in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 14 novembre 2019 – Scheda n. 5 (1061)
Il colpevole
(The Guilty)
Titolo originale: Den skyldige
Regia: Gustav Möller
Sceneggiatura: Gustav Möller e Emil Nygaard Albertsen.
Fotografia: Jasper Spanning. Musica: Carl Coleman e Caspar Hesselager.
Interpreti: Jakob Cedergren (Asger Holm), Jessica Dinnage (Iben),
Omar Shargawi (Rashid), Johan Olsen (Michael),
Jakob Ulrik Lohmann (Bo), Katinka Evers-Jahnsen (Mathilde),
Jeanette Lindbæk (collega Selandia Nord), Simon Bennebjerg (drogato).
Produzione: Lina Flint, Nordisk Film Spring. Distribuzione: Movies Inspired.
Durata: 85’. Origine: Danimarca, 2018.
Gustav Möller
Nato a Göteborg, in Svezia, nel 1988, si è diplomato, nel 2015, alla National Film School of Denmark con il corto In Darkness che ha vinto il Next Generation Award al festival di Haugesund. The Guilty è il suo primo lungometraggio. Non si hanno di lui altre notizie. Il film è stato presentato in decine e decine di festival in giro per il mondo, dal Sundance al Torino Film Festival, e ha raccolto moltissimi premi.
Sentiamo il regista: «Credo che, nei film, le immagini più forti, quelle che rimangono maggiormente impresse, siano quelle che non si vedono. L’idea originale del film mi fu ispirata da una telefonata reale, effettuata al 911, da una donna che era stata sequestrata. La donna stava viaggiando su un’automobile e, siccome era seduta a fianco del suo rapitore, era costretta a parlare in codice. Inizialmente rimasi colpito, come lo sarebbe stato qualsiasi altro ascoltatore, dalla suspense della chiamata, ma poi incominciai a riflettere su ciò che la rendeva così intrigante. Anche se avevo ascoltato soltanto una registrazione mi era sembrato di potere vedere le immagini. Ero riuscito a vedere la donna, la macchina su cui si trovava, le strade che la vettura percorreva e anche il rapitore seduto accanto a lei. Compresi che ogni singola persona, ascoltando quella telefonata, avrebbe potuto visualizzare immagini differenti: una donna diversa, un diverso rapitore e così via...
Ci sono due misteri nel film: quello del sequestro e il segreto di Asger, il poliziotto. È stata una sfida stimolante farli evolvere in parallelo sullo schermo... Il film è molto strutturato, pianificato, ma con un po’ di spazio per modifiche sul set. L’ambientazione unica ci ha permesso di girare le scene in ordine cronologico, quindi era possibile discutere un po’ su come impostare una determinata sequenza in base al lavoro fatto il giorno prima. A differenza di altri film dove si parla al telefono, gli interlocutori del poliziotto sono dei suoi colleghi attori. Tutte le conversazioni telefoniche erano con un gruppo di attori che avevano una stanzetta in fondo al corridoio con l’attrezzatura necessaria, un po’ come un radiodramma. E il casting degli interlocutori è stato fatto in base alla voce: ci servivano attori in grado di creare personaggi a tutto tondo senza che li vedessimo...
Il film ha fatto il giro di festival prestigiosi in tutto il mondo. L’esperienza è stata molto emozionante. Soprattutto perché abbiamo potuto sondare le reazioni del pubblico, dato che il film è stato concepito in modo tale da rendere gli spettatori co-autori. Gli spettatori sono rimasti colpiti in particolar modo dall’impressione di aver visto tutti i luoghi che sullo schermo sono solo dei suoni e rumori. Abbiamo vinto vari premi del pubblico un po’ ovunque, il che dimostra che la mia idea ha funzionato. È un film da vedere in sala, col pubblico, perché si crea un’energia speciale grazie alla suspense di un progetto come questo».
La critica
Estremizzando, si può considerare ogni singolo momento di tensione all’interno di una narrazione una questione morale. Perché è vero, come sostiene uno dei padri nobili della tensione cinematografica, Noël Carroll, che nella maggior parte delle occasioni la suspense si attiva quando l’esito di una situazione incerta propende verso un risultato intollerabile da un punto di vista morale. Altrimenti, fatto salvo il criterio d’identificazione con il protagonista, a chi importerebbe dell’esito di tale situazione? The Guilty - Il colpevole, opera prima di un trentenne danese (ma svedese di nascita), Gustav Möller, premiato in una quantità imprecisata di manifestazioni, tra cui al Sundance (premio del pubblico) e al Torino Film Festival (migliore sceneggiatura e miglior attore a Jakob Cedergren), è un tipico esempio di quanto appena espresso. Fatto con poco ma con grande finezza, rinverdisce un po’ per vocazione un po’ per necessità l’esigua lista di vicende concentrazionarie, costrette in un unico angusto luogo, che sia esso una stanza con vista sul cortile (o occupata da un ingombrante baule sullo sfondo di una New York fittizia), una scialuppa di salvataggio, una cabina telefonica o un’automobile con cui cercare di riassestare in qualche modo la propria vita.
