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Don't Worry - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

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S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna


PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO

Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
 

 

 

Giovedì 30 gennaio 2020 – Scheda n. 14 (1070)

 

 

 

 

Don’t Worry

 

 

 

Titolo originale: Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot

 

Regia e sceneggiatura: Gus Van Sant,

dalla biografia di John Callahan.

 

Fotografia: Christoper Blauvelt. Musica: Danny Elfman.

 

Interpreti: Joaquin Phoenix (John Callahan), Jonah Hill (Donnie),

Rooney Mara (Annu), Jack Black (Dexter),

Mark Webber (Mike), Beth Ditto (Reba),

Udo Kier (Hans), Carrie Brownstein (Suzanne),

Ron Perkins (Morton Kimble), Kim Gordon (Corky).

 

Produzione: Anonymous Content, FilmNation Entertainment, Iconoclast.

Distribuzione: Adler Entertainment.

Durata: 113’. Origine: USA, 2018.

 

 

Gus Van Sant

 

 

Nato a Louisville nel 1952, Gus Van Sant è figlio di un commesso viaggiatore di origini olandesi; il cognome della famiglia paterna era infatti Van Zandt. Infanzia girovaga insieme al genitore. Vocazione alla pittura, poi anche al cinema, comincia a girare corti in Super 8, si forma alla scuola d’arte d’avanguardia Rhode Island School of Design, interesse verso le tecniche del cinema sperimentale, realizza corti in 16 mm. Del 1981 è il mediometraggio Alice in Hollywood. Diventa un’icona dei registi indipendenti. Il primo lungo è Mala Noche (1985), seguito di Drugstore Cowboy e da Belli e dannati (1991), con Keanu Reeves e River Phoenix. Viene poi Cowgirl - Il nuovo sesso (1993) con Uma Thurman. Dopo Da morire (1995), Van Sant gira a Hollywood Will Hunting - Genio ribelle (1997) che frutta l’Oscar come non protagonista a Robin Williams e quello per la sceneggiatura a Matt Damon e Ben Affleck. Nel 1999 vince il Razzie Award al peggior regista dell’anno (!) per il remake inquadratura per inquadratura di Psycho, una specie di esperimento pop. Arriva Scoprendo Forrester, con Sean Connery (2000). Torna al cinema indipendente con Gerry (2002), con Matt Damon e Casey Affleck, e con il meraviglioso Elephant (2003). Del 2005 è Last Days con Asia Argento. Paranoid Park, sempre del 2005, esplora il mondo della violenza giovanile. Nel 2009 viene candidato all’Oscar come miglior regista per Milk, film biografico sulla vita di Harvey Milk, primo consigliere comunale apertamente gay assassinato nel 1978. Il film ottiene otto candidature e vince due statuette per il miglior attore protagonista e la miglior sceneggiatura originale. Nel 2011 gira L’amore che resta. Del 2012 è Promised Land, con Matt Damon e del 2015 è La foresta dei sogni, con Matthew McConaughey. Adesso è arrivato questo Don’t Worry, il cui titolo originale è più lungo, Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, non preoccuparti, non andrà lontano a piedi.

Sentiamo Gus Van Sant: «L’idea di fare un film sulla straordinaria storia del vignettista John Callahan mi venne in mente molti anni fa. Conoscevo John come una figura celebre degli anni ’80 di Portland, la mia città. Le sue vignette apparivano su un nostro giornale locale, il Willamette Week, e anche altrove. A quei tempi avevo appena iniziato a girare Drugstore Cowboy. Quindi eravamo entrambi due artisti che cercavano di farsi strada nel mondo, anche se poi lui è diventato famoso diversi anni prima di me. L’attore e mio amico Robin Williams aveva acquistato l’opzione dei diritti del libro di memorie di Callahan e desiderava interpretare questo ruolo. Callahan ci piaceva anche perché era una specie di mattacchione, una sorta di comico delle vignette. Ho scritto diverse versioni della sceneggiatura, ma il film non è mai decollato. Gli studios facevano fatica a comprendere il progetto... Ho continuato a lavorare sul progetto. Poi Callahan è morto nel 2010 a 59 anni. Era diventato molto famoso. Viveva a Portland nella zona della classe operaia; ci vivevano moltissimi punk, perché si poteva affittare una casa per 400 dollari al mese e ci si poteva stare in tanti. Lo vedevi spesso sfrecciare sulla sua sedia a rotelle sul marciapiede sotto alla pioggia, con i suoi capelli rossi che sventolavano...

Da quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, anzi, forse, sin dalla prima volta che ho letto il libro di John, le cose che l’attore Jack Black aveva fatto nei suoi film mi ricordavano di Dexter alla festa. Jack, probabilmente, è uno dei personaggi più folli del cinema ed è dotato di una fervida immaginazione. Nei suoi film ha catapultato la sua peculiare interpretazione del ruolo del Signor Festaiolo nella stratosfera, quindi è stato molto carino da parte sua tornare sulla Terra per interpretare questo festaiolo un po’ più normale degli altri. Alla fine, sono rimasto talmente sbalordito dalla performance di Black, che ho deciso di aggiungere una scena, nella quale un oramai sobrio John va a trovare Dexter, nella cucina di un ristorante dove lavora. Prima della scena dissi a Black che non avevo ancora deciso se avrei usato il sonoro originale o se avrei fatto un montaggio mettendo una colonna sopra ai dialoghi originali. Black improvvisò le sue battute e molte le ho lasciate nel film. Si tratta di una scena pregna di significato. È un momento che il mio personaggio temeva da molti anni. In cui prova un profondo senso di colpa, ma si sente anche piuttosto sollevato, perché finalmente riuscirà a lasciarsi tutto alle spalle. Ha aggiunto un senso di redenzione a quello che altrimenti sarebbe risultato un personaggio davvero spregevole...

