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Rams. Storia di fue fratelli e otto pecore - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 27 aprile 2017 – Scheda n. 26 (1001)

 

 

 


Rams

 

Storia di due fratelli e otto pecore

 

 

 

 

Titolo originale: Hrútar

 

Regia e sceneggiatura: Grímur Hákonarson

 

Fotografia: Sturla Brandth Grøvlen. Musica: Atli Örvarsson.

Montaggio: Kristján Loðmfjörð.

 

Interpreti: Sigurður Sigurjónsson (Gummi), Theódór Júlíusson (Kiddi),

Charlotte Bøving (Katrin), Jon Benonysson (Runólfur),

Gunnar Jónsson (Grímur), Þorleifur Einarsson (Sindri),

Sveinn Ólafur Gunnarsson (Bjarni), Ingrid Jónsdóttir (Eygló),

Jörundur Ragnarsson (Villi), Viktor Már Bjarnason (Finnur).

 

Produzione: Netop Films. Distribuzione: BIM.

Durata: 93’. Origine: Islanda, 2015.

 

 

Grímur Hákonarson

 

 

Nato nel 1977 in Islanda, Grímur Hákonarson ha studiato cinema alla famosa scuola di Praga, la FAMU, da cui sono usciti a partire dagli anni Sessanta molti dei registi più importanti sia del cinema cecoslovacco come di altre nazioni. Si è diplomato nel 2004 e il suo film di diploma, Slavek The Shit, ha cominciato a girare il mondo vincendo premi ovunque, anche a Cannes, nella sezione dei giovani registi. Un altro suo corto, Wrestling, presentato a Locarno, ha vinto 25 premi nei festival mondiali.  Questo Rams ha ricevuto il premio della sezione Un Certain Regard del festival di Cannes nel 2015.

Ecco alcune dichiarazioni del regista: «Il film è basato in buona parte sulle mie esperienze con la popolazione e la cultura rurali in Islanda. Entrambi i miei genitori sono cresciuti in campagna e mi spedivano in luoghi sperduti tutte le estati, a lavorare, finché non ho compiuto 17 anni. Per questo credo di avere maturato una certa conoscenza delle storie, dei personaggi e della fisionomia di quelle zone. Sono sempre stato attratto dalle storie di campagna e Rams non è il primo film che giro in quel contesto. Mio padre lavorava per il Ministero dell’agricoltura e questo mi ha aiutato a capire come funzionava l’amministrazione delle zone agricole e com’è cambiata e si è evoluta nel tempo. Una delle cose più difficili che mio padre si trovava ad affrontare era decidere quali capi dovessero essere abbattuti – o no – quando scoppiava un’epidemia. In un certo senso, per molti islandesi le pecore restano sacre: rappresentano l’orgoglio e la tradizione nazionale. L’Islanda è stata costruita sulla pesca e sull’allevamento, e nella valle di Bardardalur – dove abbiamo girato il nostro film – l’allevamento di ovini è ancora l’occupazione principale. Ma al di là dell’allevamento, c’è qualcosa di speciale nelle pecore. Quasi tutti gli allevatori che conosco hanno un rapporto più stretto col loro gregge che con qualsiasi altro animale domestico. Perfino gli allevatori che gestiscono una fattoria mista – allevando mucche, pecore e cavalli –  hanno un occhio di riguardo per le pecore. Le mucche possono dare di che vivere, ma l’hobby principale e la grande passione degli allevatori sono le loro pecore. Gente che vive sola col suo gregge, in mezzo alla natura, e sviluppa un forte legame emotivo coi suoi animali. È diventata una cosa sempre più rara nella società moderna: gli individui come i miei due protagonisti – Gummi e Kiddi – stanno scomparendo e io credo che sia un peccato. Mi piacciono le cose eccentriche, e vorrei che il loro stile di vita continuasse a esistere, anche nel mondo moderno...

