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Giovedì 4 novembre 2010 – Scheda n. 4 (816)
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Green Zone
Titolo originale: Green Zone.
Regia: Paul Greengrass.
Sceneggiatura: Brian Helgeland. Fotografia: Barry Ackroyd.
Montaggio: Christopher Rouse. Musica: John Powell.
Interpreti: Matt Damon (Roy Miller), Greg Kinnear (Clark Poundstone),
Brendan Gleeson (Martin Brown), Khalid Abdalla (Freddy),
Amy Ryan (Lawrie Dayne), Jason Isaacs (Lt. Col. Briggs).
Produzione: Becan, Fellner, Levin. Distribuzione: Medusa.
Durata: 115'. Origine: Usa, 2009.
Paul Greengrass
Nato nel 1955 in Gran Bretagna, Paul Greengrass trova per caso una cinepresa super8 nell’aula di educazione artistica della sua scuola media e comincia a girare cortometraggi orrorifici usando bambole e marionette. Studia a Cambridge, lavora in tv, gira documentari in tutto il mondo, il suo primo lungo è Resurrected (1989), seguito da La teoria del volo (1998). Con Bloody Sunday affronta la questione irlandese e vince l’Orso d’oro a Berlino. Poi va in America e inaugura la fortunata (e bella) serie di Bourne, con The Bourne Supremacy (2004). Realizza quindi United 93 (2005) sulla tragedia dell’11 settembre, bel film ambientato all’interno dell’aereo dirottato che cadde in Pennsylvania. Del 2007 è il secondo capitolo della saga Bourne-Damon, The Bourne Ultimatum. Questo Green Zone è considerato uno dei migliori film sulla sporca guerra in Iraq.
Sentiamo Greengrass: «Ho sempre provato a condensare sceneggiatura, girato e montaggio in una sorta di tutt'uno il cui risultato dipende dalle risorse e dal tempo che hai a disposizione: perché ritengo che il solo modo per avere il risultato desiderato sia agire al cuore del processo registico, che si basa sull’equilibrio tra struttura, rigidità, forma, libertà, improvvisazione. E sono due aspetti imprescindibili. In termini operativi ciò si traduce in un primo lavoro di stesura della sceneggiatura. La sceneggiatura è ciò che fornisce la struttura, la rigidità, la chiarezza della situazione, chi sono i personaggi, cosa vogliono, quali sono i loro rapporti e cosa succede loro. Una volta risposto a queste domande si può cominciare a pensare ai dialoghi. A mio parere, la sceneggiatura permette, mentre si gira, di creare un processo estremamente libero e creativo, ma con la sicurezza di sapere il punto in cui ci si trova, e quindi con la traccia precisa di ciò che si dovrebbe fare. Generalmente mi piace girare in maniera molto libera, a volte anche più di quanto la sceneggiatura permetta, come per esempio nascondere un’informazione agli attori in modo che siano forzati ad agire in maniera più coerente con la situazione. La regia per me è un processo di costruzione organica di un segmento che permette di raggiungere l’obiettivo, un percorso a volte ben definito, a volte solo accennato, dove i problemi vanno risolti lungo la strada… Dopo aver studiato e fatto per un po’ il giornalista, sono passato al cinema girando proprio dei documentari: avevo meno di trent’anni e mi resi subito conto che la mia immaginazione superava la realtà. Il bello dei film di finzione è che posso partire dalla cronaca per creare realtà alternative, cosa che mi soddisfa di più. Potremmo dire che ho iniziato lavorando nel programma World in Action, ma poi da lì sono partito per cercare ‘the Action in the World’. Non a caso i miei film preferiti sono I tre giorni del Condor di Sidney Pollack e La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo… Dopo i Bourne, avevo due sogni: girare un film sull’11 settembre e uno sulla guerra in Iraq. Il primo l’ho fatto quasi subito (United 93) e adesso toccava al secondo: ecco Green Zone. Ho sempre pensato fossero due soggetti di strettissima attualità, le cui conseguenze ci portiamo dietro anche oggi, soggetti che avrei potuto raccontare collegandoli a temi forti come paranoia, sfiducia, paura e ossessioni. Green Zone conclude il racconto di un decennio, perché i miei film, nonostante siano molto diversi tra loro, hanno in comune una sorta di filo conduttore. A chi ha amato la serie di Bourne, Green Zone assicura la stessa carica di adrenalina: per quanto mi riguarda, soddisfa la mia voglia di raccontare la verità su intrighi e cospirazioni di questa guerra, e di farlo rivolgendomi a un pubblico che so pensarla anche in modo diverso dal mio. Io sono stato da subito contro l’invasione, ma so che tra il pubblico ci saranno anche dei favorevoli: per me era una sfida in più. Certo il protagonista qui non è come Bourne, non è un supereroe: quando gli puntano la pistola in testa ha paura. È una persona più vera, reale… Per il futuro mi piacerebbe fare un film d’amore, tanto per cambiare: sia Matt [Damon] che io abbiamo delle idee».
