CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 30 novembre 2006 – scheda n. 7 (710)
Non bussare alla mia porta
Titolo originale: Don’t Come Knocking
Regia: Wim Wenders
Sceneggiatura: Sam Shepard. Fotografia: Franz Lustig.
Montaggio: Oli Weiss, Peter Przygodda. Musica: T-Bone Burnett. Scenografia: Nathan Amondson.
Interpreti: Sam Shepard (Howard Spence), Jessica Lange (Doreen), Tim Roth (Sutter),
Gabriel Mann (Earl), Sarah Polley (Sky), Fairuza Balk (Amber),
Eva Marie Saint (la madre di Howard).
Produzione: Reverse Angle International. Distribuzione: Mikado.
Durata: 122’. Origine: Usa, Germania, 2005.
Il regista
Wim Wenders è regista che i soci del Cineforum conoscono bene. Molti suoi film sono entrati nei nostri programmi. Anche lo scorso anno abbiamo presentato un suo lavoro, La terra dell’abbondanza. Adesso tocca a Non bussare alla mia porta, presentato al Festival di Cannes del 2005. Wenders è nato nel 1945 a Düsseldorf. A sei anni gli regalano una cinepresa. Si appassiona al rock. Va a Parigi e scopre il cinema. Studia all’HIDEC, la scuola di cinema di Parigi, fa il critico. Gira Summer in the City (1970), incontra lo scrittore Peter Handke e fanno La paura del portiere prima del calcio di rigore (1971). Gira la famosa “trilogia della strada”, con Alice nelle città (1973), Falso movimento (1974) e Nel corso del tempo (1975). Dopo L’amico americano (1977), va in America per Nick’s Movie (1980, film sugli ultimi mesi di vita del regista Nicholas Ray) e per Hammett (1983). In una pausa di Hammett gira in Portogallo Lo stato delle cose, Leone d’oro a Venezia nel 1982. Vengono Paris, Texas (1984, Palma d’oro a Cannes), Tokyo-ga (1985) e Il cielo sopra Berlino. Comincia una fase discendente, con Fino alla fine del mondo (1991), Così lontano così vicino (1993), Lisbon Story (1995), Crimini invisibili (1997). Si riprende con Buena Vista Social Club (1998) e The Blues, l’anima di un uomo (2003). Poi La terra dell’abbondanza e Non bussare alla mia porta.
La critica
Salutato a Cannes come battistrada di un neo-fiIone sulla “ricerca del figlio” (assieme a Broken Flowers di Jarmusch), il nuovo film di Wenders è un po’ il bigino di tanti suoi precedenti. Ne riassume tutti i temi ossessivi: l’America sognata; la paternità irrealizzabile; il mito dell’impossibile ritorno al passato. Sam Shepard, che ha scritto sceneggiatura e dialoghi, interpreta Howard Spence, un attore sessantenne specializzato in parti di cowboy solitario che per tutta la vita ha fatto il dongiovanni. Quando, durante una visita alla madre (Eva Marie Saint, imperdibile), apprende di avere generato un rampollo, lascia il set e parte per il Montana dove conobbe la cameriera bionda Jessica Lange, mentre l’assicuratore Tim Roth cerca di recuperarlo, per mandare avanti il film. Giunto a destinazione dopo un viaggio pittoresco per i deserti americani, Howard si ritrova papà non solo di un figliolone con amichetta schizzata al seguito; ma anche, verosimilmente, di una ragazza (Sarah PoIley) di cui non ha mai sentito parlare e che lo segue, tenendo tra le braccia l’urna con le ceneri della madre. La fanciulla è la protagonista di una seconda storia, un sottotesto molto ellittico che rappresenta anche la parte più debole del film. Non bussare alla mia porta è un Wenders di buona qualità, con un inedito pizzico di sense of humour che la maturità ha fatto affiorare nel serioso regista tedesco.
Roberto Nepoti, la Repubblica, 30 settembre 2005
«Perché far passare tanto tempo?», chiede una ragazza bionda ed esile a un uomo maturo, dal volto segnato. «Perché non sapevo che stava passando», risponde lui, seduto su un divano in mezzo a una strada, circondato dai detriti degli oggetti, i mobili, gli strumenti che suo figlio ha buttato dalla finestra per liberarsi di tutto, di un faticoso passato senza padre e di un futuro che la ricomparsa improvvisa dell’uomo rende, se è possibile, ancora più doloroso. Quasi piangendo, la racconta, il giovane Earl al vecchio Howard, tutta la fatica che ha fatto a crescere senza di lui, il senso di vuoto e di vertigine; finché «un giorno tutto è finito, sparito, e io non voglio ricominciare a cadere». Nessuno vuole, e soprattutto nessuno può, ricominciare a cadere perché una mattina, dopo l’ennesima notte brava con un paio di ragazze e litri di alcol, Howard Spence, divo western dalle molte intemperanze, con i suoi speroni d’argento e la sua camicia ricamata, è fuggito al galoppo dal set deciso a ripercorrere i propri passi perduti, a ritrovare le occasioni e la vita che non ha avuto, una madre nel Nevada, una donna nel Montana, un figlio ormai trentenne, in cerca di qualcuno che, come gli dice Doreen, lo salvi dalla verità. Ce ne ha messo del tempo, e le donne e i figli della sua vita sono andati avanti da soli. Perciò, Don’t come knocking. Non bussare alla mia porta. E, dopo una scenata per strada che è un raro pezzo di bravura e un bacio irato e appassionato sulla bocca, Doreen gli volta le spalle e se ne va. Storia bellissima di una generazione che è invecchiata senza figli (quella di Wenders e del suo co-sceneggiatore e protagonista Sam Shepard) e che addirittura si è scoperta vecchia all’improvviso, intrecciata con quella dei figli cresciuti senza padri, di fragilità e assenze che si rispecchiano le une nelle altre, di tempi sfalsati, egoismi, rimpianti, tenerezze impossibili, Non bussare alla mia porta è anche un film sul mito, sul cinema che amavamo e che non è più (quello dove l’eroe esce trionfante dall’inquadratura impennando il suo cavallo), sull’America che amavamo e che forse sta ancora nascosta tra le highway e i deserti, tra le stazioni di servizio e le sale d’attesa del Greyhound, sbalzata nelle figurine surreali che si incontrano sulla strada, chiusa in un bar dove un ragazzo canta rabbioso. Road movie definitivo e affettuoso, ventun’anni dopo il tormentato Paris, Texas, è un rendiconto del casino che abbiamo fatto della nostra vita e un omaggio alla bravura dei nostri “non-figli” a sopravvivere nonostante noi.
