CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 7 dicembre 2006 – scheda n. 8 (711)
L’incubo di Darwin
Titolo originale: Darwin’s Nightmare
Regia, sceneggiatura, fotografia, voce: Hubert Sauper
Montaggio: Denise Vindevogel.
Sonoro: Cosmas Antoniadis, Veronika Hlawatsch, Andreas Schneider.
Collaborazione artistica: Nick Flynn, Sandor Rieder.
Produzione: Mauriat, Svoboda, Gschlacht, Albert, Toint, Sauper. Distribuzione: Mikado.
Durata: 107’. Origine: Tanzania, Francia, Austria, Belgio, 2004.
Il regista
Presentato a Venezia nel 2004 (ma è uscito nelle sale italiane solo nel marzo del 2006), L’incubo di Darwin di Hubert Sauper ha subito attratto l’attenzione per la sua assoluta forza di descrizione e di analisi di una situazione terribile. Sauper è austriaco, è nato in Tirolo, ha vissuto in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti e da una decina d’anni abita in Francia. Ha studiato regia a Vienna e a Parigi. I suoi film hanno ottenuto molti riconoscimenti internazionali. Tra gli ultimi lavori segnaliamo Kisingany Diary (1997) e Seuls avec nos histoires (2001). Ecco qualche sua dichiarazione su L’incubo di Darwin: «Avrei potuto fare lo stesso film in Sierra Leone, solo che lì al posto del pesce ci sarebbe stato un diamante, in Honduras una banana mentre in Libia, Nigeria o Angola ci sarebbe stato il petrolio… Fare cinema è un modo per conoscere me stesso e le realtà del nostro tempo. Se ho un’idea buona su qualche argomento, la esamino e cerco di trasformarla in un film. Di solito faccio dei film su argomenti che m’interessano tanto ma sui quali non so niente. Quindi, quando sono andato per la prima volta in Africa correva l’anno 1997. Cercavo di fare un film sui rifugiati. Ne sapevo molto poco e con l’aiuto delle Nazioni Unite ho avuto accesso alle zone dove si trovavano i rifugiati in Congo. Questo viaggio è diventato un’esperienza molto dolorosa, perché io cercavo dei profughi ma ho trovato soltanto dei morti. A migliaia. Mi sono reso conto che proprio in quel momento la guerra civile era cominciata in Congo. Filmai tutto ciò che vidi ed era una realtà così terribile che è quasi impossibile vedere il film, è mostruoso. Mi sono accorto che le persone che portavano l’aiuto umanitario al centro del Congo erano dei piloti russi che volavano con grandi aerei da carico. L’unico modo per far la guerra nel Congo è avere tanto materiale dall’Europa come munizioni, pistole, bombe a mano, granate. E l’unica maniera per ottenere quelle armi è mediante gli aerei usati per sganciare l’aiuto umanitario. Questa è stata l’idea iniziale per L’incubo di Darwin… Credo che la realtà superi sempre la finzione. L’unico problema è che la maggior parte delle persone che fanno i documentari non sanno far cinema. Non hanno studiato in scuole di cinema. Perciò quello che intendiamo per documentario è ciò che in Francia chiamiamo reportage, che è una cosa diversa. Mi ci vogliono quattro anni per fare un film, e generalmente un reportage per il cinema o la televisione si può fare in due o quattro settimane. Quindi c’è un gran malinteso tra questo concetto di documentario e il documentario stesso… Abbiamo avuto sempre problemi, per girare il film. Tutti i giorni. Perché nessuno voleva che lo girassi, nessuno era interessato e, spesso, avevo difficoltà a farmi capire in un paese come l’Africa. Alcuni capi tribù o poliziotti di piccoli paesi in Tanzania non capivano lo scopo del mio film, perché molti di loro non erano mai andati al cinema. Allora preferivano sbattermi in prigione e io dovevo pagare la cauzione per uscire. Era quasi un gioco. La troupe era molto piccola e abbiamo escogitato tutti i modi possibili per girare, intraprendendo diverse strategie. Abbiamo scritto persino al presidente dell’ambasciata, per ottenere un documento, percorrendo l’iter burocratico. Ed è servito: finalmente ci hanno concesso l’autorizzazione nazionale alle riprese e tutto quanto serviva. Ma le leggi in quei paesi non sono molto chiare. Quando avevamo tutti i documenti in regola siamo andati su un’isola di pescatori nel Lago Victoria e il capo della tribù ci ha sequestrato i permessi, li ha stracciati e buttati in acqua. Da quel momento ci siamo convinti che non si potevano più percorrere le vie legali… Pur se il film denuncia la situazione catastrofica nel Terzo mondo, penso che faccia vedere il lato umano della sua gente e questo è più importante. Credo che la maggior parte dei governi dei paesi poveri siano molto corrotti e le popolazioni molto ignoranti, come è ben noto. I politici europei ed americani sono veramente cinici perché foraggiano questi leader. È così da prima dall’epoca coloniale. Sosteniamo questi ricchi leader in tutto l’emisfero sud. Pilotiamo degli aerei da carico che indirettamente uccidono le loro popolazioni. Ora non voglio entrare nei dettagli, ma potrei raccontare tante cose…».
