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Scheda del film (177 Kb)
Viviane - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 31 marzo 2016 – Scheda n. 24 (972)

 

 

 

 

 

Viviane

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Ronit e Schlomi Elkabetz

 

Fotografia: Jeanne Lapoirie. Montaggio: Kirk Baxter.

 Musica: Trent Reznor, Atticus Ross. Scenografia: Ehud Gutterman.

Costumi: Li Alembik.  

 

Interpreti: Ronit Elkabetz (Viviane), Menashe Noy (Carmel),

Simon Abkarian (Elisha), Sasson Gabai (Shimon),

Eli Gornstein (presidente della corte),

Gabi Amrani (funzionario), Rami Danon  (primo vicepresidente),

Roberto Pollak (secondo vicepresidente), Dalla Begger (Donna),

Albert Illuz (Meir), Avrahram Selektar (Shmuel),

Evelyn Hagoel (Evelyn), Rubi Porat Shoval (Rachel),

Shmil Ben’ari (Yakov), David Ohayon (David),

 Ze’ev Revach (Simo), Keren More (Galia).

 

Produzione: Marie Masmonteil, Sandrine Brauer, Shlomi Elkabetz.

Distribuzione: Parthénos. Durata: 115’.

Origine: Israele, 2014.

 

 

Ronit e Schlomi Elkabetz

 

 

Ronit è la sorella, Schlomi è il fratello. Il film è diretto dai loro quattro occhi. Entrambi sono nati in Israele, a Be’er Sheva, lei nel 1964, lui nel 1972. Ronit è una nota attrice, che si divide tra il cinema del suo paese e il cinema francese.

La famiglia degli Elkabetz è di origini marocchine: «Sono costantemente alla ricerca delle mie radici. Sono nata da genitori immigrati in Marocco. Le mie fondamenta e la mia cultura sono plurali, ma la mia storia è Israele».

Ronit tenta la strada del cinema presentandosi a un provino anche se non ha mai preso lezioni di recitazione, supera l’audizione e ottiene il ruolo principale nel film Hameyu’ad (1990): diventa così una delle più famose attrici israeliane. Nel 1997 decide di mettersi in contatto con la regista francese Ariane Mnouchkine per iniziare la carriera di regista. Continua intanto a fare l’attrice e riceve numerosi premi in tutto il mondo. Il suo esordio nella regia arriva con il film Prendere moglie (2004), girato con il fratello Schlomi. Il secondo film, sempre in coppia con Schlomi, è Shiva – 7 giorni (2008), seguito da questo Viviane, il cui titolo originale è Gett, pronuncia ghett, divorzio.

Sentiamo Ronit e Schlomi: «Il titolo originale del film fa riferimento a un processo.  Esasperata dalla sua vita matrimoniale, Viviane ha abbandonato da diversi anni il domicilio coniugale e vuole avere il divorzio nel rispetto delle regole per non essere messa al bando dalla società. In Israele, ancora oggi non esiste il matrimonio civile e vige soltanto la legge religiosa che sancisce che solo il marito può concedere la separazione. Tuttavia Viviane vuole poter contare sul sistema giudiziario, sulla legge, per ottenere il riconoscimento di quello che ritiene essere un suo diritto. Ma suo marito Elisha rifiuta testardamente il divorzio e Viviane si ostina a volerlo...

Quando una donna pronuncia il sì sotto il baldacchino nuziale, viene subito considerata come potenzialmente privata del gett, del diritto di divorziare, poiché solo il marito ha la  facoltà di scegliere. La legge attribuisce un potere esorbitante al coniuge. I rabbini sostengono di fare tutto il possibile per aiutare le donne, ma di fatto, nel corso delle udienze a porte chiuse dei procedimenti giudiziari, la realtà è ben diversa, poiché è sacro dovere dei rabbini fare di tutto per preservare un nucleo familiare ebraico e sono dunque reticenti a privilegiare il desiderio del singolo di sciogliere il matrimonio rispetto al dovere religioso...

Il nostro film si svolge ai giorni nostri. Poiché questa legge non è mai stata emendata, il punto non è sapere quando ma quanto tempo durerà la procedura. Il tempo prezioso che perdono le donne che rivendicano il proprio diritto al divorzio non ha la minima importanza agli occhi dei mariti, dei rabbini e della legge. Questo tempo perduto ha valore solo per la donna che supplica di poter tornare a vivere. Poiché fino a quando non si separa formalmente, una donna che vive al di fuori del domicilio coniugale non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli che dovesse avere  fuori dal matrimonio avrebbero lo statuto di mamzer che equivale a quello di bastardo, senza alcuna protezione o riconoscimento giuridico. Inoltre, questa legge le preclude ogni tipo di vita sociale, perché verrebbe sospettata di avere una relazione con un uomo e questo le impedirebbe per sempre di ottenere l’atto di divorzio se il marito dovesse persistere nel suo rifiuto. Una donna in attesa di divorzio è condannata a vivere in una sorta di prigione...

In questo film, Viviane si confronta con lo Stato attraverso l’applicazione della legge. Per la nostra messa in scena, era necessario riprodurre lo spazio narrativo nel quale si sviluppa la storia, ovvero l’aula delle udienze del tribunale rabbinico, catturando la moltitudine di convinzioni che vi si esprimono e le emozioni che circolano che vanno ben oltre quel solo e unico ambiente. Volevamo anche che i nostri personaggi fossero come nudi di fronte alla legge: sono davanti a un muro bianco, privi di qualunque artificio. Dunque, è un film sulla parola: buona o cattiva fede, stratagemmi, deposizioni, arringhe. A ciascuno la sua verità...

