in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 23 gennaio 2020 – Scheda n. 13 (1069)
Chi scriverà la nostra storia
Titolo originale: Who Will Write Our History
Regia e sceneggiatura: Roberta Grossman
Fotografia: Dyanna Taylor. Musica: Todd Boekelheide.
Interpreti: Rachel Auerbach, Jowita Budnick, Emanuel Ringelblum,
Piotr Glowacki, Judyta Ringelblum, Karolina Gruszka.
Intervistati: David Roskies, Karolina Szymaniak, Sam Kassow,
Jan Grabowski, Barbara Kirshenblatt-Gimblett.
Produzione: Nancy Spielberg. Distribuzione: Wanted, Feltrinelli Real Cinema.
Durata: 95’. Origine: Stati Uniti, Polonia, 2019.
Roberta Grossman
Nata nel 1959, a Los Angeles, Roberta Grossman ha scritto, diretto e prodotto più di 40 ore di cinema e televisione. I suoi lavori sono legati da un unico filo rosso: raccontano storie di persone comuni che realizzano gesti straordinari in nome della giustizia. Nel 2008 ha firmato la regia di Blessed Is the Match: The Life and Death of Hannah Senesh, sulla poetessa ungherese catturata dai nazisti mentre cercava di salvare gli ebrei. Nel 2012 ha girato Hava Nagila (The Movie), sulla canzone ebrea Hava Nagila, colonna sonora della vita ebraica. Nel 2014 ha diretto Above and Beyond per la produttrice Nancy Spielberg, sulla nascita dell’aviazione israeliana, nel 1948. Nel 2018, la Grossman ha co-diretto il documentario Seeing Allred, sull’avvocato per i diritti delle donne Gloria Allred. Ha anche curato una importante serie televisiva sui nativi americani, 500 Nations. I suoi lavori più recenti sono Dorothea Lange: Grab a Hunk of Lightning (2014), On the Map (2016) e questo Chi scriverà la nostra storia.
Ascoltiamo Roberta Grossman: «Quale parte della storia diventa racconto ufficiale? I racconti di chi eleviamo a “verità” e quali invece vengono ignorati o addirittura sepolti? Che cos’è reale e che cos’è falso? Queste erano le domande importanti per noi e per quel coraggioso gruppo di combattenti della resistenza imprigionati nel ghetto di Varsavia. Quando sono venuta a conoscenza di questo gruppo segreto di giornalisti, studiosi e storici, ho voluto fare un film su di loro. La loro storia, catturata in Who Will Write Our History è, secondo me, la più importante storia sconosciuta dell’Olocausto. Creato dallo storico polacco Emanuel Ringelblum, l’Oyneg Shabes era un’organizzazione di oltre 60 persone impegnate nella resistenza spirituale contro i nazisti. Hanno scritto e commissionato diari, saggi, storielle, poesie e canzoni. Hanno raccolto qualsiasi oggetto avrebbe potuto aiutare i futuri storici a raccontare quanto accaduto nel ghetto. Alla vigilia dell’insurrezione del ghetto, i membri di Oyneg Shabes hanno sepolto 60.000 pagine di documenti nella speranza che l’archivio sopravvivesse per “urlare la verità al mondo”. L’importanza di questa storia ha attirato lo storico Samuel D. Kassow, il cui libro Who Will Write Our History? descrive la creazione dell’archivio segreto. Sam è stato il mio consigliere e partner. Si è quindi aggiunta Nancy Spielberg [sorella di Steven Spielberg] che ha nel suo DNA un magistrale istinto per la narrazione. Studiosi di fama mondiale hanno fornito consigli. L’attrice Joan Allen, nominata tre volte agli oscar, e Adrien Brody, vincitore di un Oscar, hanno prestato la loro voce ai due protagonisti del film. Il documentario è una co-produzione tra la statunitense Katahdin Productions e la società polacca Match&Spark. Per rendere la sceneggiatura storicamente precisa, il team addetto alle scenografie ha lavorato sei mesi prima di iniziare le riprese. Questo processo ha fatto sì che ogni penna, laccio da scarpe e colore delle pareti fosse perfetto per l’epoca. Le parole pronunciate nel film dagli attori provengono direttamente dalla trascrizione dell’archivio Oyneg Shabes e/o, nel caso della narratrice del film, Rachel Auerbach, dai suoi scritti del dopoguerra. Come succedeva all’epoca, nel film gli attori passano liberamente dalla lingua yiddish a quella polacca. Per evitare qualsiasi elemento che avrebbe potuto ingannare il pubblico, nel film in talune circostanze gli attori vengono ripresi su un fondale con filmati d’archivio: l’obiettivo è quello di far rivivere il passato, contemperandolo con la veridicità di un documentario. Per questo abbiamo unito riprese d’archivio e teatrali. Ho optato per questi strumenti visivi perché Who Will Write Our History racconta la storia di un luogo che non esiste più, il ghetto di Varsavia, di persone morte da tempo e di un periodo storico registrato soprattutto su pellicola in bianco e nero e principalmente da fotografi e cameraman della propaganda nazista. Voglio che la gente non soltanto impari qualcosa dal film, ma anche che resti profondamente commossa. Nel 1999, tre collezioni di documenti provenienti dalla Polonia sono state inserite nel Registro della Memoria del Mondo dell’UNESCO: i capolavori di Chopin, le opere scientifiche di Copernico e l’Archivio di Oyneg Shabes. Gli storici concordano sul fatto che quest’ultimo è la più ricca fonte di racconti di testimoni oculari sopravvissuti all’Olocausto. Nonostante la sua importanza, l’archivio rimane per lo più sconosciuto fuori dagli ambienti accademici. La mia speranza è che Who Will Write Our History cambierà tutto ciò nel modo in cui solo un film può fare, rendendo la storia accessibile a milioni di persone».
