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Scheda del film 191 Kb)
Roubaix, une lumière - Scheda del film

 

 

 
 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE

S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

 

 

Giovedì 9 dicembre 2021 – Scheda n. 7 (1090)

 

 

 

 

 

 

Roubaix, une lumière

 

 

 

 

Titolo originale: Roubaix, une lumière

 

Regia: Arnaud Desplechin

 

Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Léa Mysius.

Fotografia: Irina Lubtchansky. Musica: Grégoire Hetzel.

 

Interpreti: Roschdy Zem (il commissario Yacoub Daoud), Léa Seydoux (Claude),

Antoine Reinartz (Louis Cotterelle), Sara Forestier (Marie Carpentier),

Chloé Simoneau (Judith), Sébastian Delbaere (Descamps),

Betty Cartoux (De Kayser).

 

Produzione: Why Not Productions, Arte France Cinéma. Distribuzione: No.Mad Entertainment.

Durata: 119’. Origine: Francia, 2019.

 

 

Arnaud Desplechin

 

 

Proprio a Roubaix è nato nel 1960 Arnaud Desplechin, acuto osservatore di vite e abile costruttore di storie e di film che indagano l’animo e l’anima delle persone, spaventate dall’incertezza del futuro e dagli errori del passato. Le chiavi che aprono tutte le porte dell’interiorità sono i sentimenti e le emozioni.

Desplechin comincia come cameraman per cortometraggi amatoriali, si iscrive all’Institut des hautes études cinématographiques (che oggi si chiama La Fémis), nel 1989 lavora alla sceneggiatura di Un mondo senza pietà (1989) di Eric Rochant, poi si dedica a un lavoro tutto suo: scrive e dirige La Vie des Morts (1991), mediometraggio che riflette sulla reazione di amici e parenti alla notizia del suicidio di una persona cara. Debutta nel lungometraggio con La Sentinelle (1992) che vince molti premi. Segue Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle) (1996), film centrato sul confine labile tra bugia e verità. Esther Khan è del 2000. Sull’alta finanza è Léo en jouant dans la compagnie des hommes (2003), seguito dal doc Unplugged (2003). Ritorna alla fiction con I re e la regina (2004). Del 2007 è il documentario L’Aimée. L’anno seguente è la volta del film corale Racconto di Natale (2008). In America dirige Jimmy P., con Benicio Del Toro e Mathieu Amalric. Torna in Francia per I miei giorni più belli (Trois souvenirs de ma jeunesse, 2015), sempre con Mathieu Amalric. Dopo I fantasmi d’Ismael (2017) arriva questo Roubaix, une lumière (2019). Ancora inedito è Tromperie (2021). Roubaix, une lumière è ispirato al documentario del 2008 Roubaix, commissariat central, che racconta di un caso di cronaca nera avvenuto nella città del Nord della Francia nel 2002. Il film è stato presentato in concorso al festival di Cannes.

Sentiamo Desplechin. «In Roubaix ci sono molti elementi di discontinuità con i miei film precedenti. Avevo lavorato molto sull’artificio e sulla finzione. Stavolta invece ho proposto al mio produttore di fare un film ancorato alla realtà nel quale non fossi io a dovermi immaginare la storia. Mi sono molto ispirato a un film di Alfred Hitchcock, The Wrong Man (Il ladro, ndr) perché il regista inglese, considerato a tutti gli effetti il maestro della finzione, aveva girato un film in cui invece non c’era alcun elemento di fantasia. Per quel lungometraggio Hitchcock si era ispirato a un fatto di cronaca letto sul New Yorker aderendo al massimo alla realtà. Decise infatti di girare a New York, la città in cui si erano svolti i fatti e a me piace pensare che l’abbia fatto sotto un’influenza di tipo rosselliniano. Penso che lui si sia voluto dare pace del fatto che la Bergman se ne fosse andata per mettersi con Rossellini. Ad ogni modo Hitchcock fece una scelta di totale adesione al reale, senza alcun elemento di finzione...

La prima metà del mio film mostra una realtà molto più ampia nel senso che si focalizza su tutta la città in senso lato: si comincia con il personaggio che si reca al commissariato per denunciare l’incendio della propria macchina – cosa che poi si rivela non vera – e si continua con la ragazzina violentata nella metropolitana e così via, per cui è più uno spaccato del commissariato e della città di Roubaix. Al contrario, nella seconda metà da questa visione più grande si arriva a una prospettiva microscopica. Anche in termini di inquadrature nelle quali a prevalere sono i luoghi stretti e i primi piani, in particolare quelli di Claude (Lea Seydoux) e Marie (Sara Forestier), le donne sospettate di aver ucciso la loro vicina di casa. Passando dall’universale al particolare, dal grande al piccolo, il film diventa in qualche modo infinito perché una volta scoperti questi personaggi veniamo a conoscenza della loro anima e della loro umanità...

Utilizzo in maniera particolare il flashback. Ma invece di mostrare le immagini del delitto lo evoco attraverso la ricostruzione giudiziaria del commissario che obbliga Claude e Marie a dirgli cosa è accaduto la notte dell’omicidio. In questo modo è ancora una volta il presente il tempo del film, quello che permette allo spettatore e ai protagonisti di venire a capo della verità. E non solo c’è questo flashback ma anche la sua messa in scena teatrale, con il personaggio di Sara Forestier, Marie, in primo piano, che sta raccontando e dunque mettendo in scena quello che le è successo. Ci sono i poliziotti che fanno da spettatori, le luci che illuminano la scena e c’è il personaggio di Lea Seydoux, Claude, la quale appare più combattuta e affaticata, decisa a rimanere nel backstage, nascosta dietro le quinte fino a quando, nel finale, non decide di far parte della recita. Attraverso questa messa in scena teatrale la verità finisce per venire fuori. In fondo, ho capito che l’atto è ancora più potente quando viene rimesso in scena...

