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Giovedì 26 ottobre 2017 – Scheda n. 13 (988)
Il figlio di Saul
Titolo originale: Saul fia
Regia: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer. Fotografia: Mátyás Erdély.
Musica: László Melis. Montaggio: Matthieu Taponier.
Interpreti: Géza Röhrig (Saul Ausländer), Levente Molnár (Ábrahám),
Urs Rechn (Oberkapo Biederman), Todd Charmont (uomo con la barba),
Marcin Czarnik (Feigenbaum), Sándor Zsótér (dottore),
Jerzy Walczak (rabbino del Sonderkommando), Uwe Lauer (SS Voss),
Christian Harting (SS Busch).
Produzione: Laokoon Filmgroup. Distribuzione: Teodora.
Durata: 107’. Origine: Ungheria, 2015.
László Nemes
Nato a Budapest nel 1977, l’ungherese László Nemes è una voce nuova del cinema europeo. Figlio del regista András Jeles, va a Parigi, studia storia e sceneggiatura. Fa l’assistente alla regia e sceglie il regista giusto, il grande Béla Tarr (Satantango, Il cavallo di Torino...), comincia a dirigere dei corti che hanno successo nei festival, With a Little Patience (2007), presentato a Venezia, The Counterpart (2008) e The Gentleman Takes His Leave (2010). A New York studia regia, torna in Francia, scrive la sceneggiatura di Il figlio di Saul, gira il film che è il suo esordio nel lungo, è in concorso a Cannes, vince il Gran Premio della Giuria, ha una trionfale accoglienza di pubblico e critica, arriva il premio Oscar come miglior film straniero. E Nemes diventa un giovane regista da cui tutti si attendono altri grandi film.
Sentiamolo: «Ero in Corsica, sul set di L’uomo di Londra di Béla Tarr. Le riprese erano state interrotte per una settimana, in libreria ho trovato un volume pubblicato dal Mémorial de la Shoah con il titolo Des voix sous la cendre [in Italia La voce dei sommersi, edito da Marsilio], con gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della rivolta del 1944, queste pagine clandestine vennero nascoste sotto terra e ritrovate molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria, che descrive i compiti dei Sonderkommando, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. Da questo libro è venuta l’idea de Il figlio di Saul.
I Sonderkommando erano gruppi di prigionieri scelti dalle SS per accompagnare gli altri alle camere a gas. Quindi rimuovevano i cadaveri, ripulivano e bruciavano i corpi. Tutto era eseguito a gran velocità: Auschwitz-Birkenau funzionava come una fabbrica di morte a ritmi industriali con migliaia di morti sterminati ogni giorno. Ai membri dei Sonderkommando spettava un trattamento relativamente preferenziale: potevano tenere il cibo trovato nei treni e avevano un minimo di libertà di movimento dentro un perimetro stabilito. Ma il loro lavoro era estenuante e in ogni caso venivano regolarmente eliminati ogni 3 o 4 mesi dalle SS per fare in modo che nessun testimone dello sterminio rimanesse in vita...
Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento. Provano a costruire storie di sopravvivenza e eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Le SS usavano la parola Stück, pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei dannati dei campi di concentramento...
Un aspetto molto problematico del film è stato quello di raccontare una storia di finzione partendo dal contesto di questa testimonianza. Volevo trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il più possibile semplice e arcaica. Ho scelto il punto di vista di un uomo, Saul Ausländer, un ebreo ungherese membro di un Sonderkommando, e mi sono attenuto strettamente a questa posizione: mostrare quello che vede, niente di più e niente di meno. Non si tratta però di una soggettiva pura, poiché sullo schermo noi vediamo Saul come personaggio e quest’uomo è il punto di partenza di una storia unica, ossessiva e primitiva: crede di aver riconosciuto il figlio tra le vittime delle camere a gas...
Seguendo i movimenti di Saul, ci fermiamo davanti alla porta della camera a gas, per entrarvi solo a sterminio avvenuto per la rimozione dei corpi. Le immagini mancanti sono quelle della morte dei prigionieri; immagini che non possono essere ricostruite, né dovrebbero essere toccate o manipolate in nessun modo. Assumere il punto di vista di Saul vuol dire mostrare solo ciò a cui presta attenzione. Lavora ai forni crematori da quattro mesi e, come riflesso istintivo per proteggersi, sembra non fare più caso all’orrore in cui è immerso. Per questo motivo tale orrore rimane sullo sfondo o indistinto o fuori campo. Saul vede solo quello che gli occorre per la sua ricerca: questo dà al film il suo ritmo visivo...
