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Scheda pdf (169 KB)
Il profeta - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 21 ottobre 2010 – Scheda n. 2 (814)

 

 

 

 

 

Il profeta

 

 

 

Titolo originale: Un prophète.

 

Regia: Jacques Audiard.

 

Sceneggiatura: Thomas Bidegai. Fotografia: Stéphane Fontaine.

Montaggio: Juliette Welfling. Musica: Alexandre Desplat.

 

Interpreti: Tahar Rahim (Malik El Djebena), Niels Arestrup (César Luciani),

Adel Bencherif (Ryad), Reda Kateb (Jordi lo zingaro),

Highem Yacoubi (Reyeb), Jean-Philippe Ricci (Vettorri).

 

Produzione: Why Not Productions. Distribuzione: BIM.

 

Durata: 149’. Origine: Francia, 2009.

 

 

 

 

Jacques Audiard

 

Nato nel 1952 a Parigi, Jacques Audiard è uno dei migliori registi francesi di oggi. Primo film: Regarde les hommes tomber (1994), un polar (così i francesi chiamano i gialli con delitto) di tutto rispetto. Secondo film: Un héros trés discret (1966), premiato a Cannes. Poi ci mette cinque anni per arrivare al terzo lungometraggio, Sulle mie labbra (2001), un altro polar atipico. Del 2005 è Tutti i battiti del mio cuore, storia di mafia parigina e di musica, una rapsodia per killer. Il profeta, presentato nel 2009 a Cannes, vince il Gran Premio e diventa un successo internazionale.

Sentiamo Audiard: «C’è dell’ironia nel titolo Il profeta (in originale: Un prophète). L'ironia è un elemento concreto anche se non evidente. Il film avrebbe potuto anche chiamarsi Little Big Man, piccolo grande uomo. Il titolo è un'allusione, costringe a capire qualcosa che non viene necessariamente sviluppata nel film, e cioè che il nostro protagonista è un piccolo profeta, un nuovo prototipo di uomo. Inizialmente volevo trovare l'equivalente francese di una canzone di Bob Dylan intitolata “You Gotta Serve Somebody”, secondo la quale tutti noi siamo sempre al servizio di qualcun altro. Mi piaceva il fatalismo e la dimensione morale di questo titolo ma non sono riuscito a trovare una traduzione soddisfacente e quindi il film è rimasto Il profeta… Volevamo trovare il modo di rendere Il profeta contemporaneo, creando eroi che nessuno conosce, scritturando attori che non fossero già icone del grande schermo, come gli arabi ad esempio. In Francia si tende a rappresentarli sempre in modo realistico o sociologico. Noi invece volevamo creare un film puramente di genere, un po' alla maniera di un western che racconta le gesta eroiche di persone comuni… Rispetto al solito cliché del film ambientato in prigione, popolato da uomini super virili, i detenuti del mio film non hanno muscoli, non sono neanche granché adatti a quell'ambiente ma paradossalmente riescono a sviluppare quelle qualità che permettono loro di emergere e dominare sugli altri. Attraverso il personaggio di Malik, il film trasmette l’idea che la conoscenza, il know-how, sia un modo per conquistare il potere. Si, ed è proprio questo, secondo me, l'elemento più interessante. Malik rompe gli schemi, non è il solito hooligan. Il film segue soprattutto il suo percorso mentale, una mente che lavora e che mostra una straordinaria capacità di adattamento, che il personaggio sfrutterà in ogni modo: all'inizio per salvarsi la pelle, poi per sopravvivere e migliorare la sua condizione e infine per raggiungere un livello superiore di potere. L'idea è quella di presentare queste persone nella condizione peggiore in cui un essere umano possa trovarsi, e poi di offrire loro una possibilità, l'occasione di costruirsi una personalità eroica. La storia di Il profeta racconta come qualcuno riesca a raggiungere una posizione di potere che non avrebbe mai ottenuto se non fosse andato in prigione. E qui sta il paradosso. Malik è un uomo giovane e senza storia: però ne scriverà una davanti ai nostri occhi… Penso che sia necessario, nel cinema francese, costruire nuove mitologie con nuovi volti e nuovi percorsi. Malik sembra aver sviluppato un rapporto distaccato e opportunistico con la sua identità. I corsi lo considerano un arabo e gli arabi un corso. È diviso fra due mondi, anche se tende naturalmente verso la sua comunità, dove scopre ciò che ignorava. Perché in realtà non appartiene a niente e a nessuno… Il film ha dei momenti di fantasia ma non ha alcuna intenzione di essere mistico. Il fantasma di Reyeb è funzionale agli sceneggiatori perché offre delle possibilità, conducendo lo spettatore verso un altro livello di immaginazione, che lo aiuta a liberarsi da ciò che è stato appena raccontato. Attraverso il fantasma evochiamo le idee dei sufi e dei dervisci e la sceneggiatura acquista un'altra dimensione… Dirigere un film è difficile, è un lavoro pesante, ma è l'unico mestiere che conosco. Credo che la gente veda in me delle qualità che non necessariamente possiedo. Chi mi circonda ha fiducia in me e mi incoraggia ad andare avanti. Ho impiegato molto tempo a scrivere, a metabolizzare la mia storia, mettendola in discussione, addirittura dubitando del soggetto stesso, svolgendo ricerche e immergendomi in un vero progetto cinematografico, con una lunga fase preparatoria; tutto questo mi ha fatto entrare completamente nel film. Subito dopo però bisogna riuscire a trasmettere agli altri il mondo in cui il film è ambientato e questa è una fase molto importante. Il cinema è un processo collettivo in cui tante persone insieme realizzano un progetto creativo. L'unica cosa che so è ciò di cui un film ha bisogno per brillare».