La critica
È uno dei migliori documentari usciti negli ultimi anni, premiato quest’anno ai César [gli Oscar francesi, ndr] come miglior esordio, anche se recentemente in Francia (paese dove vive il regista) lo storico François Garçon, sulle pagine dell’autorevole rivista culturale Les Temps modernes ha attaccato il film. Perché? Sostanzialmente accusando Sauper di aver stravolto il materiale raccolto e aver offerto al pubblico occidentale la solita immagine miserabilistica dell’Africa, spogliata dalla ingordigia consumistica e dai traffici proibiti dell'’Occidente. Tutto nasce dall’introduzione della “carpa del Nilo” nelle acque del lago Victoria, un pesce molto vorace e di dimensioni notevoli che ha praticamente distrutto tutta la precedente fauna ittica ma ha anche permesso la nascita di una consistente industria locali per la lavorazione e l’esportazione dei filetti di carpa in tutto il mondo, a cominciare dall’Europa. Sauper fa due domande con il suo documentario: da una parte si chiede se questa “rivoluzione economica” nei costumi locali abbia portato un effettivo maggior benessere alle popolazioni del lago Victoria; dall’altra si interroga sull’economicità dei voli effettuati dai cargo che prelevano i filetti lavorati e li esportano in Europa: possibile che non usino i voli di andata a Mwanza, quando arrivano vuoti, per qualche altro scopo? Su questi argomenti il film offre una risposta e mezza. Quella intera riguarda il benessere che si dovrebbe respirare a Mwanza e che invece è contraddetto da troppe, esplicite, immagini: quelle dei bambini abbandonati che bivaccano per strada, intontendosi come possono con droghe più o meno casalinghe (esalazioni di collanti e simili), quelle delle prostitute che sono state attirate (o spinte a fare questo lavoro) dalla clientela straniera che i traffici commerciali hanno generato, quella del resto della popolazione che non ha più risorse per equilibrare la pesca con l’agricoltura (come faceva in passato) ed è costretto, quando non trova un posto nell’industria ittica, a vivere di elemosine o rifiuti (la scena della vecchia che essicca le lische delle carpe spolpate non si dimentica facilmente). La mezza risposta riguarda il mistero dei voli che arrivano vuoti (il che sarebbe altamente diseconomico) e ripartono pieni. Certezze Sauper alla fine non ne ha ma qualche dubbio sì e riguarda il traffico di armi che sempre di più coinvolge le popolazioni africane e che potrebbe approfittare di questi voli vuoti per ingrossare le file di un mercato già molto florido. Ha ragione Garçon a contestare il film perché non dà risposte evidenti? Secondo me no, visto che pur con tutta la sua buona volontà il mestiere del regista è diverso da quello dello storico, anche quando svolge un’inchiesta di questo tipo. E Sauper vuole soprattutto parlare la lingua degli spettatori, utilizzando il cinema come strumento di apertura sul reale, come un occhio che non si accontenta di quello che vede ma che ti spinge a guardare più in là, più in profondità, suscitando dubbi e ponendo interrogativi cui spetterà ad altri rispondere.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 10 marzo 2006
Attenzione: la Mikado fa uscire oggi sugli schermi, un anno e mezzo dopo la presentazione alle giornate degli autori di Venezia 2004, un film straordinario: L’incubo di Darwin, dell’austriaco Hubert Sauper. È un documentario, ma non aspettatevi piacevolezze in stile Marcia dei pinguini: è un film durissimo, e dopo averlo visto non riuscirete più ad acquistare a cuor leggero i filetti di pesce persico che vedete esposti, rosati e appetitosi, nei supermercati. Avevate mai notato che sull’etichetta di quei filetti, alla voce «provenienza», c’è scritto «Tanzania»? I persici che consumiamo in Europa provengono dal lago Vittoria, dove furono immessi negli anni ‘60. Un tizio con un secchio liberò tre o quattro pesci persico in un lago grande come mezza Europa, e quelli, in poco più di 40 anni, hanno sconvolto l’ecologia del lago e l’economia di tre o quattro stati. Feroci predatori, i persici hanno rapidamente sterminato la fauna autoctona del Vittoria e poi hanno cominciato a mangiarsi fra loro. Le popolazioni che vivono sul lago lavorano nella pesca e nella lavorazione del pesce: i filetti vengono esportati in Europa a bordo di aerei ex sovietici che arrivano in Tanzania carichi di armi (destinate alle numerose guerre civili della zona) e ripartono carichi di pesce. Sul posto, rimangono solo le lische e le teste, che sono l’alimentazione principale dei lavoratori e delle loro famiglie (riuscite a immaginare il fegato di una persona che mangia esclusivamente teste di pesce fritte?). Sauper racconta questa parabola ecologico-socio-economica con il respiro di un romanzo. Film imperdibile.
Alberto Crespi, L'Unità, 10 marzo 2006
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