CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 15 febbraio 2007 – scheda n. 16 (719)
La vedova allegra
Titolo originale: The Merry Widow
Regia: Ernst Lubitsch
Sceneggiatura: Samson Raphelson, Ernst Vajda, dall’operetta Die lustige Witwe (1905)
di Victor Léon e Leo Stein, musica di Franz Lehàr.
Fotografia: Oliver T. Marsh. Musica: Franz Lehàr, arrangiamento di Herbert Stothart.
Scenografia: Cedric Gibbons, Fredric Hope. Interpreti: Maurice Chevalier (Danilo),
Jeanette McDonald (Sonia), E.E. Horton (Popoff), Una Merkel (la regina Dolores),
George Barbier (re Ahmed), Minna Gombel (Marcelle),
Ruth Chaninng (Lulu), Henry Armetta (Turk).
Produzione: Irving Thalberg per Metro Goldwin Mayer.
Distribuzione: Lab80 Film, Federazione Italiana Cineforum.
Durata: 99’. Origine: Usa, 1934.
Il regista
Abbiamo parlato di Ernst Lubitsch pochi giovedì fa, presentando il film di Natale, Scrivimi fermo posta. Non è quindi il caso di ripeterci. Diciamo soltanto che Lubitsch è uno dei grandissimi del cinema, nato a Berlino nel 1892, morto a Hollywood nel 1947, e che questo è un film tra i suoi più famosi, divertenti e stravaganti, tratto dall’operetta di Franz Lehàr. Avremo ancora nel nostro programma un altro appuntamento con Lubitsch per un terzo film (il più bello di tutti?), in programma giovedì 8 marzo!, che è Ninotchka con la Garbo, rigidissimo commissario politico sovietico, bolscevico e comunista, conquistata dal fascino discreto del capitalismo parigino e dall’amore fino a ridere a crepapelle in una scena destinata all’immortalità (come tutto il resto del film…).
La critica
Non si scopre nulla affermando che The Merry Widow (La vedova allegra, 1934), fotografato in bianco e nero da Oliver Marsch, lo stesso operatore della precedente Vedova allegra sempre della Metro Goldwin Mayer, firmata da Erich Von Stroheim (1925), è uno dei più splendidi film a colori della storia del cinema: forse solo Dreyer ha saputo dare al bianco e nero altrettanta intensità cromatica. Prima di tutto c’è la grana inimitabile e pastosa della fotografia, che dà straordinario risalto agli incredibili décors (scenografie) di Cedric Gibbons; poi, ci sono le gags legate appunto al contrasto dei colori, in una gamma di opposizioni binarie che è ben lubitschiana: Sonia, all’inizio, che si toglie il velo nero, aiutata da una cameriera che lo ripone in un armadio accanto a centinaia di altri veli neri; lo stesso con l’abito nero, le scarpe nere, le calze nere, finché in un nero negligé, ella intona la romanza “Wilja” con un cagnolino nero che l’ascolta accovacciato su un cuscino dello stesso colore; ma poco dopo («C’è un limite a tutte le vedove!») la vediamo sostituire il velo nero con un cappello bianco, le gramaglie con abiti nuovi e candidi, il cagnolino con un esemplare identico ma bianchissimo. La gag, poi ripresa fra gli altri da Frank Tashlin (il regista di molti film di Jerry Lewis, ndr), va al di là dell’opposizione accennata, conosce ogni sorta di mediazioni maliziose: la bottiglietta d’inchiostro nero che si prosciuga, a furia di scrivere, la sera del primo incontro fra Sonia e Danilo, su pagine e pagine di diario che fino a quel momento sono rimaste vertiginosamente bianche («Sono sempre vedova. N.N. Sempre più vedova»); la grande scena del ballo all’ambasciata di Marshovia, dove un pavimento definito degno di Matisse da Giulio Cesare Castello (un critico italiano dell’epoca, ndr) ospita e incornicia, inquadrato dall’alto, la ridda delle coppie travolte dal valzer; e il bianco dei vestiti delle dame, il nero del frac, con qualche gradazione sapientemente inserita, disegna uno stupefacente caleidoscopio sulle piastrelle bianche e nere del salone. Ma c’è di più: il velo nero di Sonia, la Hannah Glawari di Lehàr, è elemento al tempo stesso simbolico e cromatico, sembra alludere a un segreto inviolato e invitare nel contempo alla violazione. A ben vedere, tutta la vicenda immaginata per Lubitsch da Ernst Vajda e Samson Raphelson, i due sceneggiatori, sulle tracce assai vaghe del libretto originale di Léon e Stein, poggia sul motivo dell’occultamento e del palesamento, che si potrebbero anche identificare con i motivi mitici della morte e della resurrezione:
a – Sonia appare velata a Danilo, cui le donne davvero non mancano (la canzone Weib, Weib, Weib, cioè Girls, girls, girls, è spostata all’inizio); proprio per questo lui desidera scoprire il suo volto, e pensa solo a lei;
b – Danilo entra nel giardino di Sonia, e la prega di togliersi il velo, azione cui è delegata una serie di ovvi sottintesi sessuali, ma anche l’idea di un possibile ritorno alla vita dal mondo dei morti; Sonia rifiuta;
