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Scheda del film (175 Kb)
Anime nere - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 15 ottobre 2015 – Scheda n. 2 (950)

 

 

 

 

 

Anime nere

 

 

 

Regia: Francesco Munzi

 

Sceneggiatura: Francesco Munzi, Maurizio Braucci, Fabrizio Ruggirello,

dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco.

Fotografia: Vladan Radovic, Valerio Azzali. Montaggio: Cristiano Travaglioli.

Musica: Giuliano Taviani.

 

Interpreti: Marco Leonardi (Luigi), Peppino Mazzotta (Rocco),

Fabrizio Ferracane (Luciano), Barbara Bobulova (Valeria),

Anna Ferruzzo (Antonia), Giuseppe Fumo (Leo),

Pasquale Romeo (Ercole), Vito Facciolla (Pasquale),

Aurora Quattrocchi (Rosa).

 

Produzione: Cinemaunidici, Babe Film, Rai Cinema, On My Own, Bianca Film.

 Distribuzione: Good Films.

Durata: 103’. Origine: Italia, 2014.

 

 

Francesco Munzi

 

 

Romano (1969), laureato in scienze politiche, allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia, Francesco Munzi comincia con documentari e corti: Van Gogh (1990), Valse (1992), La disfatta (1994), Tre del mattino (1994), Nastassia (1996), L'età incerta (1998),  Giacomo e Lo Mua (1999), Il neorealismo. Letteratura e cinema (1999). Del 2004 è il suo primo lungometraggio, Saimir, storia di un sedicenne albanese emigrato in Italia, presentato a Venezia, segnalato con una menzione del Premio Luigi De Laurentiis Opera prima, premiato come miglior film al Bimbi Belli Festival (quello di Nanni Moretti), vincitore di un Nastro d’Argento come migliore scoperta. Il secondo film è Il resto della notte, mostrato alla Quinzaine des Réalisateurs, a Cannes. Anime nere (2014) è tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco. Presentato alla Mostra di Venezia ha ricevuto ottime critiche e un’accoglienza calorosissima del pubblico. Il film ha vinto nove David di Donatello.

Sentiamo Munzi: «Ho girato nel paese che la letteratura giudiziaria e giornalistica stigmatizza come uno dei luoghi più mafiosi d'Italia, uno dei centri nevralgici della ’ndrangheta calabrese: Africo. Quando raccontavo che avrei voluto girare lì, tutti mi dissuadevano dal farlo: troppo difficile la materia, troppo inaccessibile, troppo pericoloso. Era un film impossibile. Ho chiesto allo scrittore del romanzo Anime nere da cui il film è liberamente tratto, Gioacchino Criaco, di aiutarmi. Sono arrivato in Calabria carico di pregiudizi  e paure. Ho scoperto una realtà molto complessa e variegata. Ho visto la diffidenza trasformarsi in curiosità e le case aprirsi a noi. Ho mescolato i miei attori con gli africesi che hanno recitato e lavorato con la troupe. Senza di loro questo film sarebbe stato più povero. Africo ha avuto una storia di criminalità molto dura che però può aiutare a comprendere tante cose del nostro paese. Da Africo si può vedere meglio l’Italia...

Ero consapevole che stavo per raccontare una vicenda molto forte, una storia familiare che si spinge verso gli archetipi classici della tragedia e che questo avrebbe significato anche tanta fatica produttiva. Era un territorio delicato e c’è stata la scoperta sul campo di tante cose. Forse proprio il fatto di riuscire ad entrare in contatto con una realtà fortemente radicata e drammatica mi ha permesso di raggiungere un livello di realismo che è stato la forza del film...