Il leitmotiv che ha ispirato il personaggio di Viviane è la sua determinazione, la sua serenità mentale, il suo silenzio, il silenzio di una persona che si è preparata con serietà e che ha riflettuto a lungo prima di buttarsi in quella fossa dei leoni. È anche una donna capace di impetuosi accessi, ma sa che la minima esplosione da parte sua rischia di indebolire la sua posizione davanti all’uomo...

A parer nostro, la forza del cinema risiede nello sguardo. In un’inquadratura, la prima cosa che attira il nostro sguardo sono gli occhi di un attore o di un’attrice. Poi cerchiamo quello che quell’attore sta guardando e dissezioniamo la sua anima attraverso il suo sguardo. Grazie agli sguardi, un film esiste al di là dei dialoghi...

Viviane indossa abiti di colore scuro in quasi tutto il film e questo mette in risalto la scena in cui è vestita di rosso. Una scena in cui si scioglierà i capelli! Nell’ebraismo, la voce e la capigliatura della donna sono considerate l’arma di seduzione più scandalosa. Per questo una donna non ha diritto di cantare e le donne sposate sono costrette a coprirsi il capo con un foulard o una parrucca (dopo essersi rasate il cranio, nelle usanze più ortodosse). In quella scena, Viviane è sfinita, forse anche disperata. Fino a quel momento, la sua causa non è andata avanti di un passo. Inconsapevolmente si mette un abito rosso, un rosso che tradisce il suo bisogno di rottura e la sua grande stanchezza. Il momento in cui si scioglie i capelli è quasi un riflesso del suo inconscio. Come se si lasciasse andare. Sciogliersi i capelli davanti a dei rabbini è un atto di estrema sfrontatezza. Nell’ebraismo, la capigliatura della donna è addirittura paragonata al suo sesso».

 

 

La critica

 

 

C’è una sola informazione da sapere prima di lasciarsi andare alla visione di Viviane: in Israele non esiste il matrimonio civile, c’è solo quello religioso, e quindi il divorzio (che esiste) può essere ratificato solo da un tribunale rabbinico, che ha bisogno però del pieno consenso del marito. Fatta questa premessa si è pronti per entrare nell’aula di tribunale dove Viviane e Elisha Amsalem stanno discutendo del loro divorzio: o meglio dove Viviane chiede un divorzio che il marito non sembra intenzionato a concedere. Gli antefatti e le ragioni dei due contendenti li scopriremo scena dopo scena, anzi rinvio dopo rinvio, perché la cosa chiara da subito è che il marito non vuole concedere il divorzio alla moglie, che pure vive ormai fuori casa, dalla sorella, da tre anni. (...)

Costruito con ammirevole economia di mezzi, tutto all’interno dell’angusta aula di tribunale con poche scene nell’adiacente sala d’attesa, ritmato dalle scritte in sovrimpressione che scandiscono il passare del tempo («sei mesi più tardi», «tre mesi più tardi», , «due settimane più tardi»... per arrivare a una conclusione, dopo 115 minuti di proiezione, ci vorranno cinque anni di rinvii), sceneggiato e diretto da Ronit Elkabetz (che interpreta anche la dolente Viviane) insieme al fratello Shlomi, il film è uno dei più forti e commoventi ritratti di tenacia femminile che il cinema abbia offerto negli ultimi anni. E non a caso la critica francese Dominique Martinez ha paragonato alcuni dolenti primi piani della protagonista a quelli di Renée Falconetti nella Giovanna d'Arco di Dreyer.

Qui non c’è il rischio di una condanna al rogo, come per la Pulzella d’Orléans, ma è pur sempre di una vita che si parla, quella di una donna che ha trovato la forza di ribellarsi a un marito ossessionato dall’ortodossia religiosa e incapace di dimostrare l’affetto che una moglie ha bisogno di sentire. Il tema prende concretezza scena dopo scena, rinvio dopo rinvio, affidato ora a una risposta piccata dell’«egregio rabbino» che presiede il giudizio («lei deve stare al suo posto, donna!»), ora a una testimonianza ottenuta non senza difficoltà da una vicina succube del marito. A confrontarsi sulla scena sono due idee della dignità umana: quella che rivendica la donna alla ricerca di una vita che non sia fatta solo di dovere e di sottomissione, e quella che difende l’uomo, disposto a vivere con una donna che non lo ama pur di non ammettere il suo fallimento (e tacitare la sua gelosia). Due idee che l’ortodossia religiosa non sembra prendere in considerazione, come si capisce dal comportamento fazioso del terzo incomodo del film, l’«egregio rabbino» che guida il tribunale.

Se lo spettatore finisce per schierarsi con la donna, la messa in scena cerca invece di tenere i due coniugi sullo stesso piano, o comunque di spiegare con equanimità i punti di vista opposti, affidati ora alle parole dei rispettivi legali ora ai silenzi dei due protagonisti. Concedendosi solo qualche significativa scelta di regia, come quelle delle scarpe di Viviane, eleganti e femminili durante il processo, dimesse e «penitenziali» nell’ultima, silenziosa inquadratura. Il perché di questa scelta, lo lasciamo scoprire allo spettatore.

PPaolo Mereghetti, Corriere della Sera, 26 novembre 2014

 

 

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Opera prima di un regista che – scommettiamo? - si farà.

All’inizio, Lou campa rubando nei cantieri edili e rivendendo il bottino. Ha la faccia di Jake Gyllenhaal, occhi bovini, faccia tosta da ladro e da sbruffone. Poi la smette con i furti, si inventa un nuovo mestiere e ne va fiero: filma delitti, incidenti stradali, li riprende con la telecamera e rivende il filmato a una stazione televisiva scandalistica. Farà carriera.

Bel film di genere, di quelli che sanno essere proprio di genere e sanno metterci dentro pensieri sul nostro mondo.

Durata:  117 minuti.

 

 

Giovedì 7 aprile

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