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Il segreto del suo volto - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 28 gennaio 2016 – Scheda n. 15 (963)

 

 

 

 

 

 

Il segreto del suo volto

 

 

 

Titolo originale: Phoenix

 

Regia: Christian Petzold

 

Sceneggiatura: Christian Petzold, Harun Farocki,

dal romanzo Le ceneri della defunta di Hubert Monteilhet.

Fotografia: Hans Fromm. Montaggio: Bettina Böhler.

Musica: Stefan Will. Scenografia: Kade D. Gruber.

 

Interpreti: Nina Hoss (Nelly Lenz), Ronald Zehrfeld (Johnny Lenz),

Nina Kunzendorf  (Lene Winter), Michael Maertens (il medico),

Imogen Kogge (Elisabeth), Felix Römer (il violinista).

 

Produzione: Schramm Film Koerner&Weber, Bayerischer Rundfunk,

Westdeutscher Rundfunk, Arte, Tempus. Distribuzione: Bim.

Durata: 98’. Origine: Germania, Polonia, 2014.

 

 

Christian Petzold

 

 

Nato a Hilden, in Germania, nel 1960, Christian Petzold si è trasferito a Berlino per studiare teatro e letteratura. Poi è passato al cinema alla German Film and Television Academy e ha cominciato la sua carriera come assistente alla regia di Harun Farocki e Hartmut Bitomsky. È considerato uno dei maggiori talenti del cinema tedesco e ha già ottenuto numerosi riconoscimenti nel suo paese e all’estero fin dal suo esordio, nel 1995, con il Premio d’Oro del cinema tedesco per il film di laurea Pilotinnen. Nel 2000 gira Die innere Sicherheit (La sicurezza interna). Nel 2004, Gespenster (Fantasmi) viene presentato al festival di Berlino, come anche Yella, nel 2007. Le tre pellicole vengono considerate parte di una trilogia detta “dei fantasmi”, con i protagonisti che hanno identità insondabili e segrete, un tema centrale nel cinema di Petzold. Dopo Jerichow (2008), dirige nel 2012, La scelta di Barbara (visto al Cineforum), Orso d’argento al festival di Berlino. Questo Il segreto del suo volto ha vinto il premio Fipresci al festival di San Sebastián.

Sentiamo Petzold: «Primo giorno di riprese: un bosco di betulle, un soldato della Wehrmacht , alcune donne con la divisa del campo di concentramento. Il nostro punto di riferimento era una fotografia che ci era stata fornita dalla Shoah Foundation: l’immagine sgranata e a colori di un incrocio nella foresta, nella luce a chiazze del mattino. E, guardando meglio, la morte: un cadavere nell’erba. Durante le riprese, ci siamo subito accorti che qualcosa non andava: la luce era buona, l’inquadratura anche, ma la scena non funzionava. La ricostruzione dell’orrore, la rappresentazione di Auschwitz, dentro e fuori dal campo, apparivano finte, forzate. Sembrava quasi che stessimo dicendo: “È arrivato il momento. Ora condenseremo quell’orrore in una storia e gli daremo un ordine e un senso”. Abbiamo preso tutto il girato di quel giorno e l’abbiamo buttato via. Lo storico Raul Hilberg ha scritto che il terrore seminato dai nazisti e dalla massa obbediente impiegava tecniche già note. La novità erano i campi di sterminio: l’eliminazione su scala industriale di esseri umani. Per le vecchie tecniche c’erano canzoni, storie, letteratura…