Emanuela Martini, Film Tv, 4 ottobre 2005
Wim ha ritrovato Wenders. Il cinefilo tedesco con gli occhiali da intellettuale e il ricciolo imbianchito e scomposto (ma ora porta anche il sigaro hollywoodiano), cresciuto col cielo plumbeo sopra Berlino è tornato con Non bussare alla mia porta nel sole del West caro a John Ford: ma non più la troppo turistica Monument Valley, meglio le rocce deserte dello Utah. «È sempre la terra mitica - dice - scoperta da cinema e musica, un mondo ideale e universale in cui mi sono sempre sentito a casa. Ora però credo di non aver niente da aggiungere sull’America, il prossimo film lo giro in Europa, a casa». È stato un festival grandi firme, questo di Cannes. […] Per l’11esima volta arriva Wenders con l’ultimo cowboy, l’abbronzato attore sceneggiatore, batterista, drammaturgo, pittore, scrittore Sam Shepard: «Non l’amico, ma il fratello americano, l’uomo più diretto e onesto che conosca», si lancia Wim. In suo onore, e con l’aiuto di una pillola, Sam è venuto nel circo di Cannes vincendo la paura per l’aereo «pari a quella di aver recitato con mia moglie Jessica Lange». Shepard è un tipo rude, ha vissuto in camper, odia la folla, anche quella di New York, sta scrivendo a macchina (odia il computer) un diario degli ultimi cinque anni di vita americana, è pessimista in politica, vede nero. Recitare è una vacanza? «No, stanca ma mi piacerebbe sembrare Spencer Tracy o Gary Cooper. Smitizziamo i cow boys: erano contadini per nulla romantici, attaccati alla terra e gran lavoratori. La tradizione di questa cultura indipendente è ancora radicata nel Nevada, Texas, New Mexico. Io sono nato con i western e nel West, mi ricordo i rodei e le parate a cavallo». Con questo film, il più bello, fluido e appassionato dell’ultimo Wenders, scritto in comune dai due amici, si torna alle corde della sua chitarra (T-Bone Burnett), al clima on the road di Paris, Texas, alla malinconia di un cinema che non ha più bisogno di eroi, come Kirk Douglas in Solo sotto le stelle. Era previsto anche un ruolo, poi tagliato, per Bob Dylan, sarà per la prossima. […] La morale è che il mondo peggiora, dice il magnifico Tim Roth, nel film l’assicuratore che insegue l’assicurato. Lieto fine? Forse, può darsi, ma solo privato. Dopo l’immagine dell’America terrorizzata di La terra dell’abbondanza, Wim richiama in primo piano i sentimenti, con un gran personaggio e un paesaggio che ti entra nel cuore al galoppo: «Un film sulla paternità mancata che io sento molto, non potendo avere figli, e sulle occasioni perdute, sul rimpianto di aver incontrato l’amore troppo tardi». Star, un attore western al tramonto che scappa dal set e, con 25 anni di ritardo, gira per il West fino a Butte, che sembra dipinta da Hopper, cercando il figlio sconosciuto. […] Sam, da buon yankee, con un viaggio solo ne scopre due. «E nel copione - dice - erano molto di più». Basta con la politica? «Non so - risponde Wenders - certo non vorrei come padri quei politici che hanno un padre ex presidente... Penso che la famiglia in crisi sia un amore insostituibile e il mondo oggi ne senta la mancanza: così molti parlano della disintegrazione degli affetti». Erano anni che Wim sognava di fare un film con Sam, entrambi evitano la filosofia spicciola: «C’è un uomo che sta fuori dalla propria vita e vuole rientrarci». Le donne vincono ai punti la partita, compresa la madre Eve Marie Saint, la splendida, oggi 81enne, di Fronte del porto e Intrigo internazionale: «Crediamo sia la verità, le signore sono solide, hanno i piedi per terra più di noi».
Alberto Crespi, l’Unità, 21 maggio 2005
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