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Locandina del film
Paradise Now - Locandina del film
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Scheda pdf (148 KB)
Paradise Now - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione


in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS


Giovedì 18 gennaio 2007 – scheda n. 12 (715)



Paradise Now

 

 

Regia: Hany Abu-Assad

Sceneggiatura: Bero Beyer, Hany Abu-Assad. Fotografia: Antoine Heberlé.

Montaggio: Sander Vos. Musica: Jina Sumedi. Scenografia: Olivier Meidinger.

Interpreti: Kais Nashef (Said), Ali Suleiman (Khaled), Lubna Azabal (Suha),

Amer Hlehel (Jamal), Ashraf Barhoum (Abu-Karem), Mohammad Bustami (Abu-Salim),

Olivier Meidinger (Abu-Shabaab),Mohammad Kosa (fotografo),

Hiam Abbass (la madre di Said).

Produzione: Augustus Film, Razor Film, Lumen Film. Distribuzione: Lucky Red.

Durata: 90. Origine: Palestina, Francia, Germania, Olanda, 2005.

 

Il regista

 

Nato a Nazareth 43 anni fa, il regista palestinese Hany Abu Assad ha esordito nel 1998 con Het 14e kippatje, di produzione olandese, poi ha girato Nazareth 2000, quindi Ford Transit (2002), Al Qods Fee Yom Akhar (Un altro giorno a Gerusalemme, 2002) e questo Paradise Now, presentato al Festival di Berlino. Sta ora lavorando al suo nuovo film, L.A. Cairo. Ecco qualche sua dichiarazione: «Il film è stato finanziato da Olanda, Germania e Francia, ma ha partecipato anche un coproduttore israeliano. Avevamo chiesto anche dei finanziamenti a Israele ma non abbiamo mai avuto risposta… Sicuramente sono l’ultimo a poter dire che in Palestina c’è una società seria: siamo controllati da sessant’anni dagli israeliani, che però non si sono mai preoccupati di creare una società più sana. La verità è che l’occupazione in Palestina impedisce di vivere liberamente… C’è stato solo un piccolo gruppo contrario alle riprese ma, in linea di massima, direi che i gruppi di liberazione ci hanno appoggiato. I problemi maggiori si sono verificati con l’esercito israeliano, purtroppo sono accaduti anche episodi violenti: mentre giravamo, l’esercito ha fatto esplodere dei missili proprio vicino a noi. Girare il film è risultato complesso anche perché il mio intento era quello di rappresentare diversi punti di vista. Mostrarne solo uno non sarebbe stato obiettivo, il rischio era quello di fare un film di propaganda… In questo mondo, secondo me, manca la volontà precisa di risolvere davvero la questione palestinese. Nessuno vuole riconoscere che israeliani e palestinesi debbano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, questo mi sembra evidente…Nonostante l’argomento drammatico, Paradise Now offre alcune scene spesso grottesche: dai militanti palestinesi che mangiano avidamente mentre filmano il testamento del kamikaze, alla macchina da presa che si inceppa più volte. Si va dal grottesco al drammatico in pochi secondi perché così è la vita, tutto cambia in pochi istanti».

 

La critica

 

