CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 11 gennaio 2007 – scheda n. 11 (714)
The Descent – Discesa nelle tenebre
Titolo originale: The Descent
Regia e sceneggiatura: Neil Marshall
Fotografia: Sam McCurdy. Montaggio: Jon Harris. Musica: David Julyan.
Scenografia: Jason Konx-Johnston.
Interpreti: Sauna Mcdonald (Sarah), Natalie Jackson Mendoza (Juno),
Alex Reid (Beth), Saskia Mulder (Rebecca), MyAnna Buring (Sam),
Nora-Jane Noone (Holly), Oliver Milburn (Paul), Molly Kayll (Jessica),
Craig Conway (un crawler, il cavernicolo Scar), Leslie Simpson (un altro crawler).
Produzione: Keith Bell, Northmen Prod. Distribuzione: TimeCode.
Durata: 103’. Origine: GB, 2005.
Il regista
Ecco un nome nuovo che bisognerà tenere d’occhio. Neil Marshall è nato nel 1970 in Inghilterra, a Newcastle upon Tyne, ha debuttato nel cinema con Combat (1999), ha diretto un buon horror, Dog soldier (2001), infine ha presentato a Venezia nel 2005, con molto successo, questo The Descent. Ecco una sua (eloquente) dichiarazione: «Ho deciso di sfruttare al massimo tutto ciò che poteva incutere terrore. Adoro spaventare il pubblico. È un gran potere per un regista e amo molto percepire la paura, sentire che alcuni trattengono il respiro, sobbalzano o gridano».
La critica
Pronti per un viaggio nelle viscere delle nostre paure più profonde? Basta unirsi alle sei ragazze di The Descent, un thriller-horror di produzione inglese come capita di trovarne pochi: da vedere aggrappati al bordo della poltrona. (…) Il film si prende il tempo per farci conoscere le sei protagoniste, poi le immerge nel ventre della terra; dove scopriamo, assieme alle altre, che l’organizzatrice ha scelto una caverna non mappata. Comincia una vera discesa all’inferno, che è nel contempo un viaggio nelle angosce primordiali di ciascuno e una visita guidata al funzionamento della macchina-cinema. Non consiste forse, il piacere della paura filmica, nell’affrontare situazioni-limite in una zona protetta (la sala) eppure avvertendo, nonostante tutto, il senso del pericolo sulla propria pelle? Il film di Marshall è imbevuto in una tensione che percepisci fisicamente, dall’inizio alla fine. E se è vero che il cinema è l’arte di mostrare ombre dosando allo spettatore quel che può e quel che non può vedere, qui siamo alla quintessenza del cinema. La regia gioca sapientemente (sadicamente) di luce e di buio, d’impressioni ottiche ingannevoli, immaginando di continuo nuovi punti di vista (o di oscurità) malgrado lo spazio esiguo in cui agisce. Così che lo spettatore lasci lavorare l’immaginazione e metta l’amplificatore all’angoscia. Alla claustrofobia e alla paura del buio si aggiungono, a un certo punto, abominevoli presenze, che non è il caso di anticipare. Basti dire che il gruppo si assottiglia sempre più, prima di arrivare a un doppio-finale che rilancia l’angoscia a una marcia superiore. Diversamente dalla maggior parte degli horror in circolazione, manipolativi e furbetti, The Descent è un film radicale, "gore" e aggressivo ma che non bara. A cominciare dalle stesse attrici, scelte più per le capacità atletiche che per commuoverci, atteggiando il faccino al terrore. Chi ama il genere non può perderlo; per chi è allergico, molto meglio tenersi alla larga.
Roberto Nepoti, la Repubblica, 21 ottobre 2005
(…) L’horror, si sa, ama andare in discesa, buttarsi a capofitto verso le tenebre della nostra oscurità interiore e di storie leggendarie dove vivono vendicativi dèi infernali e altre orribili creature. The Descent si infila nelle viscere della Terra. Notte, ombre, cripte, tombe, labirinti sotterranei, abitanti delle tenebre, fantasmi del passato, morti mai morti e vivi mai vivi, anime in pena e inconsci tormentati abitano le visioni orrorifiche. Per entrare in questi mondi bisogna ritualmente “passare attraverso”: come fa l’ignaro buon borghese Hutter quando passa il ponticello sulla strada che porta al castello di Nosferatu e la didascalia avverte che oltre il ponte vivono i fantasmi. Bisogna, in The Descent, horror speleologico, infilarsi nello stretto orifizio che unisce il mondo esterno alle viscere della Madre Terra. Interiorità e interiora vanno a braccetto negli horror. Ci si infila in un buco e non si torna indietro. Le sei protagoniste del film peccano, ovviamente, di hybris. Vanno oltre. Vogliono, modernamente, mettersi alla prova e superano un confine che sarebbe stato prudente non valicare. Strisciano in stretti cunicoli, scendono in pozzi profondi, si perdono in immense caverne. E questa discesa dentro la pancia della Terra è anche uno sprofondare in loro stesse, in quanto di inquietante si portano dietro. Inabissandosi, combattono per la leadership, si illudono di salvarsi e invece affondano sempre di più, fin quando incontrano delle creature umanoidi e cieche che la storia biologica ha incarcerato nell’intestino terrestre al termine di una filogenesi