È stata la paura uno dei motori che mi ha spinto a fare questo film. Volevo andare oltre, fare qualcosa che andasse al di là delle convenzioni e del già visto. Naturalmente l’apporto di Gioacchino Criaco, lo scrittore dell’omonimo romanzo, è stato fondamentale. Lui era il mio Virgilio, il mio Caronte e mi ha permesso di raccontare dei drammi attraverso un progetto filmico complesso. Leo, il più piccolo dei fratelli, rappresenta la generazione perduta. Mi premeva raccontare quel personaggio, che certamente non è esaustivo di un’intera generazione, che non avendo prospettive guarda alla mitologia negativa del passato, anche familiare, esaltandola in maniera molto pericolosa. E la parabola del personaggio nel film rende esplicito il fatto che questo tipo di strade portano solo morte e distruzione, ma già il fatto di volerne parlare e di volerlo rappresentare mi sembra un elemento che porta di per sé un germe catartico, progettuale e positivo....

Nonostante la connotazione estremamente locale, il dialetto calabrese, le montagne e i luoghi specifici si può arrivare a narrare una storia che tocca tanti livelli. È il dettaglio del particolare che racconta l’universale. E non sempre questo è diffuso nel nostro cinema...

Il mio film fotografa una realtà, ma va oltre l’immagine. Si pone delle domande prima di fornire una chiave di lettura. Indaga nella storia, scava fino alle radici, analizza percorsi culturali. Abbiamo deciso di andare oltre la facciata senza esprimere giudizi affrettati, ci siamo presi il tempo necessario per discutere e confrontarci. Dietro ogni immagine, dietro un gesto, una parola o uno sguardo c’è sempre molto altro...

Quella descritta è una dimensione sociale che è diventata di fatto un insieme di gabbie. Nel film diventa una gabbia il clan, lo diventano i rapporti di affari e i legami familiari. È una gabbia persino la quotidianità. Gabbie nelle quali si consumano le vite e le solitudini sia individuali che collettive. In molti casi non sono neppure gabbie imposte, ma che in quel luogo ognuno ha costruito attorno a sé in maniera quasi inconsapevole. Pareti fatte da regole non scritte che diventano consuetudini. Persino i personaggi positivi come Luciano ne restano schiacciati non riuscendo a trovare una via d’uscita. Si parla in una certa maniera, ci si muove in un determinato modo, si hanno atteggiamenti precisi a seconda dei contesti. Si tratta di maschere che ognuno indossa di volta in volta. Così, per sopravvivere ci si rifugia nel rapporto con la religione, con i santi, con la straordinaria montagna dei pastori e con le radici. È la ricerca di un’alternativa, di una via di fuga temporanea, di un’oasi da cui ripartire per riscrivere il destino».

 

 

La critica

 

 