La “scrapie” ovina (della stessa famiglia della BSE, la cosiddetta “mucca pazza”) è la malattia più dannosa che le campagne islandesi abbiamo mai dovuto affrontare. È un virus incurabile che attacca il cervello e la spina dorsale delle pecore, ed è altamente contagioso. Originariamente, la malattia è arrivata in Islanda alla fine dell’Ottocento, portata da greggi inglesi, e non è stata del tutto debellata. Conosco allevatori che hanno sofferto a causa di questo virus, e so quanto sia traumatico dover abbattere i propri animali. Il virus ha contagiato il gregge di mia nipote ed è stato un grosso shock emotivo, per lei e per suo marito. Ho vissuto da vicino il trauma psicologico che hanno subito, benché avessero dei figli e allevassero anche mucche e cavalli. Quindi non erano tra quelli che rischiavano di perdere tutto. Nel film, la vicenda prende le mosse da un’epidemia di “scrapie” che colpisce la valle in cui si trova la fattoria dei protagonisti. I due fratelli scoprono di avere un interesse e un obiettivo comuni: la sopravvivenza del loro gregge di pecore appartenenti a un’antichissima razza ovina. Sono due esseri umani che cercano di salvare dalla distruzione la cosa che gli è più cara. Per loro è il bestiame, ma potrebbe essere qualsiasi altra cosa. In questo senso, credo che sia una storia di carattere universale...

Per certi versi, Rams Storia di due fratelli e otto pecore è un film molto scandinavo, col suo mix di dramma e umorismo nero. Confesso che io stesso tendo all’umorismo nero, cosa che traspare anche dai miei film. Credo che Rams possa essere paragonato a certe pellicole nordiche recenti, come Storie di cucina – Kitchen Stories di Bent Hamer [visto al cineforum] e Noi Albinoi di Dagur Kári, per fare un paio di esempi...

Abbiamo avuto sette giorni di “prove pecore”, in cui abbiamo provato solo scene con le pecore. Alcuni dei ricordi più belli della lavorazione del film sono proprio quelli dei provini che abbiamo fatto alle pecore. Il carattere delle pecore varia molto a seconda della fattoria in cui sono cresciute. In una delle fattorie, le pecore non erano affatto docili e scappavano appena cercavamo di avvicinarci. Alla fine siamo capitati nella fattoria Halldórsstaðir, dove Begga, l’allevatrice, tratta le sue pecore con amore e affetto. Gli arieti sono venuti subito da noi, spingendoci col muso come se volessero una grattatina dietro le orecchie. Lavorare con quelle pecore è stato ancora più facile che con gli attori. Se mai decidessero di assegnare un premio agli animali nel cinema, sono certo che le nostre pecore sarebbero le prime ad essere candidate e che tornerebbero a casa con qualche statuetta».

 

 

La critica

 

 