Nel film si svolge un tentativo di rivolta dei prigionieri che ebbe luogo a Auschwitz nel 1944, l’unica rivolta armata della storia del campo. Anche il tentativo di scattare delle foto è realmente accaduto: grazie a una macchina fotografica fatta arrivare ai Sonderkommando di Birkenau dalla resistenza polacca, 4 foto furono realizzate per testimoniare al mondo esterno quello che succedeva nei campi. Ho potuto vederle alla mostra del 2001 Mémoire des camps e mi hanno colpito profondamente. Saul sceglie invece una forma diversa di rivolta, che può sembrare irrilevante fuori da quel contesto. Quando sembra che non ci sia più speranza, la voce interiore del protagonista lo incita a sopravvivere per compiere un atto che ha un significato, un significato umano, sacro, ancestrale che lo pone all’origine della civiltà umana e di qualsiasi religione: portare rispetto per il corpo di un morto...
Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci saremmo attenuti a una serie di regole: “il film non deve essere visivamente bello e accattivante”; “non possiamo fare un film dell’orrore”; “seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo”; “la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno”...
Anche parte della mia famiglia è stata sterminata a Auschwitz. È qualcosa di cui parlavamo ogni giorno. Quando ero piccolo avevo l’impressione che il Male fosse stato compiuto e lo immaginavo come un buco nero scavato dentro di noi; qualcosa si era spezzato e la mia incapacità di afferrare esattamente cosa fosse mi isolava. Non l’ho capito per molti anni. Poi è arrivato il momento di riconnettermi con questa parte della storia della mia famiglia».
La critica
«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro – diceva Adorno nel 1949 – e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». Lo stesso filosofo tedesco tornò più volte, ritrattandola spesso, su questa celebre affermazione. Eppure la frase è passata alla storia. Perché affronta di petto il problema della rappresentabilità dell’orrore e perché riassume un interrogativo ontologico che ognuno di noi, più o meno consapevolmente, si porta dentro. Quale senso ha qualsiasi altra cosa – l’arte diceva Adorno, ma anche tutto ciò che non sia già stato ucciso, distrutto, eliminato – di fronte alla scelleratezza dei campi? (…)
Il figlio di Saul affronta consapevolmente e con grande lucidità i concetti filosofici e i pensieri che hanno a che fare con il problema della rappresentazione ed è, anzi, proprio da questi interrogativi che prende le mosse. László Nemes costruisce un’opera che prima di tutto, attraverso scelte estetiche radicali e per certi versi estreme, si pone come una riflessione sui concetti di rappresentazione e percezione. (…)
Nemes – che gira in 35mm e in formato classico 1.33:1 – incollato per tutto il film alla nuca e al volto del proprio protagonista, si getta in una sfida difficilissima. Sa che la materia che maneggia è incandescente e per questo decide dare il risalto maggiore all’aspetto estetico. Filma l’interno di Auschwitz nell’unico modo possibile. Lasciando cioè che lo sfondo, ciò che sta dietro ogni inquadratura rimanga confuso in una permanente sfocatura. Per tutto il film vediamo a fuoco solo il protagonista e le persone con cui egli viene a contatto, mentre tutto ciò che sta dietro ha la consistenza di un altrove sfumato e incorporeo. L’annullamento della profondità di campo fa sì che ogni elemento che costruisce spazialmente il campo di sterminio sia qualcosa che non solo non si può vedere, ma nemmeno toccare e capire. Perché non lo si può comprendere, ridurre alla ragione e all’esperienza. L’immagine è in grado di esistere anche nel più profondo dei buchi in cui è affondata la storia contemporanea anche se, non per questo, ha la pretesa di fornire delle risposte. È un’immagine che è traccia ma non per forza significato, è memoria ma non necessariamente testimone. Nelle sfocature risiedono il senso stesso della sua parzialità e, nel medesimo istante, la forza vitale, epifanica della propria essenza.
Al rigore estetico e al formalismo che Nemes impiega per curare la propria regia, fa eco un rigore narrativo che, proprio come lo stile, è curato nei minimi dettagli. Auschwitz è l’inferno sulla terra e Saul, che è la nostra guida, attraversa i gironi di questo inferno mostrandocene la sofferenza, il degrado e la miseria ma cercando di rintracciarvi un sintomo, un segnale, un indizio che sia il testimone di una salvezza possibile, di una via d’uscita da tutto quell’orrore. Saul sa che seppellire un corpo significa salvarlo. E salvarne uno significa salvarli tutti quei corpi. Salvarli dalla dannazione, dall’umiliazione e dall’oblio cui la “soluzione finale” li ha destinati. Per questo prende parte al tentativo di far uscire dal campo alcune fotografie, scattate clandestinamente, con l’intenzione di rendere prova al mondo di quello che stava succedendo ad Auschwitz e in tutti gli altri lager nazisti. (...)
LLorenzo Rossi, cineforum.it, 21 gennaio 2016
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