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Scheda del film (174 Kb)
Pelo malo - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 11 febbraio 2016 – Scheda n. 17 (965)

 

 

 

 

 

Pelo malo

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Mariana Rondón

 

Fotografia: Micaela Cajaharinga. Montaggio: Marité Ugás.

Musica: Camilo Froideval. Scenografia: Matías Tikas.

 

Interpreti: Samuel Lange (Junior), Samantha Castillo (Marta),

Nelly Ramos (Carmen), Beto Benites (El Jefe),

Maria Emilia Sulbarán (la ragazzina).

 

Produzione: Marité Ugas, Gunter Hanfgam, José Ibáñez

per Sudaca Films/Imagen Latina, Hanfgarn & Ufer Film und TV Produktion,

La Sociedad Post, Artefactos S.F.

Distribuzione: Cineclub Internazionale. Durata: 93’. Origine: Venezuela, 2013.

 

 

Mariana Rondón

 

 

Nata nel 1966 a Barquisimeto, in Venezuela, Mariana Rondón è regista, sceneggiatrice e artista visuale. Ha studiato animazione a Parigi, poi si è laureata alla Film School EICTV di Cuba. Il suo primo corto, Street 22, ha ricevuto un numero altissimo di premi internazionali. Il suo primo film, At midnight and a half (2000), ha fatto il giro del mondo nei festival. Nel 2007 ha diretto Postcards from Leningrad, quindi è arrivato questo Pelo malo, primo premio al festival di San Sebastián.

Sentiamo la regista: «Una delle prime immagini che mi è venuta in mente per questo film è stato un grande edificio plurifamiliare e le migliaia di storie che si svolgono dietro quelle mura: il calore, la nudità, la precarietà, fragilità, sensualità, sesso, violenza, famiglia, madre, bambino. Le piccole, intime storie che ho immaginato sono cresciute in modo più complesso e così sono nati i miei personaggi. Sono personaggi inermi. Adulti feriti e dolorosi e bambini che stanno imparando come far del male.

Marta, la madre, concentrata sulla sopravvivenza, insegna a suo figlio Junior a sopravvivere, proprio come lei, senza mezzi, senza libertà. Ma Junior è diverso, lui combatte con tutto quello che ha per il suo desiderio: raddrizzare i capelli e vestirsi come cantante per una foto che vuole dare a sua madre. Una foto che lo mostrerebbe come vorrebbe essere visto. Junior sta attraversando una difficile iniziazione alla vita, segnata dallintolleranza di sua madre, che costantemente lo assilla, convinto della sua ambiguità sessuale. Junior non capisce la sua rabbia, però, cerca di mettere lei a proprio agio, anche rinunciando al suo desiderio. Caracas è anche ostile nei loro confronti, una città di urbana, politica e familiare violenza. I sogni incapsulati in edifici multifamiliari – il risultato del progetto di Le Corbusier “Città utopica” negli anni ’50 ora trasformati in inferni verticali enormi.

I miei personaggi vivono circondati da riferimenti che non riescono a includerli. Le pareti sono ormai una tela per rappresentazioni del potere, dichiarazioni ideologiche; un’iconografia che li nutre di politica messianica e concorsi di bellezza. Modelli vuoti
che finiscono per riportarli alla loro disperazione...

Mi interessa parlare di personaggi indifesi, che non hanno le risorse per la sopravvivenza emotiva. Ho iniziato mettendo in discussione l’amore di una madre. È una questione di istinto o è un dovere incondizionato? L’emozione non è dovere. Una volta ho visto qualcuno morire perché sua madre non lo amava: è stato ferito a morte. Fin dall’inizio ho voluto parlare di  questa ferita. La ferita damore causata da intolleranza. Volevo anche parlare di intolleranza in un contesto sociale che è pieno di dogmi, che non abbracciano l’alterità, dove gli affari pubblici si estendono alla vita privata dei suoi abitanti, mettendo in evidenza le differenze, siano esse sociali, politiche o sessuali. Volevo anche esplorare una condizione che sta diventando una costante in quella società: il matriarcato...

Junior è stato concepito con violenza. Egli è un testimone dei giochi di potere tra la madre e la nonna, di cui è la scusa. Una nonna paterna che lo vuole solo per convenienza. Junior sembra essere conquistato da lei, ma il suo desiderio di farsi amare dalla madre prevale.

Pelo malo è la storia intima di iniziazione alla vita di un bambino di nove anni. Un bambino che gioca ancora, ma che gioca con l’orrore quotidiano....

Dal momento in cui Samuel e Samantha, il bambino e la bambina che hanno poi interpretato i due personaggi, si sono incontrati la prima volta, si sono piaciuti. Avevo bisogno di intimità e amicizia tra di loro, qualcosa che è indispensabile per creare personaggi che vivono nel conflitto e nella violenza. Samuel è stato il primo ad un’audizione per il ruolo di Junior. Ha combattuto per tre mesi con molti altri bambini per avere il ruolo. Nel corso del tempo, è diventato più fiducioso ed è cresciuto come attore. Quello che mi ha colpito di più di Samantha, è stata la sua energia. Il mio compito era quello di incanalare quell’energia. Apprezzo il modo in cui lei mi ha dato fiducia ed in cui si è completamente dedicata al lavoro nel  momento in cui l’ho diretta, improvvisando scene su scene senza mostrarle il suo copione. Infatti, nessuno degli attori ha mai visto la sceneggiatura. Abbiamo provato molto prima di girare. Abbiamo creato legami, esperienze condivise. Siamo tornati indietro rispetto ai rapporti, cambiandoli, rendendoli più complessi, fino a quando abbiamo trovato una zona di comfort per gli attori; dove, dopo tanta improvvisazione, hanno trovato le loro piccole verità. E, cosa più importante, ci siamo divertiti molto».

