Invictus
Titolo originale: Invictus
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Anthony Peckham. Fotografia: Tom Stern.
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach. Musica: Kyle Eastwood.
Interpreti: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon (Francois Pienaar),
Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick Mofokeng (Linga Moonsamy),
Matt Stern (Hendrick Booyens), Julian Lewis Jones (Etienne Feyder),
Adjoa Andoh (Brenda Mazibuko), Marguerite Wheatley (Nerine),
Leleti Khumalo (Mary), Patrick Lyster (Sig. Pienaar),
Penny Downie (Sig.ra Pinnear), Sibongile Nojila (Eunice),
Bonnie Henna (Zindzi), Robin Smith (Johan De Villiers), Danny Keogh (Presidente Rugby).
Produzione: Malpaso. Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 133’. Origine: Usa, 2009.
Clint Eastwood
Classe 1930. Tantissime volte ospite del nostro Cineforum. Continuatore del classicismo cinematografico. Conservatore moralmente ineccepibile. Storie piene di persone, di temi, di umanità. Carriera lunghissima, prima come attore in patria nelle serie tv e nel cinema di serie B; poi i passi avanti con Siegel e Leone; poi regista di una sessantina di film e un altro sempre in arrivo; da molti anni anche produttore in proprio con la sua Malpaso; tra i tanti film ne citiamo qualcuno: il film d’esordio Brivido nella notte (1971), Lo straniero senza nome (1972), Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), Bronco Billy (1982), Honkytonk Man (1982), Bird (1990), Gli spietati (1992), Un mondo perfetto (1993), I ponti di Madison County (1995), Potere assoluto (1997), Mystic River (2003), Million Dollar Baby (2004), Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima (2007), Changeling (2008), Gran Torino (2009), adesso questo Invictus, sta per uscire Hereafter ed è già al lavoro per un film su Edgar Hoover, l'ex capo dell'FBI (che forse era omosessuale).
La critica
Dopo una serie di film dove scavava nel ‘cuore nero’ delle persone, portando alla luce le ambiguità e smascherando le contraddizioni dei suoi personaggi, Clint Eastwood prende con Invictus una strada diversa, contraddittoria rispetto al suo recente passato di regista, ma in realtà piuttosto coerente e conseguente. Anche se, va detto subito, coronata da una minor riuscita artistica. La ragione va cercata nella scelta di raccontare un episodio della presidenza di Mandela (il suo impegno ‘in prima persona’ per la Coppa del mondo di rugby svoltasi in Sudafrica nel 1995) che finisce per privilegiare quello che nei suoi altri film era invece una specie di irraggiungibile obiettivo: la riconciliazione tra gli opposti. E probabilmente - va aggiunto - nella decisione di accettare un soggetto che forse stava a cuore più al suo protagonista (erano anni che Morgan Freeman sognava di interpretare il personaggio di Mandela) che a Clint in persona. Eletto alla guida di un Paese che l’aveva tenuto in prigione per 27 anni, Mandela si trova di fronte al problema di evitare quello che a molti sembrava inevitabile: la vendetta di chi era stato oppresso per tanto tempo. E tra i tanti nodi con cui si misura, la sceneggiatura di Anthony Peckham privilegia il sostegno che il neoeletto presidente dà alla nazionale di rugby impegnata nella Coppa del Mondo. Una scelta che rivela tutta la sua importanza strategica e politica solo se si pensa che il rugby era lo sport preferito dalla minoranza bianca (nella nazionale giocava un solo atleta di colore), odiatissimo dalla popolazione nera che era solita esultare alle sconfitte degli ‘odiati razzisti’. Deciso ad affrontare i problemi a viso aperto, senza tanti infingimenti tattici, Mandela intuisce che il torneo mondiale può essere un momento decisivo nel costruire un’unica identità nazionale cementata anche dal tifo. E si adopera per favorire l’orgoglio di squadra in un gruppo di giocatori tutt’altro che sensibili alla retorica dell’integrazione, ma trovando per fortuna nel capitano François Pienaar (Matt Damon) un interlocutore disposto a capirlo e a sostenerlo. ‘One Team, One Nation’ diviene così lo slogan che Mandela conia per rompere con il passato e favorire un riscatto sportivo che sia capace di scaldare i cuori soprattutto della maggioranza di colore. Questa la cronaca (che tra l’altro si dimostrò molto benigna col Sudafrica, nonostante le previsioni negative sul suo valore agonistico) che il film racconta quasi esclusivamente dal punto di vista del presidente-tifoso, mescolando il film biografico e quello sportivo ma tenendo rigidamente distinti i rispettivi ambiti. Una sfida decisamente non facile (altra cosa è raccontare la vita di uno sportivo) che Eastwood affronta quasi con un eccesso di sobrietà, come ‘intimorito’ dal raccontare in positivo quello che fino a ieri raccontava in negativo. Tiene per l’ultima parte del film, che descrive il sorprendente percorso dei giocatori verde-oro nelle gare di Coppa, i