abortita, esseri che si nutrono di carne, anche di quella delle sei donne, strappandola via a brandelli, e che in questo modo, quasi come dei batteri, tengono ecologicamente pulito il loro mondo enterico e ctonio, dove mucchi di ossa spolpate testimoniano di una lunga e costante attività di trasformazione di corpi vivi in inerti residui. L’itinerario di sprofondamento e di apparizione dell’unheimlich, di ciò che non è familiare, itinerario che si conclude con un vero e proprio spolpamento, con la perdita della propria consistenza corporea e interiore, era cominciato con una mossa iniziale, pressoché obbligata negli horror: con l’abbandono di ciò che ci è familiare. L’unheimlich appare e ci sorprende quando si abbandona lo heim, la dimora abituale e domestica. E, in apertura di The Descent, succede appunto che la famiglia venga brutalmente tolta di mezzo. Lo Hutter di Murnau lasciava la donna e la casa per la Transilvania: la Sarah di Neil Marshall perde all’inizio del film il marito e la figlioletta in un terribile incidente. Prima dell’incidente l’avevamo vista sfidare le rapide di un vorticoso fiume su un canotto in una performance sportiva di rafting. Si trattava già di un’esperienza in qualche modo fuori dall’ordinario, ma è quando Sarah si infila in quel buco nella Terra, con la troppo decisa e pericolosa Juno, con le due sorellastre scandinave Rebecca e Sam, con la spericolata Holly e con l’insegnante di letteratura inglese Beth, è allora che tutte si perdono davvero, perché la caverna non è quella che pensavano che fosse (la tracotante Juno ha deciso di penetrare in un orifizio inesplorato), perché si ritrovano isolate, perché la volta di una galleria frana loro addosso, perché si accorgono di essere entrate dentro un baratro e dentro un mondo totalmente unheimlich. La capospedizione ha un nome classico, Giunone, imparentato etimologicamente con iuvenis, giovane. Giunone era la personificazione della forza giovanile e della luce celeste, era la sposa di Giove, regina del cielo e protettrice della vita della donna e del matrimonio. Nel film, al contrario, Juno è molto maschile, non è madre né moglie e sembra voler aspirare al titolo di regina dei regni ctonii. Le altre donne, salvo Holly, hanno nomi biblici, anch’essi legati all’idea di famiglia: Sarah come la moglie di Abramo; Rebecca come la moglie di Isacco che era figlio di Sarah; Sam, usato al femminile, come Samuele, ultimo giudice in Israele, vincitore dei filistei, profeta che unge re il giovane David; Beth come Elisabetta, moglie del sacerdote Zaccaria e madre di Giovanni il Battista. Queste donne, che non prestano attenzione ai loro nomi e non ubbidiscono alle loro ascendenze, formano una pattuglia prima spavalda, poi sperduta, sparuta e isolata, senza più uomini, senza mappe, in cerca d’una via d’uscita, di una qualche salvezza, di una luce che le porti fuori. Quando la strada dietro di loro è bloccata, possono soltanto scendere ancora più in basso. E mentre sprofondano risalgono all’indietro lungo il cammino dell’avventura umana, ridiventano belve, uccidono e vengono uccise, si sporcano di sangue, fango, delitti e tradimenti. Incontrano i crawlers, creature striscianti e acrobatiche, predatori da caverna, affamati di carne fresca, mostri viscidi e feroci che sanno scalare ogni parete, ciechi padroni del loro mondo senza luce. La pattuglia femminile si assottiglia, cinque, tre, due, una soltanto. E la penultima inquadratura in cui all’unica superstite, e a noi, viene ridata una speranza di espulsione e di salvezza è classicamente contraddetta dall’ultima in cui siamo di nuovo dentro l’oscurità e sull’orlo di un altro baratro. Succede sempre così in ogni horror che si rispetti: il male l’avremo sempre con noi e non ci libereremo dall’orrore. Abbiamo imparato che la mano di Carrie esce fuori all’ultimo e all’improvviso, quando tutto sembra concluso, per trascinare all’inferno l’amica che l’ha tradita. Citiamo il film di De Palma non a caso: Shauna Macdonald, che interpreta Sarah, alla fine di The Descent, è coperta di sangue e invasata come era rossa di sangue la Sissy Spacek di Carrie.
Girato in esterni in Scozia e per gli interni in Inghilterra negli studi di Pinewood, ambientato negli Usa, sui monti Appalachi, The Descent è un horror speleologico, cavernoso e spaventevole. È un tranquillo weekend di paura, è una discesa agli inferi, è un film di paura che non cerca né sottolinea troppo altri livelli di interpretazione. Tira via dritto per il suo cunicolo. È anche un film forse attraversato da una vena di ironia, con queste eroine molto mache (femminile plurale di macho) che tremano come foglie e lanciano urli da donnicciole (…). Si guarda The Descent, si trattiene il respiro e si sobbalza. L’horror, quand’è un buon horror, funziona ancora e sempre.
Bruno Fornara, Cineforum, n. 449, novembre 2005
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