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Scheda pdf (173 KB)
Lo spazio bianco - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 2 dicembre 2010 – Scheda n. 8 (820)

 

 

 

Lo spazio bianco

 

Regia: Francesca Comencini

 

Sceneggiatura: Valeria Parrella. Fotografia: Luca Bigazzi.

Montaggio: Massimo Fiocchi. Musica: Nicola Tescari.

 

Interpreti: Margherita Buy (Maria), Gaetano Bruno (Giovanni Berti),

Giovanni Ludeno (Fabrizio), Antonia Truppo (Mina),

Guido Caprino (Pietro), Salvatore Cantalupo (Gaetano), Maria Pajato (Magistrata).

 

Produzione: Fandango. Distribuzione: 01.

Durata: 98’. Origine: Italia, 2009.

 

 

 

Francesca Comencini

 

Regista, sceneggiatrice e aiuto regista, figlia d’arte (suo padre è il grande Luigi Comencini, regista di alcune tra le più belle commedie all’italiana), Francesca Comencini studia filosofia, lascia gli studi e si trasferisce in Francia, dove nel 1982 sposa il produttore Daniel Toscan du Plantier, dal quale divorzia dopo la nascita del primo figlio. Nel 1984 dirige Pianoforte (1984) e vince il Premio De Sica al Festival di Venezia. Scrive la sceneggiatura di Un ragazzo di Calabria (1987), per la regia di suo padre, e dirige La luce del lago (1989). Firma l’inedito in Italia Annabelle partagée e i documentari Elsa Morante (1995) e Shakespeare a Palermo. Quindi arrivano Le parole di mio padre (2001), Carlo Giuliani, ragazzo (2002) sui giorni del G8 a Genova, Mi piace lavorare - Mobbing, (2004, Premio della Giuria al Festival di Berlino), A casa nostra (2006) e il documentario In fabbrica (2007). Questo suo ultimo film, Lo spazio bianco, è stato presentato alla Mostra di Venezia.

Ecco qualche dichiarazione della regista: «Ho letto il libro subito, appena è uscito, per curiosità di lettrice, perché avevo sentito un’intervista di Valeria per radio e sono andata a comprarlo. L’ho amato molto ma in un primo momento non ho assolutamente pensato al libro per fare un film. Amo molto la letteratura e mi piace leggere i libri, ma non mi viene mai in mente di usare un libro per un film. Poi devo dire la verità, sono stati Domenico Procacci e Laura Paolucci della Fandango, proprio poche settimane dopo che avevo finito di leggere il libro, che me ne hanno parlato e mi hanno dato l’idea di trarne un film. Ci sono tanti motivi per cui ho sentito questo desiderio molto forte di adattare il libro. Prima di tutto, mi piaceva poter parlare di maternità e parlarne al femminile rendendomi conto che di maternità, di nascita, sono in tanti a parlarne ma se ne parla spesso in maniera ideologica o molto retorica, e poi ne parlano pochissimo le donne. L’altra cosa, è stata il desiderio di fare il ritratto di un personaggio secondo noi meraviglioso, quello di Maria, un ritratto di una donna di quarantadue anni».

 

 

La critica

 

