in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 2 maggio 2019 – Scheda n. 26 (1055)
Un affare di famiglia
Titolo originale: 万引き家族- Manbiki kazoku
Regia e sceneggiatura: Kore-Eda Hirokazu
Fotografia: Ryūto Kondō. Musica: Haruomi Hosono.
Interpreti: Kirin Kiki (Hatsue Shibata), Lily Franky (Osamu Shibata),
Sôsuke Ikematsu (4 ban-san), Sakura Andô (Nobuyo Shibata),
Mayu Matsuoka (Aki Shibata), Jyo Kairi (Shota Shibata),
Miyu Sasaki (Yuri), Chizuru Ikewaki (Miyabe Kie).
Produzione: Aoi Promotion. Distribuzione: BIM.
Durata: 121’. Origine: Giappone, 2018.
Kore-Eda Hirokazu
In giapponese il cognome va prima del nome: quindi il regista fa, di cognome, Kore-Eda. Nato a Tokyo nel 1962, si laurea alla Waseda University nel 1987, poi entra nella TV Man Union dove dirige molti e premiati documentari. Nel 2014, fonda la casa di produzione Bun-Buku. Nel 1995 debutta alla regia con Maborosi, tema: il suicidio, film che vince l’Osella d’Oro alla 52ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. After Life (1998) è un film sui deceduti da poco e sul loro arrivo nell’aldilà, film che distribuito in più di 30 paesi permette a Kore-Eda di raggiungere una fama internazionale. Nel 2001 con Distance, ancora sui suicidi, partecipa al Festival di Cannes. Yagira Yuya, il protagonista del suo quarto film, Nessuno lo sa (Nobody Knows, 2004, quattro fratelli abbandonati dalla madre), è l’attore più giovane che abbia ricevuto il premio come migliore attore al festival di Cannes. Nel 2006 realizza Hana, sul tema della vendetta, suo primo film in costume. Del 2008 è Still Walking, film drammatico sulla famiglia con il ritorno a casa di due fratelli per la commemorazione funebre del terzo. Del 2009 è Air Doll presentato a Cannes. Nel 2011, I wish vince il premio per la migliore sceneggiatura al festival di San Sebastian. Dopo la regia della serie televisiva Going Home, arriva Father and Son (2013), premio della giuria a Cannes, presentato al cineforum, così come sono stati presentati qui al cineforum il successivo Little Sister (2015), premiato a Cannes, e anche Ritratto di famiglia con tempesta (2016). Del 2017 è The Third Murder, in concorso a Venezia. Il suo film più recente che presentiamo stasera, Un affare di famiglia (2018), ha vinto a Cannes la Palma d’Oro. Il film ha anche un titolo internazionale, Shoplifters, che significa i taccheggiatori, chi rubacchia la merce nei negozi. In alto su questa scheda potete anche leggere il titolo originale in ideogrammi e, più comoda, la sua trascrizione. Sul traduttore di Google il titolo originale 万引き家族 viene tradotto proprio con Famiglia di taccheggiatori, che è proprio la storia che si vede nel film (viva Google!).
Sentiamo il regista: «Sono partito da una frase che mi girava nella mente: “Solo i crimini ci tenevano uniti”. In Giappone, reati quali frodi alle pensioni e incoraggiamento al taccheggio da parte dei genitori sono severamente criticati. Ed è giusto che lo siano, ma mi domando perché la gente si infuria tanto per quelle infrazioni minori quando reati ben più gravi restano impuniti. Soprattutto dopo il terremoto del 2011, non mi trovavo a mio agio con quelli che continuavano a dire che i legami familiari sono importanti. Così decisi di approfondire l’argomento raccontando una famiglia legata dal crimine. Il tema di questo legame è centrale ma ad esso si aggiungono altri elementi. Ho riflettuto su quali elementi si prestavano per un’analisi più approfondita dopo aver completato il casting. Il risultato è che questo film è pieno dei vari elementi cui ho pensato e che ho indagato negli ultimi 10 anni. È la storia del significato della famiglia, la storia di un uomo che cerca di essere padre e anche quella di un ragazzo che diventa adulto...
Un affare di famiglia può assomigliare al mio film Nessuno lo sa nel senso che anche questo film osserva da vicino quel tipo di famiglia “punita” che vediamo regolarmente nelle cronache dei giornali. Non era mia intenzione descrivere semplicemente una famiglia povera o gli strati più bassi della società. Credo piuttosto che la famiglia del film abbia finito per riunirsi in quella casa per non arrendersi. Volevo gettare una luce diversa su quella famiglia. Le ultime scene del film in cui la famiglia viene divisa sono strazianti. Non avevo mai messo nei miei film tanta rabbia nei confronti dell’ingiustizia della società mostrata così crudamente. Si può dire che il sentimento centrale mentre giravo quel film fosse la “rabbia”. A partire da Still Walking ho scavato sempre più disperatamente a fondo nel dominio delle cose personali e, dopo aver ultimato Ritratto di famiglia con tempesta, ho abbandonato questo approccio secondo il quale la mia visione non si allargava alla società ma si riduceva il più possibile. Si potrebbe dire che sono tornato al mio punto di partenza...
