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Scheda del film (183 Kb)
Love and Mercy - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 12 gennaio 2017 – Scheda n. 11 (986)

 

 

 

 

Non essere cattivo

 

 

 

Regia: Claudio Caligari

 

Sceneggiatura: Claudio Caligari, Giordano Meacci, Francesca Serafini.

Fotografia: Maurizio Calvesi.

Musica: Paolo Vivaldi, Alessandro Sartini, Cristiano Balducci.

Montaggio: Mauro Bonanni.

 

Interpreti: Luca Marinelli (Cesare), Alessandro Borghi (Vittorio),

Silvia D’Amico (Vivana), Roberta Mattei (Linda),

Alessandro Bernardini (Brutto), Valentino Campitelli (Grasso),

Danilo Cappanelli (Lungo), Manuel Rulli (Corto).

 

Produzione: Kimerafilm, RAI Cinema, Taodue Film. Distribuzione: Good Films.

Durata: 100’. Origine: Italia, 2015.

 

 

Claudio Caligari

 

 

Nato ad Arona nel 1948, Claudio Caligari è morto a Roma nel maggio del 2015.

«La passione per il cinema nasce dall’appartenenza alle classi subalterne in un periodo in cui il cinema era ancora lo spettacolo popolare per eccellenza. Da bambino mi capitava di andare a vedere insieme a mio padre film come Prima linea, L’uomo senza paura o Roma città aperta in televisione. Poi a 20 anni sono stato rapito dalla Nouvelle vague e dal clima politico di subbuglio che sentivo aleggiare. Il cinema di quel periodo era un cinema contro ed allora mi sono detto “ma perché non posso farlo anch’io?”. Così, e siamo a metà degli anni ’70, anni in cui tutto sembrava si potesse mettere in discussione, ho preso mezzi leggeri ed ho iniziato a girare cose davvero underground, ma pieno di animo ed entusiasmo.»

Caligari comincia come documentarista. Perché droga è il suo primo lavoro, del 1976. Poi vengono Alice e gli altri (1977), Lotte nel Belice, La macchina da presa senza uomo, La follia della rivoluzione e La parte bassa (1978). Nel 1983 esce il  primo lungo, Amore tossico, sull’arrivo dell’eroina nelle borgate pasoliniane. Passano molti anni e molti progetti non vedono la luce. Caligari lavora a molte sceneggiature, La ballata degli angeli assassini, Dio non c’è alla Sanità e Suicide special. «Perdi due, tre anni su un’idea, non ci riesci a farla, prendi un’altra idea, ci stai due, tre anni, non riesci a realizzare nemmeno questa, e così via, ed è così che passano quindici anni». Finalmente, nel 1998, esce L’odore della notte che narra le vicende di una banda di rapinatori romani, protagonista Valerio Mastandrea. Altri anni di attese e di tentativi. Solo nel febbraio del 2015 Caligari inizia a Ostia le riprese di Non essere cattivo. È Valerio Mastandrea a mettersi in gioco come produttore delegato per garantire il ritorno sul set di Caligari. Malato da tempo, il 26 maggio 2015, a 67 anni, Caligari muore appena terminato il montaggio del film.

Così l’ha ricordato Mastandrea: «“Muoio come uno stronzo. E ho fatto solo due film”. Se n’è uscito così, ad un semaforo rosso di viale dell’Oceano Atlantico circa un anno fa. Stavamo andando insieme a parlare con un amico oncologo in ospedale. La risposta ce l’avevo pronta ma l’ho lasciato godere di questa sua epica attitudine alle frasi epiche che accompagneranno per sempre tutti quelli che lo hanno conosciuto. Ho aspettato il verde in un altrettanto epico silenzio (erano molti anni che era stato operato alle corde vocali). Ripartendo ho detto “c’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te”. Il suono leggero della sua risata soffocata mi ha suggerito il suo darmi ragione, confermato dall’annuire ripetuto della sua testa grande. Di gente stronza Claudio se ne intendeva, ne ha conosciuta tanta, e tanta ne ha liquidata con quel metro di giudizio. Stronzo è una parola che detta da lui aveva un altro significato. Più potente. Più profondo. Il nord ‘di lago’ da cui proveniva deve avergli dato una dimensione molto particolare nello scegliere le parole e nella forza con cui scagliarle. E le parole che gli mancavano da parecchio tempo è sempre riuscito a fartele sentire anche se arrivavano scariche di suono. La grandezza di un uomo così viene anche da questo. Dal poter fare a meno delle armi convenzionali che servono per vivere la vita e dal continuare a battagliare con ogni mezzo mosso solo dalla voglia di esserci e di fare della propria vita una vita. Il suo lavoro ne è l’esempio unico, assoluto. Non ha mai smesso di fare film, Claudio. Ne ha girati tre ma ne ha scritti, fatti e visti almeno il triplo. Questo deve accadere ad un regista che vede sfumare i propri progetti per motivi enormi o a causa di persone piccolissime. Pensare, scrivere, vedere, riscrivere, ripensare, vedere ancora fino alla morte del progetto e, nonostante questo, continuare a vederlo finito, il proprio film. Così ha fatto anche lui. Noi che abbiamo avuto il privilegio di lavorarci, questo lo sappiamo bene. Ogni film non fatto da Claudio, Claudio lo ha fatto eccome. Come ha fatto il suo terzo e ultimo. Con l’amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva. Con la dolcezza di chi riconosce la magia del cinema e delle persone che lo fanno. Con la stronza intelligenza di chi urlava il diritto al cinema da conoscere e da poter fare. Con un winchester immaginario sotto l’impermeabile a ricordare che Ford e Sam Peckinpah erano lì con lui anche se stavamo all’idroscalo di Fiumicino anzi, soprattutto per quello. Era pieno di roba e di gente, Claudio».

