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Giovedì 21 gennaio 2016 – Scheda n. 14 (962)
Timbuktu
Regia: Abderrahmane Sissako
Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako, Kessen Tall
Fotografia: Sofiane El Fani. Montaggio: Nadia Ben Rachid.
Musica: Amine Bouhafa. Scenografia: Sébastien Birchier.
Interpreti: Ibrahim Ahmed (Kidane), Toulou Kiki (Satima),
Abel Jafri (Adbelkrim), Fatoumata Diawara (Fatou), Kettly Noël (Zabou),
Mehdi A.G. Mohamed (Issan), Layla Walet Mohamed (Toya),
Adel Mahmoud Cherif (l’imam), Salem Dendou (il capo jihadista),
Hichem Yacoubi, Mamby Kamissoko, Yoro Diakité (i jihadisti).
Produzione: Les Films du Worso/Dune Vision/Arches Films/
Arte France Cinéma/Orange Studio.
Distribuzione: Academy Two. Durata: 97’. Origine: Mauritania/Francia, 2014.
Abderrahmane Sissako
Abderrahmane Sissako è uno dei maggiori registi e produttori africani. Fa parte di quel non numeroso gruppo di autori dell’Africa centrale che si è imposto all’attenzione internazionale, insieme a Ousmane Sembene, Souleymane Cissé, Idrissa Ouedraogo e Djibril Diop Mambéty.
Nato nel 1961 a Kiffa, in Mauritania, terra di sua madre, trasferitosi poi in Mali, terra di suo padre, e tornato in Mauritania nel 1980, lascia l’Africa alla volta di Mosca dove studia alla famosa scuola di cinema, il VGIK. Si trasferisce poi in Francia e comincia a dirigere dei corti: Le jeu (1989), girato fra il deserto mauritano e il Turkmenistan, October (1993), realizzato nei quartieri di Mosca e vincitore della sezione Un Certain Regard a Cannes, Le chameau et les bâtons flottants (1995), adattamento delle fiabe di La Fontaine, e Sabriya (1996) sulla Tunisia. Del 1997 è il documentario Rostov-Luanda. L’anno seguente, gira La vie sur Terre, a Sokolo, il villaggio di suo padre in Mali. Nel 2002 dirige Aspettando la felicità, ispirato al suo esilio in terra straniera e al suo ritorno a casa in Mauritania nel 1980. La pellicola ottiene a Cannes il premio FIPRESCI dei critici internazionali. Del 2006 è Bamako. Il recente Timbuktu (2014) è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero e ha vinto il Premio della Giuria Ecumenica a Cannes.
Sentiamo Sissako: «In questa vicenda terribile, due cose mi hanno colpito in particolare: l’assurdità e la violenza degli atti che i jihadisti hanno commesso quando sono entrati a Timbuktu e soprattutto la lapidazione di quella coppia che è avvenuta proprio a Timbuktu. Ho voluto raccontare subito quella storia per mostrare che in quel luogo e in quel momento quello che stava capitando era assolutamente paradossale. Restiamo in silenzio quando le vittime sembrano così lontane e diverse da noi.
Timbuktu è una città simbolica. Qualche anno fa, nel 2006, ho girato una sequenza di un film western, Bamako, con Denny Glover, proprio a Timbuktu che era, in quel periodo, un luogo straordinario di tolleranza e scambi. Giravamo proprio davanti alla moschea e nessuno si è sentito minacciato o offeso da questo. Di tanto in tanto fermavamo le riprese per lasciare passare le persone che andavano a pregare. È questo il vero Islam ed è per questo che l’occupazione di Timbuktu, da parte di persone provenienti da altri luoghi è simbolica. Timbuktu è un luogo mitologico, tutti ci sentiamo feriti dalla sua occupazione. L’occupazione della città, nel 2012, è durata un anno. Tutta la popolazione è stata presa in ostaggio...
Quando Timbuktu è stata liberata dalle truppe francesi, sono andato sul posto. Avevo intenzione di rivedere la sceneggiatura, incontrando la gente del posto. Ho visto anche quelle ragazze stuprate che chiamano vergognosamente “sposate con la forza”. Esattamente come le studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Una di loro, di 19 anni, ha avuto il coraggio di raccontarmi che ogni sera vedeva arrivare quattro uomini, dei quali non vedeva il viso. Ho raccolto tutte queste testimonianze, con attenzione, cercando di restituirle in modo genuino, pudico, senza amplificarle. A che serve aggiungere qualcosa, la realtà è già di per sé così terribile...
Avevo intenzione di girare lì, sul posto. Purtroppo c’è stato un attentato suicida davanti alla guarnigione militare. Tre uomini in fuoristrada si sono fatti esplodere dopo essere stati a mangiare tutti insieme una grigliata. Hanno ammazzato due uomini che passavano di lì con il carretto. Era estremamente rischioso portare una troupe a Timbuktu, e così ho deciso di spostare le riprese di alcune scene in Mauritania. La difficoltà era di portare in quel luogo le persone di etnie che vivevano a Timbuktu e non in Mauritania: i Songhai, i Tuareg, i Bambara, i Peuls…
Nel film mostro anche che i jihadisti possono essere persino cortesi: restituiscono gli occhiali e i medicinali all’ostaggio europeo e gli offrono il tè. Un secondo dopo, magari lo decapiteranno. Ma racconto anche come possono lapidare e ammazzare una coppia e flagellare una donna perché ha cantato.