momenti più emozionanti e più spettacolari (grazie ad un uso magistrale della steady-cam che si muove con molta agilità in mezzo al campo di gioco) e racconta per i primi due terzi di un film di due ore e 13 minuti il percorso di un Mandela molto sicuro di sé, nonostante ostacoli politici e tensioni umane. In questo modo però, eliminando o quasi chi può incarnare ‘il nemico’ (non c’è un personaggio che si faccia carico delle idee razziste che Mandela combatte, ma piuttosto tante piccole spie di un atteggiamento diffuso), il film finisce per imboccare la strada di una biografia politica fin troppo esemplare. Anche perché la scelta di accennare solo fugacemente ai tanti problemi che Mandela si trovò ad affrontare (da quelli familiari a quelli sociali e politici) se è comprensibile da parte di un regista sempre molto ‘pragmatico’ e per niente ‘ideologico’, finisce comunque per togliere forza e tensione allo spettacolo.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 24 febbraio 2010
C’è un pericolo, a proposito di Invictus. Anzi, ce ne sono due. Il primo si mostra già nel sottotitolo italiano, Invincibile. Non è invincibile, Rolihlahla Mandela, detto Nelson. Piuttosto è un non vinto: la sua misura morale e politica non è quella (pericolosa) dell’eroe, ma quella dell’uomo comune che le difficoltà e le sofferenze trasformano in un capo, come si legge nella sua autobiografia (Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli). Il secondo pericolo riguarda il nostro modo di “sentire” il film che Clint Eastwood e lo sceneggiatore Anthony Peckham hanno tratto da un libro di John Carlin. Come quello cinematografico (Morgan Freeman), anche il Mandela storico ama l’understatement: quello che fa è emozionante in sé, non perché sia lui a cercarla, l’emozione. Invictus inizia con le immagini del ritorno alla libertà. L’11 febbraio 1991, dopo 27 anni di galera, Mandela percorre in auto le strade che vanno a Città del Capo. È il giorno del trionfo, ma è anche il più difficile. Da un lato, deve trasformare la sua leadership morale in leadership politica (anche contro la diffidenza dei suoi). Dall’altro, ha di fronte gli afrikaaner (i bianchi). Ora, dunque, deve compiere il suo capolavoro politico. Lo fa con accortezza e insieme con coraggio. Tutto questo, però, è solo alluso dalla sceneggiatura, soprattutto con le parole che Mandela rivolge alla segretaria. Se non fossi più capace di rischiare, le dice, non sarei più un capo. Così ha fatto più d’una volta, dagli anni Cinquanta: s’è assunto rischi contro ogni convenienza di potere. Il film, per altro, non segue Mandela negli anni che lo portano alla vittoria delle elezioni. Al contrario, dopo l’11 febbraio1991, subito passa alla mattina dell’11 maggio 1994. Il giorno prima è diventato presidente del Sudafrica, e ora Eastwood lo mostra appena sveglio, mentre si rifà il letto, come ha sempre fatto in galera. L’alba è lontana, ma il buio attorno a lui non è solo quello della notte. In questo buio inizia il racconto di Invictus: quello costruito attorno alla passione dei bianchi per il rugby e per la nazionale degli Springboks, odiati invece dai neri come simbolo dell’apartheid. Mandela, dunque, decide di utilizzare i mondiali del 1995 a Città del Capo per costruire fra tutti i sudafricani, di qualunque colore, il senso di un’appartenenza comune. In questo non è niente più che un politico accorto. La sua grandezza sta invece prima di questa scelta tattica. Nei decenni precedenti, anche in quelli trascorsi in galera, sempre s’è preoccupato d’evitare che l’odio dell’apartheid finisse per avvelenare il paese, e i neri in particolare. Sa che il Sudafrica non avrebbe futuro, se gli africani facessero agli aguzzini quello che essi hanno fatto a loro. Ora, dunque, rischia di contraddire il risentimento dei suoi, rischia d’allontanarsi dalla loro rabbia. Questo fa un capo. E così siamo all’emozione. È emozionante l’incontro paradossale fra la miseria delle townships e gli idoli degli afrikaaner. Sono emozionanti gli sguardi dei bianchi che per la prima volta vedono davvero quelli dei neri. Ed è emozionante il crescendo che porta persecutori e vittime all’esplosione di gioia della vittoria finale. Ma sempre queste loro emozioni — come le nostre — sono “ancorate” da Eastwood alla consapevolezza morale di Mandela. E in questo è bene evidente anche la consapevolezza morale del regista di Million Dollar Baby (2004) e di Gran Torino (2008): nella coscienza del singolo sta il valore d’ogni scelta, e la coscienza di molti singoli può fare del mondo un posto migliore. Alla fine, ci sembra che Eastwood abbia compiuto la sua opera più matura, la più semplice e diretta, e insieme la più aperta al rischio generoso dell’emozione. Questo a noi pare sia Invictus: un racconto che “racconta” la grandezza del suo autore.
RRoberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 28 febbraio 2010