La critica
È inusuale partire dal luogo della proiezione, ma in questo caso il contenitore è già pieno di contenuto, di memoria. Siamo nella zona sottostante i binari della Stazione Centrale di Milano, uno spazio speculare progettato per separare le merci dai passeggeri; binari nascosti il cui accesso era a lato della sede della Posta. Dal dicembre del ’43 al gennaio del ’45 qui furono caricati sui carri bestiame donne, uomini e bambini provenienti dalle carceri di San Vittore; “pezzi” da trasportare, compressi più delle bestie, per migliaia di chilometri sino ai campi di lavoro e di sterminio. Ebrei, prigionieri politici, Rom e Sinti, in tutto venti convogli; i loro nomi ora si illuminano a turno su un tableau a lato del binario, per ricordare chi non è più tornato e i pochi che sono sopravvissuti...
La parola della grande colpa di molti è stata proprio l’indifferenza, la stessa parola che ora, a memento, ci accoglie all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano. Oyneg Shabes, in yiddish “La gioia del sabato”, è stata l’organizzazione clandestina fondata all’interno del ghetto di Varsavia da una sessantina di intellettuali, allo scopo di raccogliere le memorie individuali che avrebbero testimoniato, raccontato la storia, quella vera, in opposizione all’ampia propaganda antiebraica creata e diffusa dai nazisti. Una resistenza di uomini, donne e bambini, scritta, disegnata e fotografata: saggi, diari, manifesti murali e altri materiali che potevano testimoniare la vita nel ghetto. Era il 1940 quando i nazisti perimetrarono una zona di Varsavia alzando i muri del ghetto per concentrarvi 450mila ebrei, di cui 100mila morirono lì, nell’arco di tre anni. Lo storico Emanuel Ringelblum, comprese che un momento storico stava avendo inizio e che la fine sarebbe stata inevitabile; e come forma di resistenza occorreva produrre una controinformazione clandestina da lasciare ai posteri. Mentre i treni partivano per i campi, furono seppellite 60.000 pagine di documenti; terminata la guerra venne riportato alla luce il primo archivio, interrato nella cantina di un edificio raso al suolo. Negli anni ’50 fu scoperto un nuovo archivio e si pensa che un altro sia ancora seppellito. Per impedire che fossero i nazisti a raccontare la loro storia, si iniziò a scrivere, a guardare e a descrivere, a raccogliere oggetti, a fermare nelle pagine il crescendo del terrore, di una vita quotidiana stravolta dagli stenti, della fame e della progressiva perdita di umanità; ma nei documenti c’è anche lo strenuo tentativo di mantenere vive le tradizioni, il canto, il teatro, la musica...
Dal 1999 l’Archivio di Oyneg Shabes è stato inserito nel Registro della Memoria del Mondo dell’UNESCO. Roberta Grossman si è ispirata al testo dello storico Samuel Kassow che in Who Will Write Our History racconta la poco conosciuta storia dell’archivio, dei suoi ispiratori e autori. La forma utilizzata dalla regista per narrarne la complessità e le stratificazioni è la docufiction, scegliendo come filo conduttore dei narratori che interpretano le figure dello stesso Emanuel Ringelblum e di Rachel Auerbach: sopravvissuta alla distruzione del ghetto, intellettuale e critica d’arte, coinvolta nel progetto dell’archivio e mano d’opera per mense collettive che distribuivano zuppe agli affamati. Attraverso i documenti sono raccontati gli anni che vanno dal ’40 al ’43, data della rivolta e della definitiva distruzione del ghetto per volontà di Himmler. Progressivamente agli ebrei viene sottratto tutto, beni e diritti, lavoro e assistenza, rifornimento di viveri: la condanna a una vita in strada dei più deboli, la fame, la sporcizia e le malattie, il mercato nero, la depredazione da parte dei polacchi degli averi scambiati per un sacchetto di piselli o poche patate, il contrabbando. La storia del ghetto di Varsavia e dei suoi abitanti emerge con una tragica consapevolezza, “Nel ’39 ci proteggemmo dalla verità, non volevamo vederla.”. Le immagini d’archivio ci restituiscono i cadaveri per strada, i corpi ischeletriti per la fame e consunti dalle malattie, i cadaveri ammassati sui carri per toglierli dalle vie, i bambini morenti e i rastrellamenti a opera della stessa polizia ebraica che aveva fatto un patto con i nazisti per avere salva la pelle in cambio di un numero fissato di deportati da mandare a Treblinka. Un inferno parallelo, anticipazione di quello che avverrà poi. Chi scriverà la nostra storia è il racconto di una tappa di uno sterminio organizzato, di un omicidio di massa, che non è stato il primo della storia del ’900 e che continua a non essere l’ultimo: le variabili sono le modalità, i numeri e quanto se ne sappia. Per ritornare alle prime righe, la parola indifferenza deve esserci di monito, sempre, a ogni angolo di strada.
FFabrizia Centola, nonsolocinema.com, 22 gennaio 2019
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