in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE
S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 6 febbraio 2020 – Scheda n. 115 (1071)
Una notte di 12 anni
Titolo originale: La noche de 12 años
Regia e sceneggiatura: Álvaro Brechner
Fotografia: Carlos Catalán. Musica: Federico Jusid.
Interpreti: Antonio de la Torre (José Mujica), Chino Darín (Mauricio Rosencof),
Alfonso Tort (Eleuterio Fernández Huidobro), Soledad Villamil (psichiatra),
Silvia Pérez Cruz (Graciela Jorge), César Troncoso (militare),
César Bordón (sergente Alzamora), Mirella Pascual (Lucy Cordano),
Nidia Telles (Rosa).
Produzione: Alcaravan, Haddock Films, Hernández y Fernández Producciones Cinematográficas, Manny Films, Mondex&cie, Movistar+, Salado Media, Tornasol Films, ZDF/Arte.
Distribuzione: BIM.
Durata: 122’. Origine: Uruguay, 2018.
Álvaro Brechner
Nato a Montevideo, in Uruguay, nel 1976, Álvaro Brechner vive a Madrid, è laureato in scienze della comunicazione sociale e ha un master di Documental de Creació (Master del documentario creativo) presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona. Tra il 2000 e il 2007 ha diretto numerosi cortometraggi, The Nine Mile Walk, Sofa, Second Anniversary, presentati in anteprima a più di 140 festival Internazionali e una dozzina di documentari tra i quali La Ley del Ring, Sefarad Testimonio de una ausencia, Papá, Por qué somos del Atleti (Perché siamo dell’Atletico Madrid). Del 2009 è il suo primo lungo Mal día para pescar, mostrato alla Settimana della Critica di Cannes e premiato in molti festival. Il film ha rappresentato l’Uruguay all’Oscar come miglior film in lingua straniera. Mr. Kaplan, suo secondo lungometraggio (2014), ha partecipato a più di 40 festival internazionali e ricevuto molti premi. Nel 2015 la rivista Variety ha inserito Brechner tra i dieci talenti emergenti del cinema iberoamericano. Una notte di 12 anni è stato presentato in prima mondiale alla Mostra di Venezia del 2018.
Sentiamo Brechner: «Che cosa resta di un uomo dopo che è stato spogliato di tutto? Isolato, fuori dal tempo, privato di qualsiasi stimolo, senza punti di riferimento a cui potersi aggrappare, i suoi stessi sensi incominciano a tradirlo. Ma qualcosa è radicato dentro di lui, qualcosa che nessuno può portargli via: la sua immaginazione. 12 anni è, in primo luogo, una discesa negli abissi. Basato su una storia vera, mostra come, nel corso di 12 anni, tre uomini siano stati gradualmente privati di ogni attributo umano, sottoposti a un processo di abbrutimento fisico e di spersonalizzazione, volto a privarli della ragione e, in ultimo, a distruggerne ogni capacità di resistenza fisica e morale, costringendoli a reinventarsi dalle ceneri della propria umanità per affrontare e superare prove di inconcepibile crudeltà.
Il progetto mi ha richiesto un lungo lavoro di ricerca e preparazione, durato oltre quattro anni. Il film è una sorta di percorso esistenziale; la sfida principale, quindi, è stata quella di evitare di farne un prison-movie, un film di genere carcerario. L’ordine dell’esercito era chiarissimo: “Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia.” Il mio obiettivo non era solo una meticolosa ricostruzione storica degli eventi, bensì la riproduzione di un percorso estetico e sensoriale, tale da consentire al pubblico di toccare da vicino l’esperienza di come si possa sopravvivere a una tale lotta interiore. I tre attori principali si sono dovuti sottoporre a un durissimo lavoro di condizionamento psicologico e fisico (hanno perso tutti circa 15 chili) per permetterci di sperimentare da vicino le condizioni estreme in cui si sono trovati a vivere. Obiettivo della messa in scena: trasportarci accanto a loro, immergendoci nella lotta che l’essere umano ingaggia con se stesso per non perdere la propria essenza umana».
