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Giovedì 17 marzo 2016 – Scheda n. 22 (970)
L’amore bugiardo
Gone Girl
Regia: David Fincher
Sceneggiatura: Gillian Flynn dal suo romanzo L’amore bugiardo.
Fotografia: Jeff Cronenweth. Montaggio: Kirk Baxter.
Musica: Trent Reznor, Atticus Ross. Scenografia: Donald Graham Burt.
Costumi: Trish Summerville.
Interpreti: Ben Affleck (Nick Dunne), Rosamund Pike (Amy Dunne),
Carrie Coon (Margot Dunne), Kim Dickens (il detective Rhonda Boney),
Patrick Fugit (il detective Jim Gilpin).
Produzione: Pacific Standard, 20th Century Fox Film Corporation.
Distribuzione: 20th Century Fox.
Durata: 145’. Origine: USA, 2014.
David Fincher
Nato a Denver (Colorado) nel 1962 e presto trasferitosi prima in California, poi in Oregon, David Fincher entra alla factory di George Lucas, la Industrial Light & Magic, dove è assistente agli effetti visivi per Il ritorno dello Jedi (1983) e per Indiana Jones e il tempio maledetto (1984), entrambi di Lucas, e per La storia infinita (1984) di Wolfgang Petersen. Poi lascia Lucas e fonda una casa di produzione, la Propaganda Films, con la quale realizza molti videoclip musicali per Madonna, George Michael, Aerosmith, Nine Inch Nails, Rolling Stones... Il debutto sullo schermo arriva con Alien 3 (1992), seguito da Seven (1995) e The Game - Nessuna regola (1997). Grande successo ottiene Fight Club (1999) dal romanzo di Palahniuk. Del 2002 è Panic Room e del 2007 Zodiac, dalla storia vera di un serial killer. Il curioso caso di Benjamin Button (2008) viene dal racconto di Francis Scott Fitzgerald. Nel 2010 gira il notevole The Social Network, incentrato sulla nascita di facebook. Due anni dopo arriva Millennium - Uomini che odiano le donne, dalla saga dello scrittore Stieg Larsson. Fincher è molto richiesto dagli studi hollywoodiani: avrebbe in programma un 20,000 Leagues Under the Sea dal romanzo di Jules Verne; ha realizzato il pilot della serie di successo House of Cards; dopo L’amore bugiardo - Gone Girl sta lavorando a un’altra serie tv, Utopia, e al nuovo film Living On Video.
Sentiamo Fincher su L'amore bugiardo – Gone Girl: «Nel mio film ho utilizzato anche l’umorismo come una specie di marinata in cui immergere le immagini e le interpretazioni. Al cinema le persone ridono quando vedono qualcosa di vero. È questo che nel buio della sala le fa uscire dal guscio. Se poi hai gli attori giusti per portare avanti il dramma e li incoraggi a trovare l’umanità nella storia, allora riesci a infondere la vita nel film...
Penso che il film possa essere apprezzato al meglio a mente sgombra. Agli spettatori piace guardare un film senza sapere che cosa sta per accadere. Vanno al cinema per essere sorpresi...
Scegliere il cast è come scegliere i giocatori di una squadra di pallacanestro in cui Nick, il marito, ha il ruolo di playmaker. È lui che porta avanti la narrazione. Il libro da cui il film è tratto è pieno di dialoghi interiori, che non sono il massimo per un film. Quindi la nostra storia è diventata più soggettiva e questo richiedeva un attore particolarmente dotato per interpretare il ruolo. Si tratta di una sfida a scacchi: l’uomo è risucchiato, a torto o a ragione, nel vortice della pubblica rabbia. Direi che un gran numero di attori cerca frequentemente di evitare questo genere di situazioni pubbliche terrificanti in cui si trova Nick. Ma un attore come Ben Affleck è estremamente brillante e divertente ed è dotato di quell’umorismo complesso grazie al quale Nick impara a gestire la sua immagine pubblica man mano che la storia progredisce, fino a diventare un vero e proprio maestro. Ha capito le sottigliezze ed è riuscito a rapportarsi con l’assurdità della situazione...
Una grossa parte del film è il continuo bilanciamento tra i vari personaggi, man mano che la storia evolve. Perciò, il senso di mistero riguardo ad Amy, la moglie scomparsa, era un aspetto molto importante della storia. Gli spettatori non devono avere alcuna idea di ciò che lei ha in mente, davvero non devi riuscire a cogliere la sua essenza. L’aspetto più importante di cui avevo bisogno per Amy era la sensazione di una persona unica. Avevo bisogno di un’orchidea, di un raro fiore di serra...
Il mondo fisico di L’amore bugiardo – Gone Girl rispecchia lo stato interiore dei personaggi – o forse viceversa – con il ritratto di un’America in recessione che, dietro le facciate rassicuranti, a uno sguardo più attento, mostra le prime crepe nei muri. Il risultato è una sorta di America noir, una visione cupamente ipnotica del sogno americano accantonato. Carthage è una delle tante città americane che, grazie all’arrivo di un’autostrada e alla costruzione di un centro commerciale, sono un tempo state prospere, ma poi all’improvviso le opportunità economiche sono passate oltre senza lasciare nulla. Vedo Carthage come un vecchio abito da sposa polveroso custodito in un armadio. Ha ancora una sua bellezza e attrattiva, ma è rimasto al chiuso e non è più usato da anni».