Uno dei testi che ci hanno più influenzato nella preparazione del film è stato Ein Liebesversuch (Un esperimento d’amore) di Alexander Kluge. La vicenda è ambientata ad Auschwitz. Alcuni nazisti guardano attraverso uno spioncino dentro una stanza chiusa. Osservano una coppia di ebrei che, come risulta dai loro archivi, un tempo erano follemente innamorati. Vogliono che la coppia faccia l’amore. Lo scopo è quello di stabilire se la donna è stata sterilizzata con successo. Provano di tutto: champagne, luci soffuse, acqua gelata spruzzata addosso nella speranza che il freddo induca i due a cercare un po’ di calore e a riavvicinarsi. Ma non succede niente. In un certo senso, il fallimento dei medici nazisti è una vittoria dell’amore: un amore perduto che non accetta di farsi comandare da quei criminali. È un testo che ci ha colpito profondamente. Ci siamo chiesti: è possibile fare un balzo indietro nel tempo al di là del baratro nichilista scavato dal nazionalsocialismo, e ricostruire cose come l’amore, la compassione, le emozioni, l’empatia, la vita? Nelly non accetta l’idea che le storie, le canzoni, le poesie e perfino l’amore non siano più possibili. Vuole riportare indietro il tempo. Mi interessano le persone che si rifiutano di accettare qualcosa, e che per farlo vanno dritte per la loro strada armate di coraggio e determinazione...

Il problema era come far finire il film. L’unico modo mi sembrava quello di mostrare Nelly che fa una scelta, ma una scelta che non porta la storia a una conclusione. Restiamo con le nostre domande, con tanti dubbi irrisolti. L’unica persona che non riconosce Nelly è proprio Johnny. Ed è Nelly stessa a non riconoscersi. Lei ha perso qualcosa, lui ha tradito qualcosa. Alla fine, si ritrovano nell’albergo di una stazione ferroviaria. Fuori, la notte. Nelly ha una pistola. Lei si avvia sulla banchina, va verso il treno in arrivo. Mentre lavoravo al montaggio, pensavo che questa scena contenesse tutti gli elementi della tragedia romantica: il suicidio, un delitto passionale, una riconciliazione. Ma Nelly prende una decisione diversa. Realizza un piano che è solo suo, che non ci aspettiamo: è lei che termina il film. Non era dichiarato esplicitamente nel copione – o forse sì. Ma in realtà l’abbiamo capito solo durante le riprese».

 

 

La critica

 

 

Un’innovazione significativa di Petzold e Farocki rispetto al romanzo di partenza consiste nell’avere assegnato a Nelly la condizione di donna sfigurata, mentre nel romanzo è “soltanto” segnata nel volto e nel corpo tanto da essere invecchiata di anni. Il film inizia con una sua umiliazione: al momento di passare la frontiera per la Svizzera, nel giugno 1945, Nelly e Lene vengono fermate da un soldato statunitense che costringe la prima a togliersi le bende che le ricoprono il viso. Petzold mostra lo sguardo orripilato del militare ma cela il controcampo del viso ustionato, così come nasconde in ellissi ogni immagine del passato della donna (non c’è nessun flashback) e ogni fotografia del suo volto com’era prima dell’intervento. Nelle prime sequenze, Nelly è mostrata in posa fetale nel letto, come un essere depossessato di sé che deve riassumere dimestichezza con le normali funzioni del vivere perché nel lager ha subìto la violenta obliterazione non solo della sua dignità e identità ma anche della condizione di essere umano. Quando cammina la notte per le strade ha una strana, dolorosa rigidità, come se stesse apprendendo di nuovo a camminare. È grazie alla tessitura luministica e cromatica di Hans Fromm che Petzold conferisce un’aura fantasmatica alle prime deambulazioni notturne di Nelly nella Berlino devastata dalla guerra (mostrata di sfuggita, senza mai rendere la devastazione materia di spettacolo). Se nei pochi esterni appare talvolta una natura che contrasta con il paesaggio urbano di macerie, negli interni dominano luci contrastate: per volontà dell’autore, il film è stato realizzato in 35mm e sarà uno degli ultimi a essere stato girato in Kodachrome, con verdi e rossi accesi, come nelle scene del cabaret dove la donna ritrova il marito. Nelly disattende i consigli di Lene (che si sente più vicina ai morti che ai vivi) e si avventura per le strade notturne di Berlino, esprimendo così lo spaesamento vertiginoso di chi non riconosce se stessa nel nuovo volto ricostruito dal bisturi e non si sente più a casa nel proprio Paese. Non senza qualche specularità con la condizione della Germania, che deve ricostruire strade e case. Ma Nelly si aggira in una Germania che ha anche già iniziato il processo di rimozione dei propri crimini: rimozione incarnata perfettamente da Johnny e dalla sua cecità a riconoscere nella donna che gli appare davanti la fisionomia della moglie, tanto da renderla strumento di una messinscena truffaldina (ed esorcistica) per mettere le mani sull’eredità di colei che egli crede defunta. È una messinscena dove, però, gradatamente, Nelly recupera il suo aspetto esteriore di prima, a cominciare dal colore dei capelli. Rispetto al romanzo, Petzold ha eliminato ogni implicazione erotica nel loro rapporto: la ospita nella sua miseranda abitazione, la nutre, fa colazione con lei come un coniuge, ma quando Nelly tenta di abbracciarlo si ritrae (mentre nel romanzo hanno frequenti e appassionati rapporti erotici anche prima che lei gli riveli la sua identità reale). Johnny non vuole riconoscerla anche perché non vuole misurarsi con la sua colpa di delatore. Nelly, invece, si presta a questa recita come se l’unico modo per riottenere la propria identità fino in fondo fosse conquistare il riconoscimento del marito. Invece quella finzione le permette di scoprire una realtà che tenta di nascondere a se stessa, ignorando anche gli avvertimenti di Lene: l’assenza di un autentico sentimento da parte dell’uomo nei suoi confronti, tanto che egli non ha esitato a divorziare prima di denunciarla, pur di salvarsi, e ora non si fa scrupoli a organizzare una messinscena per arricchirsi.

