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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 22 dicembre 2016 – Scheda n. 10 (985)

 

 

 

 

 

L’infinita fabbrica del Duomo

 

 

 

Regia e montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti.

 

Testi adattati da:Milano in Mano” di Guido Lopez e Silvestro Severgnini;

“Storia della veneranda fabbrica” di Carlo Ferrari da Passano.

Fotografia: Massimo D’Anolfi. Musica: Massimo Mariani.

 

Produzione: Montmorency Film, Rai Cinema. Distribuzione: Lab80 Film.

Durata: 74’. Origine: Italia, 2015.

 

 

Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

 

 

Una coppia di registi, uomo donna, che si dedicano a film non di fiction, ma a film documentari e a film di riflessione. Il loro ultimo lavoro, Spira mirabilis, è stato presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2016. Massimo D’Anolfi è nato a Pescara nel 1974. Martina Parenti è milanese, nata nel 1972. D’Anolfi ha cominciato scrivendo la sceneggiatura di Angela per la regista Roberta Torre, film presentato a Cannes nel 2002. Poi ha realizzato i documentari Si torna a casa. Appunti per un film (2003), selezionato al Festival di Torino, e Play (2004), presentato al Festival di Firenze. Martina Parenti ha lavorato per il cinema e la tv come documentarista. Tra i suoi lavori in pellicola: Restart (1999), Animol (2003) L’estate di una fontanella (2006). Tra i suoi programmi per la tv: L’apprendista stregone (2002), La scienza dei supereroi (2004) e School in Action (2005). Ha realizzato un episodio del film documentario collettivo Che cosa manca. Nel 2007 hanno cominciato a lavorare insieme per I promessi sposi, presentato al Festival di Locarno, premiato al Festival dei Popoli di Firenze e a Filmmaker a Milano. Del 2009 è Grandi speranze. Del 2011 è Il castello, sull’aeroporto di Malpensa, passato in tantissimi festival internazionali e premiato a Toronto, a Seoul, a Los Angeles, al Torino Film Festival. Nel 2013 Materia Oscura, sulla zona militare di Quirra in Sardegna, viene presentato a Berlino. Poi ci sono L’infinita fabbrica del Duomo e Spira Mirabilis.

Sentiamo i registi: «Da tempo pensavamo a un film sul Duomo. Questo è il primo capitolo di un lavoro sui quattro elementi e sull’idea di immortalità, un progetto che abbiamo chiamato Spira Mirabilis e in cui L’infinita fabbrica del Duomo rappresenta la terra. Abbiamo voluto rappresentare la tensione verso l’infinito, inteso come immortalità. Il Duomo incarna una forma di architettura che forse oggi non esiste più: è stato progettato quando i monumenti si facevano perché durassero per sempre. È la terra perché è fatto di pietra, quella che viene estratta nella cava, e guardando le immagini si ha proprio la sensazione che l’edificio nella sua interezza venga tirato fuori da lì. Quella cava, tra l’altro, è nata perché fosse costruito il Duomo: tutta la pietra utilizzata nel tempo per la cattedrale è arrivata soltanto da lì e tutta la pietra che la cava produce è stata usata sempre e soltanto per il Duomo. Le prime immagini sono dedicate ad un vecchissimo albero, un olmo. Perché? Mentre lavoravamo il film è diventato il racconto del rapporto tra il molto piccolo e il molto grande, tra il passato e il tempo dell’eterno. L’albero è una grande opera architettonica naturale, sta a metà tra il tempo breve delle nostre vite e il tempo lungo della natura. Metterlo all’inizio è un modo per avvicinarsi immediatamente al tempo grande, quello della storia di cui in quanto umani non potremo mai fare parte. Del resto il Duomo è una costruzione che va avanti da secoli, viene continuamente rifatta e richiede manutenzione continua. Le persone che vi lavorano sanno che non vedranno mai il risultato finale. Il nostro è un film sul tempo. All’enormità eterna del Duomo si contrappone il lavoro costante dietro le quinte di un esercito di piccoli uomini: marmisti, muratori, carpentieri, fabbri, restauratori, orafi di cui non si hanno i nomi. Il film è un omaggio al lavoro di questi uomini senza volto».

 

 

La critica

 

 

Il tempo non finisce, la storia non finisce. La storia è l’attività, il prodotto e il rigenerarsi infinito di desideri, imprese, fallimenti e riprese che di secolo in secolo, di minuto in minuto si rinnovano; a testimoniare sul pianeta questo eterno passaggio dell’essere umano, fragile ed effimero nella sua mortalità, non restano altro che gli oggetti, ciò che l’uomo riesce a produrre tramite la trasformazione dei contributi offerti dalla natura, ovvero tramite il lavoro. (…)

L’idea del film nasce dalla volontà di riflettere intorno alla titanica e appassionante costruzione del Duomo di Milano, avviata nel 1386 per iniziativa di Gian Galeazzo Visconti e proseguita per ben sei secoli fino alla metà del Novecento. Ma in realtà l’estremo fascino di tale impresa umana, ciò che più intimamente risponde alla riflessione dei due autori, risiede nella sostanziale infinitezza della cattedrale milanese, che in senso lato può estendersi a tutte le costruzioni sacre più antiche, periodicamente sottoposte a restauri e modifiche che possano garantire loro la più lunga sopravvivenza e conservazione. Nel caso del Duomo di Milano tale congenita ed eterna “incompiutezza” è ulteriormente enfatizzata non soltanto dal dispiegarsi della sua costruzione su più secoli, ma anche dalla costituzione, fin dal 1387, della Veneranda Fabbrica del Duomo, istituzione cittadina che fin da allora si è occupata degli interventi di restauro, del reperimento fondi e dell’amministrazione della cattedrale. In pratica, parallelamente al lento mutarsi della cattedrale si è svolta per sei secoli e mezzo la storia del lavoro dell’uomo finalizzato al completamento e alla preservazione dell’immensa opera architettonica. (...)

