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Scheda pdf (174 KB)
Perdona e dimentica - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 3 marzo 2011 – Scheda n. 18 (830)

 

 

 

 

 

Perdona e dimentica

 

 

Life During Wartime

 

 

 

Titolo originale: Life During Wartime

 

Regia, sceneggiatura: Todd Solondz

 

Fotografia: Edward Lachman. Montaggio: Kevin Messman.

Musica: Doug Bernheim.

 

Interpreti: Shirley Henderson (Joy), Michael Kenneth Williams (Allen),

Ciáran Hinds (Bill), Allison Janney (Trish),

Michael Lerner (Harvey), Charlotte Rampling (Jacqueline).

 

Produzione: Werc Werk Works. Distribuzione: Archibald Enterprise.

Durata: 98’. Origine: Usa, 2009.

 

 

 

Todd Solondz

 

Nato nel 1959, a Newark, nel New Jersey, Usa, Todd Solondz è una delle voci più scomode e corrosive nel panorama cinematografico mondiale, odiato in patria, poco amato anche in Europa. Caratteristica fondamentale dei film di Solondz è lo sguardo spietato sulle contraddizioni di uomini e donne, padri e figli, madri e figlie, fratelli e sorelle. Esordio con Fear, Anxiety & Depression (1989), seguito dal già perfetto Fuga dalla scuola media, premiato al Sundance Film Festival nel 1996. Nel 1998, un nuovo smascheramento dei guasti della famiglia e della società americana con le storie di vita di Happiness (visto al Cineforum), ambientato tra i prati verdi e le iperrealistiche villette a schiera del New Jersey, dove si nascondono vicende di pedofilia, abusi sessuali e frustrazione. Viene poi Storytelling (2001), quindi Palindromes (2004, in Italia uscito solo in dvd) e adesso questo Life During Wartime, tradotto da noi con un titolo sviante, Perdona e dimentica. Il film è stato premiato per la miglior sceneggiatura alla Mostra di Venezia del 2009.

Sentiamo Solondz: «Ho voluto rivisitare la famiglia Jordan, che avevo già presentato in Happiness. C’è un intervallo di dieci anni tra gli eventi di Happiness e quelli di Perdona e dimentica. Ma preferisco non essere obbligato dalla letteralità temporale o circostanziale. Amo cogliere le cose alla sprovvista, avvicinarle da un angolo nuovo. Per esempio, alcuni personaggi sono invecchiati di cinque anni, altri di venti. Alcune storie sono state trasformate. Ho fatto in modo che l’elemento razziale non fosse statico. Naturalmente il cast è completamente differente. In questa maniera è più divertente ed interessante. Non mi aspetto che nessuno ricordi nulla di Happiness o dei miei film precedenti. Quando ho scritto questo film qualche anno fa, non era nei miei piani scrivere ciò che ho scritto: è successo e basta. I personaggi mi sono ritornati in mente e sono partito da lì... Credo che il mio film sia una risposta alla vita. L’unica cosa che chiedo agli spettatori è di aprirsi a questi personaggi come mi sono aperto io».

 

La critica

 

Life During Wartime si apre come Happiness, film del 1998, con un uomo che regala a una donna un portacenere con inciso il nome di lei, Joy, nome che ritorna anche in questo film. Chissà se questa Joy è la stessa di allora. Sia che lo sia oppure no, la situazione non dev’essere cambiata da una decina di anni in qua. La vita è continuata e anche il tempo di guerra è tranquillamente proseguito, perché di guerre ce n’è sempre qualcuna e anche perché le stupide guerre fra i piccoli umani, uomini donne padri madri figli sorelle, non smettono di procurare i soliti dolori e false speranze. Il mondo di Todd Solondz è fatto a due strati, un mondo di superficie e un altro nascosto. Quello di sopra è vivacemente tinteggiato, dall’aspetto “felice”: e Solondz lo inquadra con chiara precisione, sottolineando sempre come i simpatici colori di oggetti, case e giardini non corrispondano per nulla allo stato d’animo dei protagonisti. Quello di sotto e di dentro è un luogo oscuro e incerto, sconvolgente e sconvolto, sballottato tra incertezze e dubbi, tra paure e spurghi di insensatezza. A mettere in comunicazione i due piani, sopra e sotto, sono le parole. I film di Solondz sono strapieni di parole, dialoghi in cui non ci si capisce, ci si scortica, ci si provoca, ci si prende in giro, ci si illude. La parola fa da montacarichi tra il sotto e il sopra. Con le parole vengono portate in superficie la disperazione, quieta o esplosiva, la rabbia, sorda o rancorosa, le illusioni e le disillusioni. Soprattutto vengono messi in bella e inquietante mostra la stupidità e il dolore. Stupidità e dolore vanno allacciati, avanzano a braccetto, di lunga scena in lunga scena, di lungo dialogo in lungo dialogo. È proprio per questo, perché la perfetta stupidità si accompagna sempre al dolore, che nei film di Solondz si è costretti a ridere delle peggiori tragedie che si accompagnano alle più stupide sciocchezze. Il ridicolo e il doloroso, in Solondz, nella rigorosa geometria secondo la quale lui ritraccia il mondo, viaggiano sempre strettamente allacciati. L’amore in tempo di guerra è raccontato in più storie, separate e unite da legami familiari. Un padre viene rilasciato dalla prigione dove è finito per pedofilia e va a trovare il figlio per capire se anche il ragazzo ha le sue stesse inclinazioni: e quando padre e figlio si incontrano, che è il momento più potente del film, siamo noi ad essere sopraffatti dall’angoscia. La madre e moglie cerca un nuovo amore e pensa di averlo trovato in un brutto signore che la fa venire “bagnata” come dice lei stessa esplicitamente al figlio di dodici anni: e qui si può anche ridere ma si rimane comunque perlomeno sconcertati. La sorella della madre infine cerca anch’essa l’amore, ma il problema è che gli uomini che pensa di amare finiscono per suicidarsi (e anche dopo morti continuano a frequentarla...). Solondz costruisce le sue lunghe scene con inquadrature molto semplici. È talmente potente, e doloroso, e pericoloso, e stupido, ciò che viene a galla nei dialoghi che le inquadrature possono permettersi di essere normali e distaccate. È come se il mondo non riflettesse per niente quello che di disgustosamente terribile vediamo e sentiamo accadere. La sensazione è di stare assistendo a un tranquillo succedersi di una serie di quadri di una esposizione in cui vediamo rappresentate, quietamente, alcune tra le più consuete inclinazioni degli esseri umani dei nostri tempi. Senza fretta. Con puntiglio. Senza che la macchina da presa pensi mai ad agitarsi o a preoccuparsi. Scene di conversazione, scene da matrimoni, scene in ristoranti eleganti o in cucina, in una bella casa, in posti qualsiasi. Scene di una commedia quasi sempre disumana, molto nera e molto ridicola anche se tutti sono depressi, anche quelli che si sforzano di non volerlo sembrare. Il crudele Solondz prova pietà per i suoi personaggi. Dice Charlotte Rampling, che nel film è una signora in là con l’età che cerca brevi consolazioni casuali: «Uno non può farci niente se è un mostro».