Möller punta tutto su una sceneggiatura dettagliatissima (scritta con Emil Nygaard Albertsen), su due stanze (un centro operativo e un vano attiguo) e su un unico protagonista sul quale la macchina da presa indugia per tutta la durata del film, relegando i pochi colleghi a sagome indistinte, sfocate o prive di una reale identità perché decapitate dal taglio delle inquadrature. Il poliziotto Asger Holm è un uomo solo, solo con la sua colpa e la sanzione disciplinare che lo rende un estraneo rispetto al contesto lavorativo: in attesa di comparire davanti al tribunale che ne accerterà le responsabilità, è stato declassato alle chiamate d’emergenza. Una di queste lo costringe all’azione, in un paradosso che si scontra con il limite imposto dal suo nuovo ruolo, dalla diffidenza di chi gli sta intorno e dalle caratteristiche di una narrazione la cui dialettica è soltanto sonora. Sfruttando queste peculiarità e legando la testarda assunzione del caso con la necessaria espiazione del protagonista, The Guilty fonde in un connubio inestricabile dinamiche di genere e rilievi morali. Infatti, se la prima parte mystery, condotta con lucido e disperato raziocinio, illude protagonista e pubblico su un possibile percorso di riscatto, la successiva trasformazione in thriller – a seguito di una dolorosa rivelazione che ribalta gli equilibri apparentemente assodati – palesa il lato prettamente umano del personaggio e la necessità di mettere in gioco per primo se stesso e il suo senso di colpa fino a quel momento occultato per tentare di sistemare l’intera vicenda e pacificarsi. Möller sorprende per la cura di ogni dettaglio, a partire da quello della cuffia all’orecchio che apre il film, alludendo alla successiva natura tutta interna della tensione: introduce il personaggio, fornisce frammenti informativi come se fossero un puzzle sul suo recente passato, ne mostra la personalità inserendo particolari (la sua impazienza insoddisfatta mentre stringe nervosamente una palla antistress; il moralismo serpeggiante quando accusa un tossico che sta chiedendo soccorso). Poi allestisce con estrema cura la sua suspense da radiodramma (il precedente più simile, Il terrore corre sul filo di Anatole Litvak, era tratto da un testo per la radio di Lucille Fletcher del ’43), giostrando abilmente la centellinata progressione dei dati che fanno avanzare il racconto, i silenzi che si gonfiano nell’attesa frustrante di uno squillo, di una conferma, e i primi piani che mostrano un’impotenza scorata che è anche lo specchio fedele di un’anima combattuta. La suspense s’interiorizza e diventa evocativa. Vista la reclusione nelle stanze del centro operativo e l’impossibilità di ricorrere all’alternanza, la sua costruzione si edifica sul parallelismo, facendo del volto di Asger la superficie su cui si materializzano la volontà, il dubbio, la delusione per le false piste, la speranza di una doppia soluzione, per la vicenda al di là del telefono e, come diretta conseguenza, anche per quella personale. E per rafforzare il concetto di volto come schermo rifrangente di azione e passioni, Möller allegorizza i cromatismi, dividendo la struttura del film in tre parti secondo le dominanti delle tonalità utilizzate e sottolineando ancora più nettamente i mutamenti di stato all’interno di una narrazione che è immobile ma è tutt’altro che statica.
GGiampiero Frasca, cineforum.it, 6 marzo 2019
Messo in scena in tempo reale, tra due stanze e un corridoio, con quasi un solo interprete in scena perennemente al telefono, The Guilty ha vinto agli scorsi Sundance Film Festival e Rotterdam Film Festival il premio del pubblico. Thriller sulla coscienza e la parola, questo primo lungometraggio del danese Gustav Möller è una vera sorpresa, che si può inserire sulla scia di Locke con Tom Hardy, per via di un uomo al telefono come fulcro della vicenda, ma in realtà piuttosto diverso e originale. Siamo infatti in un territorio più di genere, a partire dall’ambientazione poliziesca, inoltre al centro di tutto c’è il tema di una colpa inconfessabile che riguarda tanto Asger quanto uno dei suoi interlocutori telefonici (...).
Il tempo reale della sceneggiatura e della regia funziona quindi efficacemente, perché quella di Asger è una lotta contro il tempo, che si estende oltre il suo orario di lavoro e lo vede nascondersi in una stanza buia. Una sorta di discesa agli inferi dove la luce si fa rossastra e la situazione sempre più disperata (...).
The Guilty procede implacabile verso un progressivo disvelamento, fino a costringere i personaggi a confessare le proprie azioni. Per quanto l’incedere sia impietoso arriva a una soluzione catartica senza essere consolatoria, la cui forza è anche nella messa in scena con l’emergere dall’oscurità e dalla stazione di polizia. Non si esce a riveder le stelle, perché il destino non promette comunque niente di buono, ma almeno Asger potrà affrontarlo conoscendo a fondo se stesso, temprato da una sfida contro tutti e contro se stesso: un’ora e venticinque minuti che possono cambiare più di una vita.
AAndrea Fornasiero, mymovies, 24 febbraio 2018
Home page
Calendario delle proiezioni