Secondo il sito del Film Centre islandese (www.icelandicfilms.info) l’isola natia di Bjork ha sfornato otto film nel 2015 e la produzione annuale non supera, da parecchio tempo, la decina. Pochissimi arrivano qui da noi a Sud; si ricorda qualche anno fa il pregevole Noi Albinoi premiato al festival di Torino. Otto-nove film all’anno non sono nemmeno pochi per un paese con poco più di 300.000 abitanti, meno di Bologna o Firenze: si tratta di titoli che godono, probabilmente, di una distribuzione ‘scandinava’ e che magari riescono ad avventurarsi in Germania o in Gran Bretagna. Fa quindi sensazione che Rams, il titolo che ci piace segnalarvi oggi, sia sbarcato al festival di Cannes e abbia vinto il primo premio della sezione Un certain regard, la più importante dopo il concorso. Sull’onda di quel riconoscimento è stato invitato a decine di festival in tutto il mondo e candidato all’Oscar: è talmente strano, e al tempo stesso universale, che potrebbe anche vincerlo! Rams significa ‘montoni’ e forse la Bim poteva intitolarlo così, visto che il titolo originale islandese Hrútar vuol dire la stessa cosa. Il sottotitolo spiega come stanno le cose: è la storia, effettivamente, di otto pecore di razza pregiata e di due fratelli di razza testarda. Per la maggior parte del film Gummi e Kiddi, i due uomini, si prendono (anche non metaforicamente) a cornate come due montoni infuriati: sono fratelli, sono in là con gli anni ma hanno la zucca dura di due bambini litigiosi; abitano in case contigue ma non si rivolgono mai la parola e comunicano solo consegnando dei messaggi scritti al cane, l’unico essere che li sopporta e continua ad amarli entrambi. Fanno anche lo stesso mestiere, come tutti nella valle in cui vivono: la pastorizia. La routine di questo angolo di Islanda, assai remoto in un paese già remoto di suo, è scandita dalle stagioni, dalle competizioni per il montone più bello, dal taglio della lana, dalla nascita degli agnelli. Finché un giorno arriva la “scrapie”. Ci siamo documentati: la “scrapie” si pronuncia “screpi”, viene dal verbo inglese “to scrape” (grattare) ed è una malattia incurabile delle pecore, una sorta di corrispettivo ovino del morbo della mucca pazza. Quando un gregge ne viene colpito, l’unico rimedio – chiamiamolo così – è abbattere tutti i capi, seppellire i cadaveri, bruciare il fieno e tutto ciò che hanno toccato, bonificare le stalle e aspettare due anni prima di ricominciare con bestie nuove importate alla bisogna. Una catastrofe, per l’economia e lo stile di vita della comunità islandese raccontata dal film e naturalmente per Gummi e Kiddi. Il secondo, già bislacco di suo, perde letteralmente la testa. Il primo concepisce invece un piano diabolico: risparmia sette femmine e un maschio che sembrano ancora sani e li nasconde nella cantina della fattoria, trasformata in stalla di fortuna. Il fratello, ben presto, se ne accorge. Ma purtroppo l’esistenza del minigregge viene scoperta anche dai veterinari, che arrivano armati fino ai denti per completare la mattanza. Solo che nel frattempo Gummi e Kiddi si sono dati alla fuga sui monti, sperando di sottrarre gli animali alla ferocia umana...

In certi passaggi Rams è quasi comico, di quella comicità un po’ gelida tipica del cinema scandinavo, pensate a Kaurismaki. Ma avanzando verso il finale metaforico (i due fratelli si riavvicinano, e in un modo clamoroso che ovviamente non vi sveleremo) si rivela un apologo pieno di temi immensi. In primis è un film sul rapporto fra uomini e animali, sull’amore che può nascere e sulla violenza spesso gratuita che può dividere. A un secondo livello è una riflessione sulla sostenibilità, sul rapporto con la natura, sul cibo e sulle forme di consumo alle quali l’umanità si è abituata (andava proiettato all’Expo!). In più è una fiaba sulla solitudine del maschio adulto, su due uomini senza donne che si sono voluti bene, si odiano e torneranno forse a capirsi. Tutto questo in 90 minuti con molti belati e pochissimi dialoghi. Una visione insolita, da non perdere.

AAlberto Crespi. L’Unità, 12 novembre 2015

 

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Il cielo può attendere

 

di Ernst Lubitsch

 

 

La stagione del cineforum si conclude con un capolavoro, restaurato e riportato all’iniziale splendore.

Ernst Lubitsch è uno dei “più massimi”, dei “massimissimi” registi di tutta la storia del cinema. Ha diretto una serie ammirevole di commedie, prima in Germania, poi in America.

Il cielo può attendere è uno degli ultimi film di Lubitsch e racconta la storia di un distinto signore che una volta morto discende all’inferno e comincia a raccontare la sua vita al diavolo, soprattutto i suoi rapporti con le donne.

Film sublime, amorevole, pieno di humour. Alla fine si vorrebbe ricominciare a vederlo.

Durata: 112’.

 

 

 

 

 

Giovedì 4 maggio, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

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