BBruno Fornara, Cineforum, n. 488, ottobre 2009

 

Come ha scritto giustamente Bruno Fornara recensendo, da Venezia, Life During Wartime, le parole, per Todd Solondz, contano, prima di tutto perché rappresentano il “montacarichi” tra una dimensione profonda e oscura e una dimensione solare ed emersa. L’una dentro l’altra, non in semplice opposizione o alternanza: nei film del regista cinquantenne, il mondo non si divide mai, semplicemente, in buoni e cattivi e in bene e male, e il racconto lavora pazientemente – portato dalla parola e dalla voce, dal detto e dal modo di dirlo – a intrecciare le cose e a renderle così inestricabili da lasciare sempre un po’ perplessi sulla “questione morale” e sullo sguardo più giusto con cui affrontarle (complice, anche, una buona dose di cattivissima ironia). Il che, tra l’altro, spiega l’ostracismo in patria e, più in generale, la difficoltà che molti, anche nell’apparentemente meno geometrica Europa, provano a sintonizzarsi col flusso delle parole dei suoi film. Eppure, grazie a quel tanto di pessimismo e misantropia alla base delle sue argomentazioni, Solondz è uno dei pochi registi veramente filosofi e morali in senso stretto attualmente in circolazione (ci sarebbero anche i Coen, che però finiscono sempre intrappolati dal gioco e dal gusto cinefilo): per questo, al di là di ogni valutazione estetica, andrebbe ringraziato per il lavoro sporco, impopolare e controcorrente che continua a fare di film in film, indipendente puro e smarcato da ogni forma di autocensura (...). Solondz è attratto (ma non perversamente) dal peggio, non ha paura di scavare tra i rifiuti e ha un fiuto incredibile per l’ipocrisia; è lo spazzino e il medico legale della coscienza contemporanea. Fin dal suo primo film, Fear, Anxiety & Depression (1989), ha eletto la società americana e i suoi modelli e palinsesti a bersaglio privilegiato, e da allora il suo lavoro dal piccolo al grande, dal personaggio al “tipo” e dal racconto alla Storia, non ha mai sbagliato un colpo, trasformandosi puntualmente, e senza forzature sociologiche, in una fotografia lucidissima dei tempi che corrono e si nascondono. (...) Questa umanità sempre leggermente in calare, questi corpi sempre sottilmente meccanici, questi sentimenti sempre un po’ troppo perfetti nella loro integrità sensibile e nella loro complessità drammaturgica (madri con la M maiuscola, lacrime a fiotti, amori disperati o al contrario compressi fino a ghiacciare eccetera), tutto questo, già ben detto e mostrato nel primo lungometraggio, si svilupperà compiutamente nei film successivi, rivelando come, sul piano dello stile, l’unicità dell’“effetto” Solondz sia il prodotto di un’esasperazione della scrittura (a tutti i livelli) direttamente prodotta dalla verifica di un deficit di realtà e dal confronto con un’autenticità perduta nel tempo e nella storia e ormai sostituita da altre scritture più o meno visibili o da lifting social-morali che vanno sotto il nome di conformismo, buonismo, progressismo eccetera. (...)

LLuca Malavasi, Cineforum, n, 494, maggio 2010

 

 

 

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