 

La critica

 

«Quanti denti ha il pescecane, e a ciascun li fa veder...». Così si canta nell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, a proposito di Mackie Messer, criminale di successo. E così (ma in inglese) una voce fuori campo canta al termine di Il profeta. Ormai libero, il venticinquenne Malik El Djebena (Tahar Rahim) si gode il suo trionfo. Sei anni prima non era che un ragazzino spaventato. Arrivato in galera, era stato spogliato d’ogni sua cosa: un paio di scarpe sfondate, vestiti da buttare, una banconota spiegazzata. Adesso invece cammina da padrone in mezzo alla strada, seguito come in corteo dai “suoi” su grosse auto. Ha ucciso, Malik, e ha mentito e tradito (ammesso che in galera esista qualcosa che somigli all’amicizia o alla lealtà). Eppure in platea è difficile non stare dalla sua parte, come se questo fosse un finale lieto. Di lieto, d’altra parte, c’è ben poco, nel film di Jacques Audiard e del cosceneggiatore Thomas Bidgain. Raccontata con la freddezza d’un resoconto di cronaca, la storia di Malik sembra non avere mai un punto di vista etico. Quello che gli accade in galera, come quello che egli stesso fa, è lasciato dalla regia in una sorta di insignificanza morale. L’orrore che pure ce ne viene è quasi solo fisico, materiale. Così accade già nella prima parte di Il profeta, quando Malik è costretto a uccidere. A ordinarglielo è César Luciani, il capo di un gruppo di detenuti corsi. Lo fa secondo un rituale che ha in sé la prima delle lezioni di vita che il giovane arabo avrà in galera. Quando César gli parla, lui non deve guardarlo in faccia. Deve solo ascoltare, senza diritto alla reciprocità di sguardo. Come uno schiavo privato d’umanità, deve capire che non ha scampo: o ucciderà, o sarà ucciso. È questo il grado più basso, e il più trasparente, d’ogni rapporto di potere: qualcuno ha la forza necessaria per uccidere, qualcun altro rischia d’essere ucciso. L’alternativa è di carne e di sangue, prima d’essere morale. Non c’è un terzo, non c’è un'autorità superiore cui Malik si possa rivolgere. Dunque, fa quello che gli consente di sopravvivere: obbedisce. Si nasconde una lametta in bocca - come gli hanno insegnato -, e taglia la gola al “condannato a morte”. Lo fa con un corpo a corpo in cui fatica, paura e sangue si confondono. Rimasto vivo, Malik si trova al grado più basso della gerarchia di potere. E sotto la protezione di César. Ma questo significa che gli appartiene, appunto come uno schiavo. E come uno schiavo continua a obbedire. D’altra parte, dalla sua posizione subumana gli è facile osservare quel che accade “sopra” di lui. Impara dunque che in galera (ma certo non solo) gli esseri umani tendono a chiudersi in gruppi, e a immaginare la propria superiorità come un riflesso dell’inferiorità degli altri. Durante l’ora d’aria così si divide il cortile della galera: di qua i corsi, di là gli arabi, gli uni e gli altri serrati come in un guscio. Solo lui, l’«arabo di César», è fuori da questo schema razzistico, nel senso che non è nemmeno un essere umano, ma poco più di una cosa. Ed è questa la seconda lezione del suo apprendistato di criminale di successo. Gli basterà approfittare della sua non appartenenza, per fare della sua debolezza la sua forza. Potrà essere dentro ciascun gruppo, e allo stesso tempo fuori, pronto a mentire e a tradire. Questa è la sua libertà inaspettata: questa esclusione e questa marginalità che per paradosso lo lasciano padrone di sé. Di anno in anno, Malik continua a imparare: prima a leggere, poi a comprendere la lingua dei corsi, e poi ancora a valutare il senso “economico” d’un comportamento, d’una decisione. E l’economia sta qui a significare una nuda, fredda relazione fra costi e ricavi. Come all’inizio del suo apprendistato – ma ormai libero dall’immediatezza fisica della minaccia di morte –, Malik continua a considerare la sua vita come il risultato oggettivo di un susseguirsi di scelte fra alternative “obbligate”. Vuole salire fino al vertice della gerarchia di potere, e tutto quello che promette di portarlo fin là gli appare come necessario, e perciò giustificato. In questo è certo degno allievo di César. Costretto da lui a non esser nulla, da lui impara come si riduce a nulla un essere umano. D’altra parte, finché César ha potere, Malik non potrà essere come lui. Meglio ancora, non potrà essere lui. È lui che dovrà annullare, dunque. Così accade, violenza dopo violenza, menzogna dopo menzogna. Alla fine, libero e potente, ricco e temuto, Malik si gode il suo trionfo, fiero dei propri denti di squalo. Che in platea si stia dalla sua parte dice qualcosa sul Mackie Messer che rischia d’essere in ciascuno di noi».

 

RRoberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 21 marzo 2010

 

 

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