A un certo punto al commissario Daoud viene chiesto qual è la maniera in cui capisce se le persone mentono o dicono la verità e lui risponde che basta mettersi nella parte dei suoi interlocutori che poi è anche il compito del cineasta. Quella con Daoud è una doppia relazione. Se devo dire un po’ ambigua perché da una parte io lo vedo un po’ come un prete o uno psicanalista e chiaramente anche come uno sbirro; non è un giudice per cui lui non esprime giudizi ma fa il suo lavoro per cui è vero che da una parte mi identifico con lui. Dall’altra non riesco e farlo fino in fondo e forse me lo impedisco perché voglio che resti un eroe mentre io tendo a identificarmi con personaggi più maldestri come lo è nel film il novellino appena arrivato, imbarcato e confusionario nella conduzione delle indagini...

Quello che ho fatto è stato rileggere per ben due volte Delitto e castigo perché essendo francese mi risultava più facile appoggiarmi in qualche modo a Dostojevskij. Lui dice che la verità profonda di un essere umano la si ritrova nella sua infanzia, quindi il segreto degli esseri umani sta nell’infanzia. Nel film ne vediamo molte: c’è quella di Daoud raccontata nei ricordi della scuola, c’è quella del poliziotto più giovane, ci sono soprattutto quelle di Claude e Marie. Penso soprattutto alle due scene in cui Daoud le va a trovare. Al personaggio di Lea in particolare dice che da giovane era bellissima mentre adesso la sua infanzia è sfiorita e lui e lei sono diventati uguali. Così è la vita, almeno nella storia che ho raccontato nel film».

 

 

La critica

 

 

Una città, le sue luci, le sue ombre, un commissario di polizia, un omicidio. Un polar [un noir poliziesco francese, ndr]. Roubaix, une lumière è un polar. E basta. Un film di genere puro attraverso il quale Arnaud Desplechin rimette in gioco tutto il suo cinema. Magistralmente. Desplechin, che ha sempre giocato con i generi mescolando e stratificando elementi e toni, questa volta compie l’operazione inversa. Non usa melodramma e slapstick, tragedia e commedia burlesque – come faceva per esempio in Re e regine – per intrecciare i mille volti e le mille storie dei suoi personaggi, ma – al contrario – porta le mille possibilità di una stessa storia all’interno di un unico ambiente estetico ed emotivo, di un unico registro, quello del poliziesco. Così riprende la sua riflessione sul rapporto tra finzione e realtà, tra affabulazione e verità invertendone la traiettoria ma mantenendone la necessità relazionale. Se tante volte infatti ha raccontato come attraverso l’immaginazione si possa arrivare all’amplificazione del quotidiano, alla messa in forma del suo lato romanzesco, qui è partendo dalla brutalità del reale, attraverso la scomposizione, attraverso il racconto e il re-enactement, che Desplechin conduce il commissario Daoud e la sua squadra – e lo spettatore con loro – fino alla verità.  Non dunque il fremere della vita dentro la finzione (come in Les fantômes d’Ismaël) ma il fremere della finzione dentro la vita, e dentro la morte. Dentro al reale appunto. Sì, perché la materia da cui parte Desplechin è proprio la realtà, quella più dura e cruda, quella della cronaca nera.  Lo esplicita il prologo stesso del film: ogni riferimento a fatti realmente accaduti è strettamente voluto. Nulla è inventato, nulla è immaginato, tutto è reale. Un fait diver da prima pagina della cronaca locale: un’anziana signora assassinata dalle due vicine di casa, una coppia di drop out seguita dai servizi sociali, in un quartiere ultra popolare della città di Roubaix, dipartimento del Nord, un passato da ricca città industriale e un presente di decadenza e miseria dilagante. La realtà diventa dunque racconto e l’ossessione per l’aderenza ad essa diventa, hitchcockianamente, puro espediente cinematografico. Cosa è davvero successo? Chi è l’assassino? Solo attraverso l’indagine, la scomposizione, la frammentazione, e, infine, la ricostruzione si può giungere alla verità e la ricostruzione avviene, naturalmente, attraverso il racconto e le sue possibilità. La scena si scompone così nelle stanze degli interrogatori, dove la ricostruzione, o meglio le ricostruzioni, avanzano parallelamente traghettate dalle modalità diverse dei poliziotti, Daoud (un Rochdy Zem monumentale) da una parte, l’ispettore Corelle (Antoine Reinartz) dall’altra: ognuno con il suo modo, il suo credo, il suo vissuto, la sua funzione...

Ma c’è un regista, un occhio vigile sopra ogni cosa che stabilisce i tempi e i modi della scomposizione per arrivare poi alla ricomposizione ed è l’occhio del commissario Daoud sempre pacato, sempre attento, tormentato ma mai raccontato, che vede, ascolta, indaga e infine ricompone il reale attraverso la sua stessa messa in scena; è questo il principio dell’indagine poliziesca, è questo il principio del cinema.

CChiara Borroni, 23 maggio 2019, cineforum.it

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un uomo che crede solo nel proprio essere uomo. Che vorrebbe “salvarsi” grazie all’amore e alla scrittura.

Un romanzo antiborghese in un film punteggiato da immagini e materiale d’archivio sul Novecento attraversato in libertà, come se il film raccontasse non solo un uomo ma lo “spirito del secolo”.

Durata: 129 minuti.

 

 

 

 

Giovedì 9 dicembre, ore 21

 

Cinema Sociale di Omegna

 

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