La critica
Tra i registi della sua generazione David Fincher è probabilmente quello che ha avuto il legame più evidente e più forte con la grande generazione degli anni Settanta, quella dei “movie brats”, i discoli del cinema, ovvero Scorsese, Coppola, Spielberg, De Palma, eccetera. Questo è evidente anzitutto nella sua biografia, nella quale possiamo vedere la sua primigenia esperienza di apprendistato nella Industrial Light & Magic di George Lucas. Fincher non ha neanche vent’anni, la ILM è nel pieno fervore creativo della trilogia di Star Wars, e lì si possono certo imparare trucchi, risorse, possibilità del cinema, presente e futuro. Ma a nostro parere c’è anche un altro tipo di legame con quella generazione che oggi si avvia alla vecchiaia e che per almeno un ventennio ha rappresentato la giovinezza, l’irriverenza, la provocatorietà, l’irresolutezza a stare negli schemi dell’industria. Vedere cioè il cinema come un’esperienza tanto personale e vitale da evitare a tutti i costi la ripetizione, l’allenamento verso la perfezione, e preferendo invece la ricerca costante, la tensione verso l’esaurimento di un mondo, di un immaginario, di una forma. (...)
Anche in L'amore bugiardo – Gone Girl c’è una caccia all’uomo, anzi alla donna, e la ricerca delle origini di un fallimento, quello del matrimonio tra Nick e Amy. Lui è il cacciatore, lei è scomparsa, anzi alcuni la danno anche per probabile morta, d’altronde lui ha sorriso davanti alle telecamere e questo non si fa, perciò il circo mediatico che subito si mette su non si dedica tanto a seguire la indagini quanto a cercare di capire i misteri, le colpe segrete nella vita di Nick Dunne, scrittore fallito, uomo di mezza tacca che invece di andare a cercare lavoro si è ritirato nella oscura cittadina dove è nato e cresciuto. Fioccano le sedute analitiche en plein air, si moltiplicano le piste, ma poi il cacciatore, vero o finto che sia, diventa preda. La faccenda si complica, così anche gli equivoci, i passi a vuoto.
La ricerca di Nick diventa sempre più rischiosa perché potrebbe metterlo di fronte all’impensabile. Ovvero, per un uomo fuggito dal fallimento professionale, alle proprie responsabilità di uomo e marito. E qui si apre un altro discorso che ci impone di parlare di Amy, a cui Fincher ha voluto prestare il volto gracekelliano di Rosamund Pike. La silhouette perfetta, apollinea, l’incarnato settecentesco, gli occhi acquatici, è la donna perfetta, un sogno disegnato in pieno giorno. Sarebbe perfetta come ninfa, immersa nella natura. Ma anche lei è qualcosa di diverso dall’immagine che molti si sono fatti nel corso degli anni. Il suo essere una bellezza diurna inondata dal sole nel biondo dei capelli e nel chiarore della pelle, l’ha resa anche una creatura perfettamente razionale. È lei infatti la stratega di tutto quanto succede dall’inizio alla fine di questo film, nonostante appaia quando questo è già iniziato da un bel pezzo.
Tutti pensano di conoscerla sin dalla sua infanzia, è su di lei che infatti i genitori hanno basato il personaggio che ha venduto centinaia di migliaia di copie, la sua adolescenza è stata messa su una ampolla di vetro e mostrata a tutto il mondo quale modello della perfetta ragazza americana. Dunque lei è sia fisicamente che ontologicamente l’incarnazione della donna perfetta, è tutta protesa verso l’esterno, cerca sempre di piacere a tutti, di farli passare dalla propria parte. Deve essere sempre in ordine, sempre ben vestita, perfetta incarnazione di un ideale a cui gli altri potranno mai sperare di avvicinarsi ma che potranno solo continuare ad ammirare. Amy crede a tutto ciò, nella sua testa ha solo questa perfezione, non è possibile per lei pensare neanche minimamente al fallimento che invece suo marito Nick a un certo punto ha iniziato a coccolare come la cosa più cara che ha. Lei è un modello e i modelli non conoscono deroghe al loro status, non possono diventare succedanei, il calco con cui sono stati creati non appartiene a loro ma a invisibili quanto imperturbabili entità nascoste.
Mentre la macchina del thriller procede spedita, accumulando sempre nuove possibilità di suspense, Fincher continua a mostrarci questo corpo e questo volto perfetto e a farci riflettere su qualcosa di misterioso e indicibile, su una paura, anzi potremmo dire con più precisione su uno spavento che attraversano Amy come impercettibili tentazioni di cedere e diventare una donna come tutte le altre. È uno spavento profondo, proveniente da zone remote, imparentato con quello di Zuckerberg quando si trova davanti una ragazza che vorrebbe conquistare senza averne gli strumenti. Come lui Amy vorrebbe uscire dalla sua condizione asfittica ma non può, l’importante è quello che pensano gli altri non ciò che si è fatto davvero, cioè tradire. Continuare a reiterate il proprio personaggio letterario, è questa in fondo l’unica cosa che è stata in grado di essere e desiderare.
GGiancarlo Mancini, Cineforum, n. 541, gennaio – febbraio 2015
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