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Giovedì 14 aprile 2016 – Scheda n. 26 (974)
Whiplash
Regia e sceneggiatura: Damien Chazelle
Fotografia: Sharone Meir. Montaggio: Tom Cross.
Musica: Justin Hurwitz. Scenografia: Melanie Jones. Costumi: Lisa Norcia.
Interpreti: Miles Teller (Andrew Neimann), J.K. Simmons (Terence Fletcher),
Paul Reiser (Jim Neimann), Melissa Benoist (Nicole),
Austin Stowell (Ryan), Nate Lang (Carl Tanner), Chris Mulkey (lo zio Frank),
Suanne Spoke (la zia Emma), Kofi Siriboe (il bassista), Tarik Lowe (il pianista),
Tyler Kimball, Calvin C. Winbush (i saxofonisti),
Rogelio Douglas jr., Adrian Burks (i trombettisti).
Produzione: Bloomhouse Productions, Right of Way Films.
Distribuzione: Warner Bros. Durata: 107’. Origine: USA, 2014.
Damien Chazelle
Nato a Providence, nel Kentucky, nel 1985, Damien Chazelle studia ad Harvard e scrive e dirige il suo primo film, Guy and Madeline on a Park Bench, come prova di diploma, nel 2009. Il film vince numerosi premi e viene inserito nelle liste dei migliori film dell’anno da importanti giornali e riviste, come il New York Times, il Village Voice, il Chicago Tribune, il Boston Globe, Time Out New York e Film Comment. Nel 2012, Chazelle dirige un corto sulla base di una parte della sceneggiatura che ha scritto per Whiplash. Il corto viene notato e premiato al Sundance Film Festival dove Chazelle trova i finanziatori che gli permettono di girare il film intero che diventa un successo mondiale. Chazelle ha in programma di girare ben tre progetti. Il primo è ispirato alla vita dell’astronauta Neil Armstrong. Il secondo è un film di genere, precisamente un thriller paranoico. Il terzo che si dovrebbe chiamare La La Land, è un film d’amore con un’aspirante attrice e un pianista jazz che si incontrano a Los Angeles e che hanno difficoltà a tenere insieme la loro storia di vita con la loro carriera.
Sentiamo il regista: «Ci sono molti film sulla gioia che la musica ci dà. Ma siccome sono stato un giovane batterista di un’orchestra jazz in un conservatorio, posso dire che io più che gioia sentivo paura. La paura di sbagliare una misura, di perdere il tempo. E soprattutto sentivo la paura del mio direttore d’orchestra. Con Whiplash volevo realizzare un film che somigliasse a un film di guerra o di gangster. Un film dove gli strumenti musicali sostituissero le armi da fuoco e dove l’azione su svolgesse non su un campo di battaglia ma in una sala per le prove o su un palcoscenico per concerti...
Sono sempre stato molto intrigato dalla figura del giovane Charlie Parker. Se si fosse chiesto ai suoi coetanei di allora chi, tra i giovani aspiranti musicisti di Kansas City, sarebbe diventato il miglior musicista della sua generazione, nessuno avrebbe scommesso su di lui. Per quelli più vecchi di lui era soltanto un giovanotto appassionato e moderatamente dotato di talento. Eppure qualcosa è successo alla fine della sua adolescenza visto che, a 19 anni, suonava meravigliosamente, come nessuno prima di lui. Cos’era successo? La storia dice che una sera Charlie ha partecipato a una gara, una specie di confronto tra il musicista e l’orchestra, al Reno Club e lui ha completamente mancato il suo assolo. Il batterista gli ha lanciato uno dei suoi piatti verso la sua testa e il pubblico l’ha sonoramente fischiato. Lui si è piegato in due piangendo e mormorando tra sé: «Ritornerò qui e vi mostrerò cosa so fare». Ha lavorato come un pazzo per un anno e, quando è ripassato da Reno, ha stupito tutti.
Al liceo passavo ore e ore, chiuso in un sotterraneo insonorizzato, a esercitarmi con la batteria fino a che le mani mi sanguinavano. E sognavo di avere anch’io una metamorfosi come Charlie Parker. Mi spingeva un appassionato delle mie parti, un uomo fuori del comune che era riuscito, un decennio prima, ad arrivare alla propria metamorfosi: aveva preso un piccolo gruppo di jazzisti di una scuola pubblica del New Yersey e l’aveva fatto diventare il miglior gruppo del posto secondo la rivista Down Beat, un gruppo che suonò per due cerimonie di proclamazione dei presidenti degli Stati Uniti e anche a una serata di apertura del festival jazz di New York. Per anni ho consacrato la mia vita alla batteria e, per la prima volta, nel mio animo la musica fu associata non alle idee di divertimento o di realizzazione personale ma alla paura. Se ci ripenso mi chiedo come sia successo. La mia carriera di batterista è stata coronata da successi e premi, ma io ricordo perfettamente gli incubi, le nausee, i pasti saltati, le crisi d’angoscia, tutto questo per un tipo di musica, il jazz, che, in superficie, simboleggia la gioia e la libertà.
