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Dolor y gloria - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 17 ottobre 2019 – Scheda n. 1 (1057)

 

 

 

 

Dolor y Gloria

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Pedro Almodóvar

 

Fotografia: José Luis Alcaine. Musica: Alberto Iglesias.

 

Interpreti: Antonio Banderas (Salvador Mallo),

Asier Etxeandía (Alberto Crespo), Leonardo Sbaraglia (Federico),

Nora Navas (Mercedes), Julieta Serrano (Jacinta anziana),

Penélope Cruz (Jacinta giovane), Asier Flores (Salvador bambino),

César Vicente (Eduardo).

 

Produzione: El Deseo. Distribuzione: Warner Bros.

Durata: 108’. Origine: Spagna, 2019.

 

Pedro Almodóvar

 

Nato nel 1949 a Calzada de Calatrava, in Castiglia, La Mancia, Pedro Almodóvar a 8 anni si trasferisce con la famiglia in Estremadura, dove studia dai frati francescani e salesiani. A 16 si trasferisce a Madrid alla Scuola Nazionale di Cinema. Lavora per dodici anni nella società Telefónica, si interessa di cinema e di teatro d’avanguardia, è membro del gruppo teatrale Los Goliardos, pubblica fumetti e racconti in riviste underground, gira una decina di cortometraggi, poi i suoi primi lungometraggi, Folle... folle... fólleme Tim! (1978), Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980), Labirinto di passioni (1982), L’indiscreto fascino del peccato (Entre tinieblas, 1983), Che ho fatto io per meritare questo? (1984) e Matador (1986). Grande successo ottengono La legge del desiderio (1987) e soprattutto Donne sull’orlo di una crisi di nervi, nominato agli Oscar (1988). Lavora con alacrità: Légami! (1990), Tacchi a spillo (1991), Kika - Un corpo in prestito (1993), Il fiore del mio segreto (1995), Carne trémula (1997). Con Tutto su mia madre (1999) vince l’Oscar per il miglior film straniero. Nel 2003 vince l’Oscar per la miglior sceneggiatura con Parla con lei (2002). Gli ultimi suoi film sono La mala educación (2004), Volver - Tornare (2006), Gli abbracci spezzati (2009), La pelle che abito (2011), Gli amanti passeggeri (2013), Julieta (2016), fino a questo Dolor y Gloria, in cui riflette sulla sua vita, sul passare del tempo, sul fare cinema: sul vivere. La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia gli ha attribuito quest’anno il Leone d’oro alla carriera.

Sentiamolo: «Lascio indietro il passato. In questo momento della mia vita la mia unica dipendenza è dormire otto ore a notte e sapere che farò un nuovo film. Proprio come succede al mio personaggio, che soffre all’idea di non essere in grado di gestire fisicamente il set. La mia dipendenza, oggi, è il cinema, sia come spettatore che come regista...

La gloria può essere molte cose. Nel film la gloria è evidente perché, nonostante i suoi dolori, il personaggio vive in un bell’appartamento, circondato da opere d’arte. Il dolore che prova questa persona non ha niente a che vedere con quello che provano molti altri. Anche il dottore gli dice che tante persone soffrono molto più di lui. Il dolore è relativo. La gloria può essere un ostacolo: per alcuni di più. La mia ambizione è sempre stata quella di raccontare storie nel modo più personale possibile, voglio che mi rispecchino in ogni dettaglio. È una cosa molto rischiosa, ma per me il successo si misura in base a se riesco a fare il film che ho in mente, nel bene e nel male: gli errori che ho fatto sono miei. Sono il padrone della mia carriera: per me questo è il successo. Bisogna rimanere lucidi e con i piedi per terra...

Anche se questo film crea l’illusione che sia il mio ultimo, ho già cominciato a scriverne un altro. Per me la vera paura non è quella di non poter gestire il set fisicamente, ma di non essere più in grado di affrontarlo con passione. Se una storia non ti appassiona devi avere il coraggio di rinunciarci. Il miglior modo per combattere questo fantasma è trovare sempre storie che ti appassionano e ti interessano...