Prima delle riprese pensavo a questo film come a una sorta di favola e cercavo modi per trovare e costruire poesia nella realtà. Anche se il film voleva essere realistico, desideravo mostrare la poesia degli esseri umani e la fotografia e la musica si sono avvicinate alla mia visione. In questo film, la musica cattura il lato fantastico della storia».
La critica
La ricomposizione di una famiglia o la sua progressiva disgregazione: il cinema di Kore-eda si muove fra questi due poli interrogandosi a ogni nuovo passaggio sull’idea di appartenenza, sui legami di sangue e sulla scelta degli affetti. La famiglia di Un affare di famiglia (Shoplifters), nonna, due figlie adulte, il marito di una delle due e un bambino, a cui a pochi minuti dall’inizio del film si aggiunge una bambina affamata e maltrattata dai genitori, è un nucleo unito e inscalfibile, a differenza di quella lacerata dal lutto di Still Walking, di quella distrutta dalla separazione di Ritratto di famiglia con tempesta, o ancora di quella sconvolta dalla rivelazione di uno scambio in culla di Father and Son. Tutti quanti vivono stipati ma sereni in una minuscola abitazione che forse occupano abusivamente, circondati da oggetti, vestiti e ciarpame vario, mangiando il cibo che il padre e il figlio rubano nei supermercati. Sono una famiglia di piccoli ladri, la nonna percepisce ancora la pensione del marito morto, la madre ha un lavoro part-time che a un certo punto perde, la sorella minore si esibisce come ragazza in vetrina, il padre ogni tanto lavora nei cantieri ma il più del tempo lo passa escogitando col figlio vari modi per tirar su il pranzo e la cena. L’arrivo della nuova bambina è un’occasione felice per donare amore e calore, niente di più. «Sembra un rapimento di persona», obietta il padre; «No», gli risponde la moglie, «perché non chiediamo alcun riscatto e le diamo da mangiare». E poco dopo, stringendola forte in un abbraccio materno, le insegna la differenza fra un amore che fa male e un amore che semplicemente coccola e scalda. Kore-eda filma questo mondo isolato e felice, fuori dalla geografia di una città imprecisata e fuori dalla legge, con piani fissi ingombri di oggetti e di figure, non soffocante e nemmeno accogliente, ma reso vivo dai colori caldi e variopinti...
Per più di un’ora di film, dipinge i suoi ladruncoli, i suoi shoplifter, come dei reietti colpevoli ma felici perché gentili; chiusi al mondo ma aperti l’uno all’altro. Nei pochi momenti in cui si trovano all’esterno, a lavorare, rubare, vivacchiare, la casa è il loro solo e unico punto di rifugio. L’inevitabile dissoluzione di questo idillio arriva proprio attraverso la scomposizione della messinscena allestita dal regista: il tempo, con le stagioni che passano dal gelo dell’inverno alla luce cangiante dell’estate, detta il ritmo della narrazione, non la sospende più nella ripetizione della prima parte, ma conduce a una rivelazione destabilizzante; lo spazio, invece, che con l’arrivo della bella stagione comincia a premere dall’esterno e a entrare senza chiedere il permesso. In un momento assolutamente magnifico, tutto questo avviene riassunto e compresso nello spazio della casa: il padre e la madre, finalmente soli, mangiano spaghetti freddi nel caldo dell’estate e a un certo punto decidono di fare l’amore; improvvisamente la luce fuori dalle finestre cambia colore, da solare si fa cupa, arriva un temporale, e i loro due bambini, sorpresi dall’acqua, entrano in casa per ripararsi, quasi rischiando di vederli nudi. È l’inizio della fine, non una scena primaria, perché qualcosa non torna in questa famiglia dove non si usano le parole “mamma” e “papà”, ma l’irruzione del mondo che rompe come un grimaldello il guscio protettivo della famiglia. Prima arriverà la morte (ancora occultata nello spazio della casa, non orizzontale ma verticale…), poi il dubbio (dei personaggi e con essi dello spettatore), poi infine la legge. Kore-eda, limpido al limite dello schematismo eppure pulito e dolce, toglie luce e colore al suo film, spoglia le inquadrature, isola i personaggi. Non li punisce, ma paradossalmente li mette di fronte alla libertà più grande: quella di scegliere. Scegliere di dire la verità, scegliere a quale famiglia appartenere, scegliere se perdonare e ricominciare. Non c’è colpa, non c’è pentimento. La legge non stabilisce una morale, come già succedeva nel precedente The Third Murder, in cui di un omicidio non contavano la ricostruzione o addirittura la rappresentazione, ma la sua interpretazione da parte dei personaggi. A stabilire la morale dei comportamenti sono gli uomini e le donne, al di là delle abituali carinerie del racconto bozzettistico o dell’altrettanto usuale spietatezza delle decisioni e delle parole: e qui sta l’umanesimo di fondo di questo regista straordinario, che da sempre lavora sul tema del doppio e dell’assenza, e ogni volta (almeno da Nobody Knows in poi), giocando sulla ripetizione e la differenza, usa i pezzi consueti del suoi puzzle per trovare una soluzione diversa, un nuovo ritratto, una nuova possibilità.
RRoberto Manassero, cineforum.it, 13 settembre 2018
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