A quell’epoca quello che più contava era la relazione con il mio professore. È questo rapporto così faticoso e teso che ho voluto illustrare in Whiplash. Se il dovere di un professore è di spingere un allievo verso l’eccellenza, qual è il momento in cui si superano i confini? Charlie Parker ha avuto bisogno di farsi fischiare e cacciare per diventare Bird? Come si fa a trasformare qualcuno in un essere eccezionale? Per render conto delle emozioni che sentivo durante quei miei anni da batterista, volevo filmare ogni scena come se fosse questione di vita o di morte, un inseguimento o diciamo pure una rapina in banca. Volevo catturare tutti i dettagli di cui mi ricordavo, tutti gli sforzi per arrivare a interpretare in modo perfetto un pezzo musicale. I tappi nelle orecchie, le fiacche, i tagli, il tictac del metronomo, il sudore, la fatica. Al tempo stesso, speravo di riuscire a mostrare i fugaci momenti di bellezza che offre la musica e che il cinema può rappresentare in un modo commovente. Quando si ascolta un assolo di Charlie Parker si è in uno stato di beatitudine. Ma tutta la sofferenza che lui ha dovuto sopportare per arrivare a quella perfezione valeva la pena perché noi potessimo poi fruire dei frutti di quegli sforzi qualche decennio più tardi? Non ho una risposta ma è una domanda che merita di essere posta perché essa va ben al di là della musica e delle arti e riguarda un concetto molto semplice ma fondamentale nella cultura americana: l’eccellenza a ogni costo».
La critica
Damien Chazelle l’ultima volta in cui ha visto J.K. Simmons, l’insegnante tirannico del suo film, prima di scritturarlo, deve aver avuto l’intuizione che mancava: ha letto il pentagramma di rughe sul suo viso, e ha capito che per far sì che l’attore desse il suo meglio serviva un pretesto. Quel pretesto è la musica, anzi, meglio: quel pretesto è il jazz. Sciogliamo fin d’ora ogni dubbio: Whiplash non è un film sul jazz. Certo, la trama ruota intorno a quello: il diciannovenne Andrew aspira a diventare il miglior batterista jazz dell’universo, e sul suo percorso di crescita incontra l’inflessibile direttore Terence Fletcher, padre putativo e padrone del suo destino di jazzista. C’è del jazz dunque, ce n’è molto, pure troppo per me che non sono una fine cultrice in materia e non perdo troppo tempo a farmene una colpa.
Whiplash, piuttosto, è un trattato sulla disciplina, un pamphlet contro l’accidia, un saggio illustrato sul rapporto studente-insegnante, un inno alla gloria degli sgobboni e insieme un lamento sul loro sacrificio con tanto di finale aperto, incurante di svelare del tutto se quel sacrificio sia, in ultimissima istanza, vano oppure sensato. Innanzitutto, la disciplina: Whiplash avrebbe potuto tranquillamente essere un film sulla pallavolo, o sulla scherma, o su qualunque altra attività richieda una fatica costante e una motivazione ferrea, entrambe illuminate dalla luce ultraterrena di un maestro. Per la narrativa della formazione dell’eroe, infatti, non basta un eroe da formare ma occorre ancor di più un formatore di eroi: un Pai Mei di Kill Bill, un Daisaku Daimon di Mila e Shiro – Due cuori nella pallavolo. Il mentore intravede il genio sotto la scorza dei brufoli, dell’adolescenza, del sudore acre e degli sbalzi ormonali, convogliando tutte le energie della gioventù nell’unico punto focale possibile: la dedizione cieca, folle, a una causa.
C’è una scena cruciale, a questo proposito; lì dentro, in quel serrato campo/controcampo, è racchiuso tutto il senso di centosette minuti di pellicola. In un jazz bar, il giovane eroe e il vecchio insegnante si fronteggiano seduti davanti a un drink; fra imbarazzi, finte e schivate, i due intavolano un’apparente trattativa di pace che sfocerà prestissimo in una guerra ideologica, crudeltà contro compassione, ossa rotte e ferite aperte contro cerotti e pacche sulle spalle. Chi la spunterà? Dov’è che lo spronare sconfina nello spingere giù da un dirupo? E ancora: al di là delle responsabilità educative degli insegnanti buoni e di quelli cattivi, ha senso scegliere di immolare la propria vita, immolare se stessi, l’amore, le consuetudini della socialità sull’altare dell’eccellenza, della carriera, della perfezione, dell’arrivare a vedere riconosciuto il proprio genio? Ma poi: si può diventare geni? Genio ci si è o ci si fa? Charlie Parker sarebbe diventato Charlie Bird Parker se avesse ceduto al piagnisteo e all’autocommiserazione dopo l’abuso fisico da parte di Jo Jones, che praticamente attentò alla sua vita lanciandogli un piatto alla giugulare durante una prova? Un anno più tardi, Parker si ripresentò dal suo aguzzino e suonò il miglior assolo della storia, incoronando se stesso re del sassofono. Quindi, in sostanza Bird era già Bird anche senza insegnanti crudeli; Andrew è già un fuoriclasse, è già il migliore, l’abnegazione è il suo mestiere. Su un terreno già così emotivamente fertile, i maltrattamenti sono stati senza dubbio la miccia che ha acceso il fuoco d’artificio del genio, facendolo uscire allo scoperto davanti a un pubblico che il finale non ci racconta. Saranno rimasti a bocca spalancata davanti all’impetuosa, straordinaria performance conclusiva a base di sangue, sudore e tamburi?
CChiara Santilli, Cineforum, n. 542, marzo 2015
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