Ho proiettato me stesso nel film, ma non racconto la mia vita in modo letterale. Racconto temi a cui tengo, come il desiderio, la famiglia, la creazione, ma sarei terrorizzato dal dover raccontare la vita reale, soprattutto quella di altre persone. Non so dare una percentuale di quanto ci sia nel film di vero e quanto di finzione, ciò che importa è come le due cose si mescolano. La scena in cui la madre dice a Salvador che non è stato un bravo figlio è stata improvvisata, l’ho scritta la sera prima. È una frase brutale: il figlio si scusa per non essere stato quello che la madre avrebbe voluto e lei rimane in silenzio. Non ho mai avuto questa conversazione con mia madre, ma quando stavamo girando il film ho sentito che dovevo inserirla. Durante le riprese un film è ancora vivo, non finisce mai di evolvere e con lui la scrittura. Un film è finito solo quando chiudi il montaggio. Alla fine mi sono accorto che avevo bisogno di questa scena in più. Fin da piccolo ho guardato il mondo con occhi diversi e quando sei piccolo vedere in tua madre un sentimento di rifiuto, quasi come io fossi un estraneo, è qualcosa di davvero crudele. Questa scena mi commuove tanto perché racconta il senso di estraneità che a volte c’è tra genitori e figli».

 

La critica

 

Il potere della cinefilia e della memoria. Avrebbe potuto anche intitolarsi così, Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar, sorprendente meraviglia della tarda maturità, sorprendente non perché il regista non ci abbia già fornito prove maiuscole in passato quanto per la sensazione che si trovasse in una fase calante della sua carriera. E invece, come già accaduto in altri casi, l’opera dell’autore si impenna all’improvviso proprio per la sincerità e la spudoratezza con cui mette in scena autobiograficamente la sua vita (opportunamente riletta in chiave poetica, s’intende), con l’aiuto di un formidabile Antonio Banderas, alla prova più importante della sua intera carriera. (...)

La memoria è il tema fondamentale di Dolor y Gloria. La memoria della madre, la memoria dell’amico perduto, la memoria dei film, la memoria di se stessi quando si invecchia e il meglio sembra alle spalle. La mossa vincente di Almodóvar è quella di fare del suo protagonista, ovvio alter ego, un personaggio dominato dal proprio corpo. In una delle sequenze più belle e spiazzanti, la sua voce fuori campo commenta un catalogo di disagi e disturbi fisici di cui soffre, mentre sullo schermo osserviamo disegni, anatomie, radiografie, in uno strappo visionario che non sarebbe dispiaciuto a Saul Bass, essendo del resto Alfred Hitchcock un fantasma sempre presente in tutta la filmografia almodovariana, e la musica di Bernard Herrmann ancora una volta ispirazione per la colonna sonora (fulgida) di Alberto Iglesias. Il corpo di Salvador è sempre presente, e suscita tutti i ricordi e le nostalgie, spesso in uno stato di dormiveglia causato da medicine, droghe e crisi che lo riducono in uno stato narcotico. Da lì, a raggiera, il cineasta spagnolo fa nascere una serie di satelliti narrativi struggenti, grazie ai quali può fare i conti con l’arte, l’infanzia, la cultura latina, l’omosessualità, e molto altro ancora, pur con la capacità di gestire questi interrogativi universali attraverso il prisma della singolarità, della storia personale e dell’intimità. In questo modo, Dolor y Gloria diventa uno dei film più importanti di Almodóvar, più belli da vedere e più commoventi, oltre che più onesti. Con l’amore e con l’arte non si possono vincere né le infelicità né i problemi del mondo. E anche quando come spettatori - come cinefili - tifiamo per Marilyn Monroe in Niagara o per Natalie Wood in Splendore nell’erba (due film di cui vediamo estratti espliciti sullo schermo), il film ancora una volta non modifica il suo finale; e chissà se il regista madrileno non abbia voluto anche citare Nanni Moretti e la scena di Il dottor Zivago di Palombella rossa. Anzi, chissà se Dolor y Gloria non sia - invece che il suo - il suo Palombella rossa, uscito proprio trent’anni fa. Infine, questo film è naturalmente un nuovo “almodramma”, un melodramma rimescolato da Pedro, dove si ritrovano Sirk, Stahl, Kazan e Fassbinder in un colpo solo, ma senza furia fiammeggiante o maestrie postmoderne, caso mai con la quieta nostalgia di Bergman e del suo Il posto delle fragole. Capolavoro.

RRoy Menarini, mymovies, 19 maggio 2019

 

 

 

 

 

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L’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi. 31 anni. Tra caserme, carabinieri, medici, ospedali. Un’odissea tragica. Una delle più orribili vicende di questa nostra Italia. Tenuta nascosta per anni. Finalmente emersa alla luce, anche grazie a questo film. La verità su una storia vera, la solitudine, anche le debolezze di un uomo dentro un sistema che non sa vedere, non vuole vedere.

Durata: 100 minuti.

 

 

 

Giovedì 24 ottobre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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