La critica
La “Green Zone”, zona verde del titolo, è la vasta area nel centro di Baghdad dove si trovavano i palazzi di Saddam Hussein e del suo governo, eletta dagli americani nel 2003 a proprio Quartier Generale e tesori di vacanza, aperitivi, bagni in piscina, chiacchiere: un terreno blindato al riparo dalla guerra. Green Zone di Paul Greengrass ha dovuto aspettare per circa tre anni prima di venir distribuito e visto. Si capisce perché: è il film più esplicito e duro nel denunciare come un pretesto inconsistente la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa (mai viste, mai trovate), nell’accusare gli Stati Uniti di aver mentito al mondo. Non che il film (ispirato al libro di Rajiv Chandrasekaran “Imperial Life in the Emerald city: inside Iraq’s Green Zone”) sia il primo a dirlo: ma lo dice efficacemente e apertamente, con l’impeto dinamico del racconto bellico (esplosioni, massacri, inseguimenti, bombe, fuochi nella notte, sventagliate di colpi) e con la gravità dell’imputazione politico-militare, senza trascurare il contributo di patrioti civili iracheni. Il giovane ufficiale Matt Damon e la sua pattuglia di specialisti vengono incaricati nel 2003 della ricerca di armi di distruzione di massa. Ricevono precise indicazioni, ma non trovano mai alcunché pur correndo rischi letali, e le proteste della loro frustrazione vengono messe a tacere. L’ufficiale però indaga, sino a scoprire il peggio: menzogne, intese tra americani e gerarchie di Saddam Hussein, spie sotto copertura. Complotti, noncuranza verso la vita dei militari americani. Lo stile eccitato e movimentato, che ricorda certo altri film di Greengrass con Matt Damon The Bourne Ultimatum, The Bourne Supremacy e naturalmente Green Zone, potrebbe benissimo essere una astuzia, la collocazione d’uno dei soliti film d’azione in un nobilitante contesto politico internazionale: ma l’ardire del film, molto avvincente, è del tutto nuovo.
LLietta Tornabuoni, L'Espresso , 22 aprile 2010
«Meglio tardi che mai». Così il critico newyorkese Jim Hoberman ha aperto la sua recensione dell’ultimo tour de force visivo dell’inglese Paul Greengrass, Green Zone, che approda a partire da oggi anche nelle sale italiane. Un film che potrebbe tranquillamente intitolarsi Bourne in Iraq, con Matt Damon, che schiva pallottole e complotti governativi, shakerato come in una corsa tra l’ottovolante e l’autopista, per i vicoli di Baghdad. Ispirato dal best seller “Imperial Life in the Emerald City” (in cui la città di smeraldo non è quella del mago di Oz, bensì la zona verde fortificata che fa da quartiere generale americano nel cuore della capitale irachena), il film di Greengrass è uno stralcio di docufiction ambientato sullo sfondo della caccia alle armi di distruzione di massa di Saddam, subito dopo l’invasione. Se fosse uscito (come doveva) prima dell’arrivo di Obama, avrebbe reso meno fluida l’impunità con cui Bush e company sono passati dalla Casa bianca a un’agiata, tranquilla vita privata. Oggi, il racconto di come lo spauracchio di quelle armi inesistenti sia stato usato per innescare artificialmente la guerra fa un po’ old news. Ma dato che il mondo (e Obama) stanno ancora cercando di districarsi dalle conseguenze di quelle menzogne, probabilmente Hoberman ha ragione: meglio tardi che mai. Dopo aver ricostruito l’11 settembre a bordo del volo numero 93 della United Airlines (quello diretto su Washington ma sfracellatosi in un campo della Pennsylvania), il regista dei Bourne si paracaduta, con il suo cinema allo stesso tempo freddo e viscerale, tra le macerie di Baghdad ai primissimi tempi dell’occupazione. Matt Damon è un soldato incaricato di far saltar fuori le armi di distruzioni di massa, da localizzarsi seguendo la mappa di un misterioso informatore di nome Magellan. Mentre lui è impegnato in questa caccia alle allodole, il pubblico riconoscerà (dietro ai falsi nomi e agli aggiustamenti di trama) alcuni personaggi chiave delle news di quegli anni: il ricco, equivoco, espatriato iracheno cui si vorrebbe affidare il nuovo governo (Chalabi), la celebre giornalista del Wall Street Journal che ha smontato senza prove tutte le invenzioni di Cheney sulle Wmd, le armi di distruzione di massa (in realtà Judith Miller, del New York Times, poi allontanata dalla testata), l’ufficiale della Difesa che insabbia qualsiasi domanda scomoda (un burocrate che ha le sembianze dell’attore Greg Kinnear, si veste come Paul Bremer e dichiara che «la democrazia è incasinata», come Rumsfeld). A sorpresa, oltre al soldato Damon, i «buoni» sono uno scafato agente Cia e uno dei generali di Saddam. Cattivissime invece le forze speciali. Diversamente dai Bourne, ma come United 93, Green Zone è un thriller che si sa già come va a finire. E che come United 93 non aggiunge nulla all’evocazione degli eventi se non il gioco frenetico di macchina ormai caratteristico del cinema di Greengrass (il direttore della fotografia è lo stesso di The Hurt Locker, ma che differenza fa un regista!). Il che lo rende un oggetto molto meno affascinante del rebus visivo/politico dei Bourne. Il miglior lavoro fatto sull’Iraq post occupazione e sul suo disordine (e un film girato a occhio fermo) rimane il documentario di Charles Ferguson No End in Sight.
GGiulia D’Agnolo Vallan, Il Manifesto, 9 aprile 2010
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