È un tempo spezzato, senza più direzione e senso, quello in cui rischia di perdersi la protagonista di Lo spazio bianco. Tratto da un libro di Valeria Parrella, il film di Francesca Comencini e della cosceneggiatrice Federica Pontremoli racconta la storia di una maternità. Anzi, racconta la storia di due maternità, una anche di sangue e di carne, e l’altra solo di testa e di cuore. Non più giovanissima, ogni sera Maria (Margherita Buy) insegna italiano a un piccolo gruppo di uomini e donne adulti. È un mestiere minore, il suo. Almeno, così lo valuterebbe l’immaginario dominante e vincente. Tra i suoi allievi ci sono immigrati, disoccupati, in genere scarti, residui di una società crudele e distratta. Questa è la sua prima maternità, questa sua “cura” generosa e silenziosa di un’umanità altrimenti abbandonata. Maria è non solo insegnante, ma anche madre dei suoi allievi. Li accompagna verso un traguardo, la licenza media, che per loro può essere l’inizio di una vita nuova. In questa sua maternità di testa e di cuore, appunto, Maria è sola. Sera dopo sera, la piccola classe viene spostata in giro per Napoli: ora in un’aula provvisoriamente “rubata” a una scuola diurna, ora in qualche palazzo pubblico inutilmente colmo di antichi splendori, ora in uno squallido e anonimo deposito perduto nel degrado urbano. Lo stato non li vuole, né li vuole la città, questi scarti e residui d’esseri umani. Anche lei, Maria, sembra vivere una vita ai margini della vita. È sola, forse dopo un amore finito. Di sicuro, la felicità che le resta non va molto oltre la platea di un cinema nel quale passa i suoi pomeriggi. Questo è il suo tempo, dunque: un susseguirsi ordinato e grigio di giorni e di ore, in un presente che non lascia spazio all’imprevisto. Poi, proprio al cinema, incontra Pietro (Guido Caprino). Forse è un inizio, qualcosa che può muovere la sua vita verso il futuro. E quando resta incinta quel futuro sembra a portata di mano. In fondo, non conta che Pietro fugga via, spaventato dalla responsabilità. Conta che un figlio (una figlia) stia per entrare nella sua solitudine, aprendola e cancellandone il grigio. Non si direbbe una storia “straordinaria”, questa raccontata da Lo spazio bianco, se non per il distacco inusuale di Maria dalla volgarità quotidiana e dalla quotidiana indifferenza. Per il resto, sembra una normale vicenda di biografie che s’avvicinano e poi s’allontanano, ognuna dando la misura di sé, del proprio coraggio o della propria paura. Invece, di colpo, nella sua storia entra l’eccezione, una delle più terribili. La figlia che le sta nascendo le viene strappata via da qualcosa che le si ribella contro nel suo stesso corpo. È questo che spezza il tempo, il suo e quello della narrazione cinematografica. Così come ai suoi occhi, anche ai nostri il prima e il poi si confondono. Con intelligenza e sensibilità, la sceneggiatura non si preoccupa di mettere in fila, uno dietro l’altro, i fatti che portano Maria in ospedale, e che la costringono a passare giorni e settimane accanto al bianco tecnologico e asettico di un’incubatrice. Semplicemente, improvvisamente, la racconta e la mostra svuotata della vita che la riempiva, e anzi svuotata d’ogni vita. La sua angoscia, sconfinata e inafferrabile, nasce dalla separazione fisica da Irene, come la convince a chiamare la figlia non ancora nata Giovanni (Gaetano Bruno), il “dottorino” che la assiste. E questa angoscia la induce a smettere d’esser madre dei suoi allievi, che abbandona alla loro fatica d’ogni sera. D’altra parte, non c’è più sera e non c’è più giorno nella sua vita. Immobile, quasi incatenata all’incubatrice, il tempo le si è ridotto a un presente senza direzione né senso. Del passato le giungono solo immagini frammentarie: l’amore di Pietro, soprattutto, e la sua fuga nella simmetria insensata della marcia di un gruppo di turisti irreggimentati in piazza del Plebiscito, nel centro di Napoli; e poi anche lo spezzarsi nel suo corpo del legame con la figlia. Quanto al futuro, ogni sua immagine s’è persa nella mancanza che le si è aperta dentro. Questa mancanza, per paradosso, è però anche tutto ciò che le resta. Solo lì, in quello spazio vuoto abissalmente suo, può e deve ritrovarsi. Nella figlia non ancora nata, ma neppure ancora morta, può e deve imparare a diventar madre, o a ridiventarlo: madre di Irene, e madre anche degli scarti e dei residui d’umanità affidati alla sua cura d’insegnante. Con amore e pudore, il cinema di Francesca Comencini e la recitazione di Margherita Buy la accompagnano in questo suo lavoro interiore, in questa sua difficile, incerta, coraggiosa ricostruzione del tempo.

RRoberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 25 ottobre 2009

 

Tre anni dopo la condizione di disperazione che poco margine lasciava a una qualsiasi forma di riscatto e di speranza - così come ci era stata presentata Milano in A casa nostra -, Francesca Comencini riparte dal ricco impasto di spunti che (solo) una città come Napoli può offrire. E, forse influenzata da un capoluogo che per statuto non capitola pur piegandosi, concede per lo meno il beneficio del dubbio, un cono d’ombra che luce non è ma nemmeno buio fitto. E lo fa tramite l’intenso personaggio di Maria - in realtà frutto della penna e della fantasia di Valeria Parrella, autrice del libro omonimo da cui il film è stato tratto -, una donna inaridita che tra i vicoli del quartiere di Montesanto inciampa inaspettatamente in un uomo di cui si innamora subito e che, bontà sua, la scarica non appena lei scopre di essere incinta. Non solo Maria - una splendida Margherita Buy, che per la prima volta si mostra in un nudo integrale e che a Venezia 2009 forse avrebbe meritato qualche riconoscimento in più - deciderà di arrendersi all’istinto materno fino a quel momento estraneo, ma addirittura lotterà per tre mesi insieme alla piccola Irene, nata (troppo) prematuramente al sesto mese di gravidanza. Quella bianca del titolo è proprio la zona franca compresa tra ciò che (non) è (ancora) vita e ciò che (non) è (ancora) morte: coincide con il reparto di terapia intensiva neonatale di un ospedale, con la lunga attesa dall’esito assolutamente in bilico, con la condizione di Maria, in bilico tra volontà di reagire e desiderio di soccombere, o, ancora, con la città di Napoli, affascinante ma nello stesso tempo insostenibile. In questo senso rimbombano le parole del magistrato (anche lei una donna, a rifinire una storia tutta al femminile che non risparmia nemmeno una certa stoccata a una società maschilista e ‘benpensante’ in cui un figlio non riconosciuto dal padre è da considerarsi ‘illegittimo’) con cui Maria condivide il pianerottolo: «Non si arrenda». Quasi un monito, un mantra. Da ripetere e ripetersi.

EEnrica Re, Film TV, ottobre 2009

 

 

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