 

 

La critica

 

 

Premiato nel settembre 2013 al Festival di San Sebastián e accompagnato da cori da stadio d’approvazione al Torino Film Festival dello stesso anno, Pelo malo è arrivato nelle nostre sale con svariati mesi di ritardo; roba da cinema d’essai, rigorosamente in lingua originale, platea composta principalmente da professori di latino in pensione e dottorandi in storia del cinema. L’ambientazione giustifica la componente intellettuale dei presenti: nella periferia venezuelana, un bambino lotta per l’affermazione di sé a dispetto degli ostacoli che puntellano il suo cammino fuori e dentro il nucleo familiare, traghettando faticosamente il proprio io dalla fanciullezza all’età adulta. Ed è proprio lì, incastrata fra il lupo mangiafrutta, la strega comanda color e la ricerca di un’identità (individuale, sessuale), che si trova quella fase delicatissima della vita di ciascuno: la temibile, bistrattata adolescenza. Quella di Junior è un campo minato: povero, figlio di una vedova all’apparenza indolente che gli preferisce il fratello in fasce, Junior percorre da solo il terreno accidentato della presa di coscienza, passando dall’osservazione dell’ambiente esterno a quella assai più complessa della propria interiorità. La scena d’apertura è uno strepitoso sfoggio di spunti metaforici: Junior e una compagna di giochi si affacciano sul balcone dei loro dieci anni, osservando incuriositi quel che avviene dirimpetto. Storie di casermoni, di famiglie implose e disfunzionali, di panni stesi, di oggetti abbandonati su pavimenti di piastrelle sbrecciate e cemento grezzo, di grida, di risate, di pattini a rotelle, di baci. Due giovanissimi ancora ignari del futuro osservano la vita che pulsa stipata nei metri quadri di fronte a loro, e lo fanno con gli occhi ingenui di chi ancora non conosce il disincanto ma si culla, sognante, nell’idea che una bella foto possa aggiustare una brutta infanzia. Lo scatto in questione è quello per l’annuario scolastico: Junior vorrebbe apparirvi con i capelli lisci anziché con quella sua chioma crespa e ribelle, il pelo malo di cui racconta il titolo. Tenta di domarla in tutti i modi, sensati e fantasiosi: tirandola con pettini a denti finissimi, inondandola d’acqua e cospargendola di maionese per la gioia di Marta, madre stufa e francamente disorientata di fronte alle intemperanze di un figlio che non riesce a capire né amare. Il percorso narrativo e registico sembra voler procedere a braccetto con lei, la vedova carina cui la vita ha elargito la bellezza dandole, come tragico contrappasso, l’incertezza. Pelo Malo infatti è un film che disorienta, fatto di scarti e deviazioni, di assenze, di cose non dette e di emozioni non sfoggiate. Lungi dall’obbedire alla logica che comanderebbe “ogni riccio un capriccio”, Pelo malo è tutto tranne che un film sulle vuote velleità connaturate a chi ha capelli indomiti, ingarbugliati. È, piuttosto, un saggio sull’essere non convenzionali, diversi e deviati rispetto a una norma fino al punto di venire emarginati persino all’interno del proprio nucleo familiare. Il forte imbarazzo di Marta all’ipotesi dell’omosessualità di Junior non ha connotati sociopolitici, non si cura di aprire il varco a un’ipotetica tirata contro l’omofobia, e in ogni caso: basta forse sognare una messinpiega per meritarsi immediatamente l’etichetta di gay? (...)

Nell’aria assolata, intanto, aleggia insistente una domanda: come può un bambino aggrapparsi a un modello maschile, come può perdersi nel legittimo desiderio di emularlo se quel modello maschile, di fatto, non esiste? Quello di Junior è un padre assente, anzi no, un padre morto: una figura dai contorni evanescenti che di suo ha lasciato al figlio l’unica eredità di una chioma detestabile, da plasmare e correggere perché diventi finalmente tollerabile. (...)

Il finale, drammatico ma asciutto, non dà indizi sul futuro che attende i protagonisti oltre i margini dell’ultima inquadratura; nei titoli di coda, in compenso, Junior indossa l’abito da cantante pop confezionato per lui dalla nonna e scuote i capelli lisci al ritmo di una hit rock’n’roll venezuelana degli anni Settanta, tanto kitsch quanto le rouches sulla sua camicia delle grandi occasioni. Ci piace pensare che, da qualche parte, esista un universo parallelo in cui Mi limon mi limonero sia la colonna sonora di un riscatto infantile, un mondo dove non si debba smettere di giocare e fantasticare nemmeno quando spuntano i primi peli, i primi guai, le prime cotte e i primi figli; essere genitori significa anche essere custodi di quel microcosmo dorato e vitale che, come la giovinezza, non tornerà mai più.

CChiara Santilli, Cineforum, n. 540, dicembre 2014

 

 

 

 

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The imitation Game

 

 

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Morten Tyldum

 

 

 

 

Un film su un personaggio realmente vissuto. Lo scienziato Alan Turing è una delle figure di spicco della matematica del Novecento. È considerato il padre dell’informatica: ha avuto prima l’idea e poi ha realizzato un prototipo di calcolatore, la macchina di Turing.

Durante la seconda guerra mondiale gli fu affidato dall’esercito di Sua Maestà britannica il compito di decrittare il codice Enigma che i nazisti usavano per tutte le loro comunicazioni belliche.

Il gioco imitativo del titolo è quello dietro cui lo scienziato nasconde la propria diversità di omosessuale. Una diversità che la rigida, conformista e ottusa società inglese non accetta. Sarà travolto dal perbenismo...

Durata: 113 minuti.

 

 

Giovedì 11 febbraio

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