Il momento della verità coincide con il culmine della finzione: la recita nella recita di Nelly che finge di essere un’altra che simula di essere lei per persuadere amici e conoscenti. Quando Nelly arriva alla stazione ha un abbigliamento impeccabile (su suggerimento di Johnny, per non ricordare agli altri da dove proviene…), ma il suo volto lascia trapelare il mutamento che è avvenuto dentro di lei (straordinaria l’espressività dell’attrice Nina Hoss). È durante l’interpretazione della canzone Speak Low di Kurt Weill (parole di Ogden Nash) che Nelly si toglie la maschera e smaschera l’abiezione del marito, denudando la pelle del braccio dove sono tatuati i numeri del lager e rendendo riconoscibile la propria identità attraverso la sua voce e arte. Proprio negli istanti in cui la donna si riprende la propria identità agli occhi degli estranei – e del marito, che sembra liquefarsi, per la prima volta schiacciato dalla vergogna – Nelly è ormai diventata un’altra, una figura che sfuma nel flou mentre abbandona l’inquadratura.

RRoberto Chiesi, Cineforum, n. 543, aprile 2015

 

 

 

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Belluscone

 

Una storia siciliana

 

 

di

 

Franco Maresco

 

 

 

 

Belluscone è come si pronuncia a Palermo il nome del nostro ex primo ministro.

Il Belluscone (vero) è sul viale del tramonto e nel film non è neanche il personaggio principale che è Ciccio Mira, un impresario (vero) di cantanti neomelodici, nostalgico della mafia di un tempo. La terza presenza è una non-presenza, quella del regista (vero) Franco Maresco che sceglie di scomparire perché è inutile in questa Italia darsi da fare: “Non amo la mia contemporaneità, pur essendo consapevole di interpretarla bene, cioè di comprenderla”. Poi c’è il critico cinematografico (vero) Tatti Sanguineti che arriva a Palermo per cercare di rimettere insieme questo film.

L’Italia com’è, come sta, come non sta.

Durata: 95 minuti.

 

 

Giovedì 4 febbraio

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