Hanno due belle facce da poveri, Khaled e Said. Sono giovani, allegri in superficie come è d’obbligo a 20 anni, lavorano da un carrozziere, e la sera tornano nelle loro case-tana piene di fratelli e sorelle e mamme che cucinano per tutti. Said è senza padre, Khaled ha un padre invalido. Il padre di Said è stato ucciso perché «collaborazionista». Al padre di Khaled i soldati israeliani hanno tagliato una gamba, per punizione. Prima gli hanno chiesto «Quale gamba preferisci tenere?». Lui ha risposto: la sinistra. Il figlio soffre più per quella risposta che per l’orrore della tortura: «lo me le sarei fatte tagliare tutte e due, pur di non essere umiliato».
Vivono a Nablus, Khaled e Said. Non hanno mai visto altro che quella terra contestata, dalla quale non possono uscire liberamente. Non conoscono altro che l’odio, la vendetta, la vergogna della propria debolezza, il desiderio di riscatto, l’ingiustizia, il bisogno di reagire all’ingiustizia. Professano una fede assoluta in un Dio che nominano continuamente, in frasi rituali, un Dio a cui esprimono la loro gratitudine in ogni occasione, da cui si aspettano l’unica sicurezza possibile, l’unica serenità, l’unica promessa di sollievo da una vita quotidiana massacrata dall’ansia, dalla paura. «Dio lo vuole», «Grazie a Dio», «Con l’aiuto di Dio», «A Dio piacendo», sono l’intercalare di ogni dialogo. Una sera come tante, tornando dal lavoro, Said e Khaled vengono avvicinati da Jamal, che non è un ragazzino come loro, ma un adulto, impegnato nella lotta di liberazione, una sorta di capo. Jamal annuncia a Said e a Kahled che sono stati prescelti, per un’azione suicida. Non fra sei mesi, non fra un anno: domani. L’ultima sera la passeranno in famiglia, ma non potranno dire niente. Madri e fratelli non dovranno capire qual è la ragione di quegli sguardi troppo teneri e troppo lunghi, così inconsueti, il perché di quel silenzio attento, o di quelle domande strane. La loro esperienza terrena sta per finire. E questo è terribile e contro natura (sono giovani, uno dei due si sta innamorando), ma avranno la possibilità di accedere, loro che non sono nulla, addirittura al martirio. È una grande prova e un grande onore. Sono pronti? La domanda è retorica, il no non esiste. La risposta è rituale: con l’aiuto di Dio. A questo punto Paradise Now, quarto film di Hany Abu Assad, assume una cadenza drammatica: i due ragazzi vengono imbottiti di esplosivo, ogni tentativo di disinnescare il meccanismo li farebbe saltare in aria, dovranno stare attenti, dovranno essere rapidi, per non morire inutilmente, dovranno esplodere con le loro cinture mortali a Tel Aviv, in uno spazio e in un tempo che garantiscano il massimo numero possibile di vittime, meglio se militari. Le istruzioni sono precise. La preparazione prevede un’ottima cena, una seduta dal barbiere, una vestizione: quando i corpi magri dei due ragazzi sono costretti a indossare due seri abiti a giacca con tanto di cravatta, l’impressione è di un travestimento. I capelli cortissimi, la barba rasata, il collo lungo che esce goffo dal colletto della camicia, gli occhi smarriti, i gesti impacciati, più che eroi, Khaled e Said, sembrano pronti per un colloquio di lavoro o vestiti a festa per una cerimonia di cui non sono entusiasti. La tragedia procede con un passo da commedia: il video in cui ciascuno dei martiri deve leggere il suo proclama e, a seguire, dare l’addio alla famiglia, deve essere rifatto perché la telecamera non ha registrato, il martire si sottopone a un secondo ciak, e già questo riduce la solennità, ma non basta, mentre dedica la sua morte a Dio, gli altri (tutti, anche il suo collega aspirante al martirio) si mettono a mangiare un panino. Alla fine, invece di poche sentite parole, la mamma riceverà «post mortem» dal figlio l’indicazione di un negozio, dove i filtri per l’acqua costano meno. «Mi ero dimenticato di dirglielo», si scusa, il giovane aspirante martire. E il film tocca uno dei suoi momenti più strazianti e intensi. La verità delle piccole cose, i dettagli della povertà, l’atmosfera claustrofobica di Nablus (Paradise now è il primo film girato nella città palestinese), schiacciata in una valle lunga e stretta, sovrastata dalle montagne da cui israeliani armati esercitano un costante controllo, il rancore represso ad ogni passaggio di check point, la sensazione che tutto possa saltare in aria da un momento all’altro: non c’è servizio giornalistico che possa evocare tutto questo. Abu-Assad, giustamente e coraggiosamente, ha deciso di girare in pellicola invece di ascoltare chi gli consigliava una piccola troupe e la scelta del video digitale, per essere più rapido e leggero date le condizioni (girare in una città occupata). Voleva fare un film che non potesse essere confuso con le immagini scialbe dei telegiornali, ché ormai tutti guardiamo distrattamente. Aveva ragione di volere un film ed è riuscito a farlo. Paradise now è un film e un bel film. Con la forza del cinema racconta senza giudicare, il che, sulla questione palestinese è necessario. Hanno torto tutti, lì: gli israeliani che non vogliono riconoscere i diritti dei loro vicini, i palestinesi che rispondono all’occupazione con il terrorismo, strumento inaccettabile sempre, qualunque sia la motivazione. La sospensione del giudizio, privilegio assoluto dell’arte, non è, comunque, il solo vantaggio che la scelta della forma ha guadagnato ai contenuti dell’opera di Abu-Assad. C’è di più: c’è comprensione, capacità di approfondimento e compassione in Paradise Now. E la compassione è un bene di prima necessita, in questi tempi dolorosi. Non bisogna mai smettere di provare pietà, oggi. Anche per i tanti (troppi) Khaled e Saìd, mandati a morire, imbottiti di tritolo e nutriti di rancore, istigati alla vendetta e intontiti con la religione. Quando uno dei due chiederà al «superiore» che li sta portando al macello «Come sarà. . . dopo?». La risposta ha un tono burocratico che confligge con il contenuto fiabesco. «Scenderanno due angeli a prendervi». Le cose poi non andranno esattamente secondo le previsioni, e di questo è bene tacere, perché il film ha una bella tenuta drammatica, sarebbe peccato sciuparla. Ma gli occhi di Said quando pensa che sta guardando la sua bella ragazza per l’ultima volta sono destinati a restare. A piantarsi nella nostra anima e nella nostra memoria. Said è un kamikaze malgrado se stesso. Non ha nessuna libidine negativa, la vita, la sua piccola vita di ragazzo timido e sbruffoncello (sarebbe piaciuto a Pasolini) se la vivrebbe molto volentieri. È l’ambiente in cui è cresciuto che lo condiziona, è condizionato all’odio, al rancore.
Deve riscattare suo padre che ha collaborato con gli israeliani ed è stato giustiziato per questo. Deve vendicare un eroe ucciso e un bambino massacrato. Deve portare il suo carico di morte, perché è una cultura di morte quella in cui è stato educato. Quando la ragazza che gli piace (la bravissima Lubna Azabal di Exils in concorso a Cannes) gli chiede se è mai stato al cinema, la risposta è agghiacciante. «Una volta, quando siamo andati a bruciarne uno, in Israele». A Nablus di sale cinematografiche, non ce ne sono.

Lidia Ravera, l’Unità, 13 ottobre 2005

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