c – Danilo stesso è travestito (la lettera in terza persona che le consegna: «Guardatevi dal conte Danilo»), ma ben presto rivela che Danilo è il suo nome, indicando così a Sonia le possibili gioie del palesamento;
d – A Parigi, Danilo continua a travestirsi da cinico viveur (Ich gehe zu Maxim // dort bin Ich sehr intim…Io vado da Maxim dove mi trovo benone) pur essendo ormai irrimediabilmente innamorato della vedova;
e – Sonia lo segue da Maxim e si traveste da grisette assumendo il nome di Fifi;
f - «Fifi è morta», dice Sonia il giorno dopo, all’ambasciata di Marshovia, a Danilo che è venuto a fare il suo dovere e a sposare la ricca vedova, ignorando che si tratta della stessa donna cui due volte ha dichiarato il suo «unico» amore; la morte di Fifi è la simbolica rinascita di Sonia;
g – Al processo che Danilo deve subire per non essere riuscito a sposare la vedova, l’uomo continua il suo travestimento cinico gridando che ogni uomo disposto al matrimonio merita di essere impiccato; il travestimento cede dunque il passo a un suicidio simbolico;
h – In prigione, dove deve passare la vita, Danilo riceve la visita di Sonia, che vuole restare con lui: ma invece del finale dell’Aida, abbiamo quello tradizionale della vedova allegra (dalla finestrina girevole della cella entrano in campo due fedi nuziali, una Bibbia e una bottiglia di champagne): matrimonio e simbolica resurrezione di entrambi i protagonisti.
(…) La Marshovia di The Merry Widow è un universo perfettamente chiuso in se stesso, la rivisitazione nostalgica di un regno utopico, non meno idealizzato e irrealizzabile dello Shangri-la di cui favoleggiavano in quegli anni tormentati James Hilton e Frank Capra (nel film Orizzonte perduto, ndr). Certo anche nella Marshovia di Lubitsch si possono cogliere burleschi riferimenti alla realtà contemporanea («Maestà, i pastori mormorano, sono scontenti…»; «Quali pastori?»; «Quelli della zona Est»; «Ah, beh, gli intellettuali»); ma non è un caso che, fra le tre versioni MGM dell’operetta di Lehàr (Stroheim 1925, Lubitsch 1934, e l’orrendo Curtis Bernhardt del 1952, con Lana Turner e Fernando Lamas) questa sia l’unica in cui la vedova Sonia, non venga dall’America, e sia a tutti gli effetti una cittadina del piccolo reame mitteleuropeo. Il vero pericolo, in ogni caso, è che la favolosa fortuna della vedova non esca dal paese: uno scopo «negativo» in cui si riconoscono quasi tutti i personaggi delle varie versioni. Ma in Lubitsch, come in Lehàr, la geografia immaginaria conosce solo due poli, la Patria e Parigi: e se nel libretto di Stein e Léon il rispetto per l’unità è assicurato dal fatto che l’azione si svolge tutta nell’ambasciata o in casa di Hannah, con irruzione di vere grisette al terz’atto in una costruzione immaginaria di Chez Maxim, il film va e viene dalla corte e dai tribunali di Marshovia alla Parigi dei cabarets con la fluidità spensierata di chi non ha che da cambiare i fondali e le quinte, ben consapevole di non rischiare mai di uscire dalla cornice dorata della favola.
(…) Marshovia è l’utopia, la favola, un mondo falso e floreale che ci può apparire, per incanto o per illusione ottica, solo se sapremo cercarlo sulla carta con una lente d’ingrandimento. (…) E in questo regno utopico dove è obbligatorio essere felici, la comicità di Lubitsch appare più soffusa di malinconia, meno “hilarious” (meno ilare, meno spensierata, ndr). La stessa sensualità che pervade il film ha qualcosa di sazio e un po’ sfatto, vagamente preraffaellita; è lontana comunque dallo scatto e dalla malizia di The Marriage Circle (il film di Lubitsch Matrimonio in quattro, ndr). È lo sguardo di un Lubitsch maturo, di un Lubitsch quarantaduenne e disincantato, che non si illude più sulla consistenza delle sue costruzioni fantastiche, che si rassegna a vederle materializzate, solo sullo spazio ristretto dello schermo, e per la breve durata di una proiezione cinematografica. Come ha splendidamente detto Northrop Frye, «l’utopia, sul piano dei fatti e dell’etimologia, non è un luogo; e quando la società che cerca di trascendere è ovunque, può solo adattarsi in quel che rimane l’invisibile punto non-spaziale al centro dello spazio; chiedersi dove sia l’utopia sarebbe come chiedersi dov’è il nessun-posto, e la sola risposta a questa domanda è: qui».
Guido Fink, Ernst Lubitsch, Castoro Cinema n. 41, pagg. 70-75, maggio 1977
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