La maggior parte dei dialoghi era nel libro. John Callahan era uno storyteller, romanzava i fatti della sua vita perciò non sappiamo se tutto ciò che racconta nel libro sia vero. Le mie ricerche sui video lascerebbero intendere altro, credo che sia tutto basato sulla realtà, ma lui ha aggiunto un po’ di pepe. Il suo humor politically uncorrect lo rendeva un personaggio scomodo, amato da molti e criticato da altri. Era ciò che lui voleva. Sono stato democratico nello scegliere i fumetti da mostrare. John amava la risposta del pubblico, voleva che ridesse, ma anche che criticasse. Voleva provocarlo...

John parlava spesso di politica nel suo libro e l’epoca in cui viveva era molto simile alla nostra. Le somiglianze tra quell’amministrazione e l’amministrazione Trump ha influenzato la lavorazione del film...

C’era in Callahan un tratto che secondo me è comune a tutti gli artisti. A volte, a un certo punto della loro vita, gli artisti iniziano a fare qualcosa e non smettono più di farla. Che sia la composizione floreale o la cucina o fare un film, non riescono più a smettere. È proprio questa loro ossessione che li rende degli artisti. Nel caso di John non riusciva a smettere di disegnare vignette. È diventata la sua principale ragione di vita, e non capiva come mai tutti gli esseri umani non fossero dei vignettisti. Per lui esisteva solo quello, sempre».

 

 

La critica

 

 

Don’t Worry (titolo abbreviato rispetto all’originale Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot), il film dedicato alla vita del cartoonist tetraplegico John Callahan, che Gus Van Sant finalmente arriva a realizzare dopo oltre vent’anni dalla prima idea sul soggetto, è anche e soprattutto un film su questo: sul non aver paura. Non è un caso infatti che, dopo molte stesure e rimaneggiamenti con vari interventi, arrivi a decidere di concentrarsi sostanzialmente sul recupero di Callahan dall’alcolismo, sul suo percorso per riuscire – in qualche modo – a non avere più paura. E non è un caso (forse) che si apra su un primo piano di Kim Gordon, perfetta, elegantissima, dura e insieme inquieta (come sempre) che – nei panni di Corky – racconta con voce calma la sua storia di dipendenza e di sprofondamento nel buio al gruppo di recupero sostenuto dallo “sponsor” (così lo chiamano) Donnie, il ricchissimo benefattore interpretato da Jonah Hill che aiuterà anche John nella sua rinascita. Storie di buio, di solitudine, di paura. Ma anche storie che prefigurano la possibilità di smettere di averne. Anche per questo motivo, un brivido in più arriva se si pensa al legame che con questo soggetto, con questo film e con questo autore aveva Robin Williams (al quale il film è dedicato e che per primo aveva acquisito i diritti per mettere in scena la biografia di Callahan). Uno che quella paura, forse, non è riuscito a fronteggiarla. Chissà. Sono molte ed evidenti le implicazioni emotive di Van Sant con questa storia. E forse proprio da lì deriva anche il carattere del film che della lunga gestazione (e sedimentazione) si porta dietro i segni nella scelta forte che opera rispetto al soggetto di un biopic, quella di dedicarsi solo a una piccola fondamentale parte della vita di Callahan che nel libro occupa appena pochi capitoli: la sua liberazione dalla dipendenza. Don’t Worry (che prende il suo titolo originale dalla battuta di una famosa vignetta di Callahan) sta dunque perfettamente dentro al cinema di Van Sant anche e proprio per il nitore e la sincerità delle sue scelte. Come quella di optare per l’assoluta esposizione di ciò che racconta, affidandolo essenzialmente alla misura della messa in scena e alla bravura degli attori (neanche a dirlo Joaquin Phoenix su tutti). Avanti e indietro, nel passato, nei ricordi, nei traumi in cui trovare, vanamente, una giustificazione per se stessi; indietro e avanti, intorno, alla ricerca della propria identità, di un punto di riferimento, di qualcosa che basti senza dare un senso, perché di senso mica ce n’è. Avanti e indietro, dentro la grana spessa di un digitale che si traveste e si sporca portando il film dalle parti della testimonianza. Quello che sembra fare insomma Van Sant, è una scelta che alla fine sta forse semplicemente dalle parti della pacificazione con quella materia tanto travagliata, una risoluzione che passa per la decisione di far affiorare tutto e confidarlo all’evidenza. Che poi, che male c’è.

CChiara Borroni, cineforum.it, 28 agosto 2018

 

 

 

 

 

 

 

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Una notte di 12 anni

 

 

 

 

 

 

 

Settembre 1973. L’Uruguay è sotto il controllo di una dittatura militare.

Il movimento di guerriglia dei Tupamaros è stato schiacciato e smantellato da un anno. I suoi membri sono stati imprigionati e torturati.

In una notte di autunno, nove prigionieri Tupamaros vengono portati via dalle loro celle nell’ambito di un’operazione militare segreta che durerà 12 anni. Da quel momento in poi, verranno spostati, a rotazione, in diverse caserme sparse nel Paese e assoggettati a un macabro esperimento: una forma di tortura mirata ad abbattere le loro capacità di resistenza psicologica.

La dittatura, il carcere, l’isolamento, le privazioni. Resistere resistere resistere per 4323 giorni. Uno dei tupamaros, Pepe Mujica, diventerà, uscito dal carcere, il presidente dell’Uruguay. Una grande rivincita.

Durata: 123 minuti.


 

 

 

 

Giovedì 6 febbraio, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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