(...) Tengo molto al personaggio del rapper, un giovane a cui hanno fatto il lavaggio del cervello e che pensa che quando faceva musica era nel peccato. Abbiamo saputo poi che l’uomo che ha tagliato la gola all’ostaggio americano James Foley era con ogni probabilità un ex rapper londinese».
La critica
Timbuktu è una delle città più affascinanti al mondo. Fondata prima del 1000, nel Quattrocento era il popolato centro (si stima di mezzo milione di abitanti) più significativo della cultura islamica in Africa. Oggi la popolazione si è ridotta a meno di un decimo. Strade e palazzi antichi vengono man mano inghiottiti dal deserto, che si spinge fino alla meravigliosa Biblioteca-museo (devastata recentemente dai salafiti, come un tempo avvenne per quella di Alessandria, che conteneva tutto il sapere del mondo allora conosciuto, messa a fuoco dai cristiani, o come quella di Sarajevo, distrutta dagli aggressori nazionalisti serbi), testimonianza per secoli della ricchezza e complessità di una cultura straordinaria (gli integralisti hanno distrutto anche gli antichi mausolei dei mistici sufi, che hanno animato per secoli la vita culturale di Timbuktu). Nel Sahara (di cui la città costituisce la prima porta d’accesso meridionale) vivono i Tuareg: antico popolo berbero – non arabo – di mercanti, allevatori, guerrieri e razziatori (uno dei diversi popoli che convivono da millenni in Mali). Fra loro si distinguono i bianchi, eredi degli antichi dominatori, e i neri, discendenti dei loro schiavi: rapiti, venduti e obbligati a lavorare per secoli. (...)
Passando del tempo fra i Tuareg, sembra che il tempo si sia fermato, così come succede allo spettatore che osserva la vita semplice e rilassata della famiglia di pastori protagonisti della sezione centrale della narrazione nel film di Sissako: Kidane, sua moglie Satima e la loro figlia dodicenne Toya («Vita mia», la chiama il padre). La meravigliosa saggezza delle culture dell’Africa Nera vuole che buona parte del tempo venga dedicata alla convivialità, alla festa, agli affetti e all’ozio (veri ingredienti della dignità umana, altro che il lavoro! Quest’ultimo viene avvertito come una fastidiosa necessità, cui dedicare meno tempo possibile). Il segreto è, per loro, vivere con pochissimo: senza ciò che noi riteniamo indispensabile (...) e facendo pochissimo di “utile”: anche per questo l’atto compiuto dal pescatore (l’uccisione della vacca più bella per vendicare la rottura di una rete) viene avvertita come un sopruso inaccettabile. (...)
Il film inizia con un crimine: la distruzione a colpi di mitra di statue lignee Dogon, Senufo e di terrecotte di Djenné (simboli di antiche e diverse culture maliane, cariche di senso, di storia, di spiritualità) rappresenta un emblema di quel genocidio culturale che da sempre (anche oggi) missionari più o meno armati di ogni religione impongono alle popolazioni locali (che vivrebbero benissimo senza di loro e senza le loro imposizioni ricattatorie e spietate). Elemento fondante del film è la contrapposizione fra l’Islam pacifico e tollerante degli spiritualisti (diffuso in molte aree africane, dove è prevalente la cultura dei mistici islamici, del tutto disinteressati al potere politico e alla gestione della vita degli altri) e quello aggressivo e poliziesco degli integralisti (l’origine dei wahabiti è nella penisola arabica, anche se si stanno estendendo in un modo tanto minaccioso da ricordare la prima diffusione armata dell’islamismo, nel Settimo secolo). Il contrasto viene rafforzato anche dall’operato degli impiegati dell’orrore, come l’ottuso giudice che amministra, con puntiglioso sussiego da travet, la sharia (il peccato come reato, così come piace a tutti gli assolutisti), dai mitra onnipresenti e dalla lingua (l’arabo) imposta ai dominati dagli invasori. (...)
La moschea in terra battuta è un luogo di pace e di tranquillità, in cui fanno irruzione gli aggressori, armati e con gli scarponi; qui si evidenzia il conflitto fra due concezioni opposte del jihad: come battaglia interiore da affrontare con franchezza di cuore e disponibilità, oppure come guerra ai non credenti: come oppressione, tortura, morte. (...)
Ma neanche i persecutori (che frustano in pubblico ragazzi e ragazze sorpresi insieme a suonare e passare il tempo oziando piacevolmente) possono nulla di fronte al carisma della maga folle, della “zingara” dai movimenti ieratici, che vive all’aperto, con tutta la sua bizzarra strumentazione esoterica. Di fronte a lei si snoda una danza sensuale senza musica, che ha il suo correlativo nella partita a calcio senza pallone (il corpo del reato è stato sequestrato dai conquistatori) giocata dai ragazzi: la grazia contro una brutalità aberrante, e la forza delle donne, la loro tenacia vitale, abbinata a quella dei giovanissimi (dei loro figli). La costrizione a subire in silenzio si trasforma così in gioco sarcastico, irrisorio nei confronti di ordini assurdi (di cui vivono tutte le religioni: il termine deriva dal verbo latino religo, cioè lego, stringo, costringo). In tutto ciò, contro l’assuefazione all’orrore, l’autore riesce a esprimere anche una profonda ironia (da sempre arma micidiale contro l’ottusità degli integralisti).
PPierpaolo Loffreda, Cineforum, n. 543, aprile 2015
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