il figlio architetto, che è tornato per il matrimonio dall’Italia dove si è trasferito e da cui ha assorbito un più disinvolto modo di vivere (per esempio non pensa di sposarsi con la ragazza palestinese, figlia di un esponente dell’Olp in esilio, con cui divide la vita). E che può permettersi un rigore ideologico che invece chi ha scelto di continuare a vivere in Palestina può scambiare per furia ideologica. Tutto però è raccontato per allusioni, per piccoli indizi, che escono dai dialoghi e che poi finiscono immediatamente per nascondersi tra le parole, tra un caffè offerto per ringraziare della partecipazione o un pettegolezzo ascoltato da dietro una finestra. Perché a metà film circa anche lo spettatore scoprirà che la mancanza della figura della madre si spiega con una fuga per amore, quella della moglie e della madre dei due protagonisti, scandalosamente emigrata in America con l’uomo che amava. Una decisione faticosa da accettare anche a distanza di anni e che getta una luce diversa sui discorsi - di solitudine, di rassegnazione, di dolore - che ascoltiamo tra una consegna di un invito e l’altra. Come quello dell’amica avvocato (Iama Tatour), la cui storia d’amore finita male si è trasformata nella silenziosa ‘condanna’ sociale verso una donna che ha conquistato l’indipendenza nella professione ma che fatica a sentirsi libera nella vita privata. Una contraddizione che torna a interrogare lo spettatore nella scena in cui la futura sposa prova l’abito da sposa, divisa tra la tentazione ‘all’occidentale’ di un vestito che ne mette in risalto le forme e la voglia di una tradizione di cui la mancanza della madre è perfetta metafora. In un continuo gioco di rimandi tra le ragioni del presente e le giustificazioni del passato, tra le speranze e i compromessi, dentro un film che non vuole dividere le persone tra chi ha ragione e chi no ma piuttosto metterci davanti agli occhi le tante ragioni di tutti.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 17 aprile 2018

 

 

 

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Come ogni anno: silenzio assoluto, sorpresa totale. Ordine alfabetico: lettera dell’alfabeto/paese/film. Albanese? belga? canadese? danese? egiziano? finlandese? giapponese? haitiano? indiano? islandese? kazako? liberiano? marocchino? neozelandese? olandese? peruviano? qatariano? rumeno? senegalese? tunisino? ugandese? vanuatese?  yemenita? zambiano? Non esistono stati che abbiano per iniziale la j, la w e la x. Possiamo dire la durata del (bel) film: 101 minuti.

 

 

 

Giovedì 11 aprile, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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