Superficialmente, a voler far fede solo sulla sinossi, Anime nere trova il proprio motore in una faida che si riapre per uno “sgarro” commesso da un adolescente, convinto di fare una bravata. Il giovane è figlio di un uomo onesto – un allevatore di capre dalla religiosità arcaica, che al credo cristiano accompagna rituali pagani, desideroso di rimanere estraneo ai fatti di sangue che videro il padre (nonno del ragazzo) vittima di una ritorsione da parte del clan rivale – e nipote di un trafficante internazionale di droga, che in breve diventa il riferimento del giovane, e di un imprenditore edile che ricicla denaro sporco nel settore immobiliare. Forse “depistati” dall’argomento (traffico di droga, riciclaggio, regolamento di conti tra “famiglie”), all’indomani della proiezione alla Mostra del Cinema, alcuni hanno visto nel film di Munzi una parentela con Gomorra (2008) di Matteo Garrone, mentre altri hanno citato in più occasioni Fratelli (The Funeral, 1996) di Abel Ferrara, per il legame fra i tre fratelli e il desiderio di vendetta. Eppure Anime nere è lontanissimo dall’ossessione che muove il cinema di Garrone, Gomorra compreso, ossia il disvelamento della bellezza dietro all’orrore, o meglio, la bellezza come principio stesso dell’orrore: «Perché nulla è il bello, se non l’emergenza del tremendo» (Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi). Munzi non è ossessionato dai corpi, dalla loro ambiguità, dallo scarto incolmabile tra modello e corpo reale, ma fonda l’intero film sul sangue, che struttura un vincolo, ma che funge anche da sostanza contaminata e contaminante. Al tempo stesso non c’è la ricerca di un’espiazione, riscontrabile invece nel film di Ferrara, così come l’ispirazione non deriva dal teatro elisabettiano. Se un fondamento va cercato, è nella tragedia greca. La decisione del fratello “onesto” – che cerca disperatamente, ma senza riuscirvi, di salvare il figlio – di porre termine alla faida, scegliendo il proprio annientamento e quello dei consanguinei, non ha nulla a che vedere con la redenzione cristiana e nemmeno è da leggersi come “punizione”. Il sangue che scorre nelle loro vene è “malato”, come se l’appartenenza alla ’ndrangheta fosse una malattia congenita, tramandata col sangue dal padre ai figli, e come si fa con le bestie malate che figliano altre bestie ammalate, la soluzione è la morte: solo abbattendole si interrompe il contagio. Per la prima volta un’organizzazione di matrice mafiosa non viene trattata come il risultato di una condizione culturale stravolta – e che, di conseguenza, potrebbe essere affrontata e debellata, al di là dell’intervento sanzionatorio dello Stato, grazie a una cultura basata su legalità e giustizia – ma come una malattia che non prevede cura: solo lo sterminio. Nel controverso trattamento dell’organizzazione criminale e delle sue leggi cruente sta anche il fascino del film di Munzi, misterioso e cupo, tutt’altro che conciliatorio, che pone la ’ndrangheta come un ultracorpo multiforme impossibile da fronteggiare con armi diverse da quelle usate dagli affiliati per “far pulizia”. La carneficina messa in atto dall’uomo che più è lontano dalle logiche mafiose – ma, al tempo stesso, più è prossimo ai rituali arcaici – non deve essere vista solo come “semplice” risoluzione (per quanto feroce) di una faida che non avrebbe termine se non nel sangue: in parole povere, meglio metter fine al più presto, “tra di noi”, a quella che sarebbe un’ecatombe che, con ogni probabilità, non lascerebbe scampo a nessun componente della famiglia. In realtà la distruzione della propria famiglia, in quelle condizioni, non è altro che la messa in atto delle regole mafiose che considerano il sangue l’unico discrimine di riconoscimento (su quella base si vive o si muore e, se si tradisce, si tradisce sempre e comunque il sangue). Non c’è sacrificio, così come non sono vere e proprie vittime sacrificali gli animali che di volta in volta vengono ammazzati e, successivamente, attorno alle loro carni, viene organizzato il “banchetto”. Il rito, anche solo formalmente, va rispettato, quasi a non poter infrangere una legge divina che regola la vita e impartisce ordini.

GGloria Zerbinati, Cineforum,n. 539, novembre 2014

 

 

 

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di   Alejandro González Inárritu

   


 

 


Riggan Thompson è una star planetaria.

Ha avuto un grande successo come Birdman, supereroe alato e mascherato. Ma la celebrità non gli basta: il donchisciottesco Riggan vuole dimostrare di essere anche un bravo attore. Scrive l’adattamento di un racconto di Raymond Carver per dirigerlo e interpretarlo in teatro a Broadway.

Il film è una commedia agrodolce e nera sull’ego maschile.  Tanti piani sequenza dentro e fuori dal teatro, nei camerini, nei corridoi, lungo le strade di New York. Michael Keaton, bravissimo, ha per spalla un superlativo Edward Norton.

Film perversamente gonfio e roboante, eccessivo e profondo, contraddittorio e generoso, ambizioso e sincero. Con in più quel perverso rullo di batteria...

Durata: 119’.

 


 

 

Giovedì 22 ottobre

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