 

 

La critica

 

 

Un film sul terrore del vuoto: questo è, tra le altre cose, Non essere cattivo, l’ultima (anche nell’accezione definitiva del termine, purtroppo), bellissima opera di Claudio Caligari. La puntigliosa disamina dell’horror vacui, il terrore del vuoto da cui sono affetti due tossici di Ostia che, nel 1995, ormai abbandonata l’eroina di Amore tossico – di cui Non essere cattivo è il sequel ideale, aggiornato alle nuove dipendenze, ai nuovi consumi, ai nuovi modi di crepare, tanto che, non a caso, proprio come la pellicola del 1983 si apre con una discussione sull’acquisto di un gelato che distoglie per un attimo i protagonisti dal loro obiettivo principale: trovare la roba – si fanno di coca e pasticche perché non saprebbero cosa fare altrimenti, incapaci anche solo di immaginare un loro posto (uno qualsiasi) nel mondo, un’ipotesi (seppure sfocata, astratta) di collocazione sociale. Terrore del vuoto che Caligari pare volere esorcizzare con una messa in scena da cui lo stesso vuoto è cancellato, dove i protagonisti sono in campo dall’inizio alla fine, e in cui il silenzio è bandito da conversazioni ininterrotte e da esplosioni di musica capace di azzerare i pensieri. Perché la paura del vuoto si allarga a comprendere quella di pensare, di prendere consapevolezza di sé, come accade per un breve attimo a Vittorio, che si guarda allo specchio e sputa sulla propria immagine riflessa; ma a far paura è anche lo spaesamento provato davanti a un orizzonte visivo spalancato sull’ignoto (Cesare che scruta il mare abbozzando un confuso pensiero di fuga, bruscamente richiamato alla realtà da un amico che gli dice di non guardarlo, quel mare, ché gli porta brutti pensieri); paura, in definitiva, è quella del buio (“È morta col buio, non doveva morire col buio” dice la madre di Cesare a proposito della piccola nipote malata di AIDS, come se quella circostanza temporale rendesse ancora più irrimediabilmente tragica la scomparsa della bambina). Antidoto al vuoto che minaccia i suoi protagonisti è, così, lo stesso Caligari, con la sua commovente, straziante vitalità, riversata in dialoghi memorabili (“io e te semo due extraterestri”, “sì, ma nun è che avemo sbajato pianeta?”), plasmata nelle forme di un iperrealismo che investe ogni aspetto della pellicola, da quello linguistico (con un uso esacerbato e quasi espressionistico del romanesco) a quello del décor (le case di Ostia con i loro miseri arredi anni Settanta, le cucine dalle piastrelle bianche e i grafismi optical, le ante in formica bicolore, le tovaglie di cerata...), vitalità, infine, sublimata nella capacità (davvero con pochi eguali nel cinema italiano) di creare memorabili figure di reietti e raccontarle con raro equilibrio, né idealizzandole (la “sensualità delle vite disperate” non abita in questi paraggi), né demonizzandole, ma solo rispettandone l’unicità (anche se, in un umanissimo slancio d’affetto, l’autore regala al suo Cesare una morte quasi da eroe noir, mostrando, dietro il suo corpo ormai senza vita, un manifesto con palme nere su sfondo rosso). Post-pasoliniano, si è detto, ma anche post-cittiano (la scena dell’allucinazione di Vittorio, che si rifiuta di avanzare con la macchina perché crede di vedere davanti a sé una manciata di personaggi circensi, fra cui una sirena, fermi davanti alla sua vettura, possiede l’umorismo disincantato e surreale tipico del regista de Il Minestrone), recitato in maniera straordinaria da Luca Marinelli e Alessandro Borghi (…).

Il lavoro non necessariamente nobilita l’uomo e, ancor meno necessariamente, ne determina la felicità. Lo dimostra il destino di Vittorio, prima sbeffeggiato dai suoi amici per aver trovato un posto da manovale (“puzzi de lavoro” gli rimprovera Cesare) e quindi umiliato da quella famiglia messa in piedi a fatica e che gli rimprovera di non portare a casa soldi a sufficienza. E così, davanti al crollo di questo infimo sogno piccolo-borghese, viene in mente ancora una volta Pasolini, quello che ne “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” scriveva: «Sono usciti dal ventre delle loro madri / a ritrovarsi in marciapiedi o in prati / preistorici, e iscritti in un’anagrafe / che da ogni storia li vuole ignorati... / Il loro desiderio di ricchezza / è, così, banditesco, aristocratico. / Simile al mio. Ognuno pensa a sé, / a vincere l’angosciosa scommessa, a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re...».

AAndrea Pirruccio, cineforum.it, 12 settembre 2015

 

 

 

 

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di Pablo Larraín

 

 

Un film di grande potenza.

Il cileno Pablo Larraín è uno dei massimi registi mondiali di questi anni. Dopo Il clan ha già diretto Neruda, visto a Cannes 2016, e Jackie, presentato a Venezia pochi mesi dopo: un regista sempre affaccendato e sempre su livelli ottimi.

Nel Clan c’è una casa sul mare. Inizio molto misterioso: chi sono quel gruppo di uomini e quella donna che vive lì con loro e pian piano abbiamo il sospetto che stia lì per sorvegliarli? Allenano un levriero per le corse: sono sportivi in ritiro? Improbabile. E allora chi sono? C’è molto da sapere e da scoprire. C’è, appena sotto la superficie, un baratro...

Per lo spettatore meglio vedere il film senza sapere nulla e scoprire il tutto mercoledì prossimo.

Film potentissimo. Ah: astenersi anime candide, linguaggio e situazioni forti, molto forti, troppo forti...

Durata: 97’.

 

 

Mercoledì 18 gennaio, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

 

 

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