Come sempre D’Anolfi e Parenti si affidano a un’interpretazione del linguaggio documentario decisamente personale, sulla scorta di un rigoroso rifiuto dell’intervento della voce umana. Di nuovo è l’inanimato a parlare, catturato in immagini minimali e solenni al contempo, affidate per buona parte a long take (inquadrature lunghe) dedicate alla materia muta che tra le mani di restauratori recupera se stessa e al contempo si trasforma. I due autori non si soffermano soltanto sull’attività manuale, ma anche sulla meticolosa macchina burocratica condotta parallelamente dalla Veneranda Fabbrica nei suoi archivi; conservare un’opera d’arte significa anche mettere in atto tutta una serie di attività lavorative tra preziose carte antiche e scartoffie, da conservare e selezionare. Un’intera macchina di lavoro, insomma, documentata però dagli autori con primaria attenzione all’oggetto, alla materia manipolata da esseri umani di cui non solo non sentiamo praticamente mai la voce, ma raramente vediamo pure i corpi interi (per lo più vediamo mani in azione). Più di tutto D’Anolfi e Parenti intendono dare evidenza alla trasformazione della natura tramite l’intervento umano. Dalle colossali fette di marmo staccate dalla cava di Candoglia fino alle operazioni di chiusura del Duomo al tramonto, L’infinita fabbrica del Duomo registra un quieto e sommesso agire che trasforma la materia in funzione di un preciso scopo, infinitesimo nell’immediato e gigantesco nell’ottica dei secoli: la conservazione e prosecuzione della storia. Uno sguardo eminentemente laico e ossequioso su un enorme oggetto sacro che è prima di ogni altra cosa testimonianza delle mani (e della mente) dell’essere umano. In senso ancor più universale, D’Anolfi e Parenti rintracciano anche in tale nobile occasione quel congenito rapporto di violenza tra uomo e natura che già innervava alcune delle loro opere precedenti; le prime sequenze dedicate all’estrazione del marmo nella cava di Candoglia assumono i tratti di un aggressivo atto di espropriazione (le crepe che lentamente si allungano sulle pareti, il fragore della caduta dei massi, l’attesa del distacco sospeso nel silenzio…). Quando perpetrata per riprovevoli interessi (gli esperimenti missilistici di Materia oscura con relative ricadute ambientali e sanitarie…), quando invece per nobili scopi come in questo caso, la violenza appare dunque a sua volta un assoluto universale nell’attività dell’uomo nei confronti della realtà muta che lo circonda. Un passaggio tragico e “necessario”, da cui non si può prescindere nemmeno nel più alto degli intenti. Secondo tale linea di ragionamento, l’approccio universalizzante di D’Anolfi e Parenti dà estremo rilievo al continuo mutare (anche reversibile) tra informe e forma, in cui un’idealizzata innocenza primigenia è dispersa in infinite e successive “lezioni” di ripristino e conservazione. Ma la vera innocenza, irrimediabilmente violentata, è già perduta nel momento in cui il blocco di marmo si stacca dalla parete della cava. Ne sono prova anche le testimonianze storiche riportate in didascalia, in cui si dà rilevanza agli intrecci tra sacro e potere, tra interessi spirituali e temporali che hanno costellato i sei secoli di storia della cattedrale (i Visconti, Napoleone che accelera i lavori anche per un proprio tornaconto…). (…)

Prima del teatro, prima del cinema, lo spettacolo della meraviglia e dell’ardimento umano risiede nella mostrazione di enormi realizzazioni architettoniche, a cui partecipare per darsi lustro in una proto-società dell’immagine – i notabili di città di secoli fa si proponevano alla meraviglia pubblica con la cazzuola in mano per testimoniare il loro contributo attivo nella costruzione della cattedrale, magari per un quarto d’ora (di celebrità, Andy Warhol). (…)

Nell’insieme si tratta comunque di un approccio al cinema documentario assolutamente meritevole di apprezzamento e sostegno. Per intelligenza espressiva e addirittura “drammaturgica”, rigore espressivo, profondità di sguardo, capacità di leggere l’uomo tramite infinitesime/gigantesche tracce del suo passaggio e inscriverlo in una vera riflessione filosofica. Enormemente piccolo. Enormemente grande. Mortale. Immortale.

MMassimiliano Schiavoni, quinlan,it, 8 ottobre 2015

 

 

 

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Non essere cattivo

 

di Claudio Calegari

 

 

Il regista Claudio Calegari, nato ad Arona nel 1948, è morto a Roma nel maggio del 2015.

Di questo suo terzo e ultimo film, dopo Amore tossico e L’odore della notte, ha detto: «È una storia degli anni ’90. Quando finisce il mondo pasoliniano». La realizzazione finale del film è avvenuta grazie a Valerio Mastandrea, amico del regista e attore protagonista in L’odore della notte. Il film è stato presentato, dopo la morte del regista, alla Mostra di Venezia.

Ostia, 1995. Vittorio e Cesare vivono di piccole attività illegali, spacciano, fuggono dai problemi della vita, affogano nei problemi di tutti i giorni, cercano di lavorare, di salvarsi...

Durata: 100’.

 

 

 

Giovedì 12 gennaio, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

 

 

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