La critica
1973: dopo il colpo di Stato, in Uruguay i vertici della dittatura militare arrestano i dirigenti del movimento di opposizione Tupamaros. Una notte, tre di loro vengono prelevati dalle celle e, per i successivi 12 anni, saranno detenuti in isolamento, sottoposti a torture fisiche e psichiche, spostati continuamente tra mura putride abitate da topi e pozzi sotterranei. Uno dei tre è José “Pepe” Mujica. Figlio di agricoltori, marxista, tra i leader del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros, incarcerato per 12 anni in condizioni disumane, liberato nel 1985 ed entrato finalmente in politica fino a diventare parlamentare e poi Presidente dell’Uruguay. Mujica, personalità luminosa in tempi bui, nel 2018 è stato non a caso al centro di due film, presentati entrambi alla Mostra del Cinema di Venezia: il documentario che Emir Kusturica ha realizzato su di lui, El Pepe. Una vida suprema, e il bel film di Álvaro Brechner Una notte di 12 anni. Di quest’ultimo lavoro, in realtà, Mujica (interpretato da Antonio De La Torre) è coprotagonista: assieme a lui i compagni di prigionia Fernàndez Huidobro (ex Ministro della Difesa dell’Uruguay, interpretato da Alfonso Tort) e lo scrittore Mauricio Rosencof (Chino Darin). Costretti per 12 anni a una ferale detenzione, in totale isolamento (anche tra loro, ovviamente), senza quasi vedere la luce del sole, senza leggere scrivere parlare. Spostati di anno in anno in luoghi che annichiliscono la dignità. Del resto, la dittatura guidata nel 1973 da Juan Maria Bordaberry non poteva uccidere i leader del movimento (e ugualmente li minacciava di morte, se ci fossero state rivolte) dunque aveva un obiettivo: distruggerli umanamente, condurli alla follia, all’annientamento. La lotta interiore contro questo annientamento è al centro del terzo lungometraggio di Brechner, che si inserisce nella riflessione che il cinema latinoamericano, passato e recente, continua a compiere attorno alle bestiali dittature che hanno flagellato molti Paesi. Un lungo filo di memoria unisce in fondo gli argentini Solanas e Olivera o il cileno Guzman con i registi di “nuova generazione” come Larraín, Pablo Aguero (Eva no duerme) o persino il Luis Ortega di El Ángel. Una notte di 12 anni non vuole raccontare la dittatura né l’opposizione armata dei Tupamaros, ma si concentra su come sia possibile sopravvivere nelle condizioni in cui sono stati gettati, come detriti in attesa di putrefazione, i tre protagonisti. Per farlo il regista riesce, a tratti mirabilmente, a realizzare un’immersione sensoriale, psichica e fisica, che costringe lo spettatore a un avvicinamento totale con i tre, il cui punto di vista è l’unico presente nel film. Tanto che non sappiamo nulla di quel che accade per 12 anni nel mondo esterno: il film non ci informa sui cambiamenti in atto, sul significato del referendum del 1980 o sulle dinamiche che motivano la liberazione dei prigionieri politici. Nulla. Dall’iniziale panoramica a 360°, nella scena in cui i tre vengono prelevati dalla prigione “regolare” per essere deportati in vari gironi infernali di detenzione, tutto quel che conosciamo è la percezione dei prigionieri. All’interno di questo recinto, si può cogliere l’intelligenza di Brechner che, per scandire il tempo e raccontarci qualcosa di personale di ognuno di loro, affida ai protagonisti alcune peculiarità e alcune “scene madri”: Huidobro, per esempio, è al centro di una scena incentrata sull’impossibilità di defecare in piedi e ammanettato che darà vita una gag comica nella quale, dal più basso grado militare al comandante della prigione, tutti verranno coinvolti per risolvere la kafkiana questione; il giornalista e scrittore Rosencof, invece, stabilirà un “cordiale” rapporto con una guardia per il semplice fatto di saper scrivere belle lettere da indirizzare alla ragazza che il militare vuole sposare. Il corpo di Mujica è invece terreno della lotta per non soccombere alla pazzia, alle allucinazioni, per trovare un po’ di requie in un pensiero che non si interrompe e non lo fa dormire. Per ognuno dei tre, infine, ci sono le relazioni famigliari con madri, padri, figli, sognate e reali, dolorose e vitali. E poi i trasferimenti da un posto all’altro, le strategie di sopravvivenza spiccia, l’impegno quotidiano a tenersi vivi. A fare da “controcanto”, la violenza belluina dei militari, i veri e unici derelitti del film, giustamente schiacciati in una rappresentazione grottesca, caricaturale e, come si diceva, in alcuni momenti ridicola. Una notte di 12 anni è insomma un film di una semplicità disarmante: frutto di anni di lavoro e di conversazioni con i veri protagonisti della terrificante prigionia, il film restituisce, con la sua preziosa linearità, una precisione essenziale interrotta qua e là, appunto, da qualche “episodio”, ma strutturata su una scelta stilistica assolutamente chiara e netta. Così anche la liberazione arriva, preannunciata certo dal ritorno alla prigione di Stato da cui eravamo partiti, senza fragore e retorica. E proprio per questa scelta sobria, il racconto della detenzione del futuro Presidente e dei suoi compagni commuove senza ricatto, sciogliendosi catarticamente nell’abbraccio ai cari che segna il ritorno alla vita. Con una semplice e vacua formula si potrebbe dire che Una notte con 12 anni è un film “importante”, che racconta la forza dell’umanità e la forza della ragione, in varie accezioni, che non si spegne neppure con 12 anni di buio. Ragione e “immaginazione”, come ha ripetuto più volte il regista, perché senza immaginazione si perde tutto, non si può ricordare, ridisegnare e concepire il senso, strutturare l’identità. Ma al di là di questo nobile intento, il film riesce soprattutto a essere un’operazione intelligente e mirata sull’interiorità, la più vasta e misteriosa delle risorse. Il sorriso, la statura morale e le parole di Mujica – simbolo di lotta meno celebre di Mandela, ma la cui parabola non è poi troppo differente – sono ancora qui a ricordarcelo.
EElisa Battistini, quinlan.it, 1 settembre 2019
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