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Locandina del film
Ninotcka - Locandina
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Ninotchka - Scheda del film

 CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA


quarantatreesima stagione

in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

 

Giovedì 8 marzo 2007 – scheda n. 19 (722)

 

Ninotchka

 

Titolo originale: Ninotchka


Regia: Ernst Lubitsch


Sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder, Walter Reisch. Fotografia: William Daniels.

Musica: Werner Haymann. Scenografia: Cedric Gibbons, Randall Duell, Edwin B. Willis.

Interpreti: Greta Garbo (Nina Yakushova, detta Ninotchka), Melvyn Douglas (Léon),

Ina Claire (Swana), Bela Lugosi (Razinin), Sig Rumann (Iranoff), Felix Bressart (Buljanoff),

Alexander Granach (Kopalski).

Produzione: Metro Goldwin Mayer. Distribuzione: Lab80 Film, Federazione Italiana Cineforum.

Durata: 110’. Origine: Usa, 1939.

 

Il regista


Terzo appuntamento con il grande Lubitsch e con uno dei suoi film più famosi. Ninotchka è del 1939, anno in cui comincia la guerra in Europa. Gli Stati Uniti ne restano fuori fino a Pearl Harbor. Il 1939, negli Usa, è l’anno di Via col vento di Fleming, di Ombre rosse di Ford, di Mister Smith va a Washington di Capra. E di Ninotchka che riceve quattro nominations agli Oscar ma viene battuto da Via col vento che vince otto statuette. Lo slogan di lancio del film diceva: «la Garbo ride!». E infatti la Garbo rideva e ci fa ancora ridere…

Quando Lubitsch morì, nel 1948, Samson Raphelson, suo sceneggiatore, stese queste righe (si trovano in un bel libretto, L’ultimo tocco di Lubitsch, pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi, n. 306): «Lubitsch amava le idee più di ogni altra cosa al mondo, tranne sua figlia Nicola. Qualunque tipo di idee. Poteva appassionarsi egualmente alla tirata finale di un personaggio nella sceneggiatura a cui stava lavorando, ai talenti di Horowitz e di Heifetz, all’estetica della pittura moderna e al dilemma: comprare o non comprare beni immobili? Di solito la sua passione superava quella di tutti coloro che lo circondavano, e così finiva spesso per predominare in ogni gruppo. Eppure, anche in questa terra di egoisti, non ho mai visto nessuno che non s’illuminasse per il piacere della sua compagnia. Non solo perché era brillante, o perché dicesse delle cose giuste – era tutt’altro che infallibile, e il suo spirito, essendo umano, aveva i suoi alti e bassi –, ma per la purezza e l’infantile entusiasmo della sua precocissima storia d’amore con le idee. Per lui un’idea era più importante, che so, della momentanea ubicazione di un boccone di cibo fra una guancia e l’altra. Questo regista che aveva un occhio clinico per lo stile – dagli aspetti più superficiali dell’abbigliamento e delle buone maniere fino alla più lieve nuance di un cuore aristocratico – tendeva a infilarsi il primo paio di calzoni e la prima giacca che gli capitassero sottomano, anche se facevano a pugni, a gridare come un re o un bifolco (mai come un gentiluomo) e ad attraversare la vita senza troppe finezze e sfumature, con quella goffaggine che è il passaporto di ogni uomo onesto. Non aveva tempo per le buone maniere, ma la grazia in lui era inconfondibile; se li conquistava tutti, dal galoppino al megaproduttore, dal macchinista all’artista. La Garbo sorrideva eccome, in sua presenza, e sorridevano Sinclair Lewis e Thomas Mann. Era nato con il dono di rivelarsi istantaneamente a chicchessia. L’artista era sofisticato, l’uomo quasi ingenuo. Smaliziato l’artista, semplice l’uomo. L’artista era essenziale, preciso, esatto; l’uomo dimenticava sempre gli occhiali, i sigari, i manoscritti, e una volta su due doveva fare uno sforzo per ricordarsi il suo numero di telefono. Non importa quanta stima gli sarà tributata dagli storici del cinema: come uomo ne meritava di più. Era sinceramente modesto, non andava mai a caccia di fama o di premi, era incapace di usare l’arte per promuovere se stesso. Impossibile ferirlo criticando i suoi lavori, e in un certo senso neppure lui ferì mai i colleghi con la sua candida schiettezza. Se ti accettava era perché credeva in te. Perciò poteva dire “Che schifezza!”, e nello stesso tempo farti sentire il suo grande apprezzamento per quelle che tu speravi fossero le tue virtù nascoste. Attore straordinario, era assolutamente incapace di fingere nei rapporti umani. Non aveva un comportamento per l’umile e uno per il potente, uno stile per il salotto e uno per la bettola., Era scevro da astuzie e finzioni come si dice lo siano i bambini, e questo gli conferiva un fascino vario e inesauribile. Mi dispiace di non avergli saputo dire nemmeno un po’ di tutto questo mentre era vivo».

 

La critica


L’universo di Lubitsch è quello del rituale e questo rituale – sociale o amoroso – è sia lo spettacolo che il suo oggetto: un grand hotel parigino, l’aristocrazia sognata, dei saloni immensi e bianchi con i soffitti altissimi, un balletto di valletti in livrea che aprono e chiudono le porte… È il rituale stesso della messinscena che Lubitsch filma: e insieme filma anche la derisione del rituale stesso. La porta: è proprio così che Ninotchka comincia, con la porta girevole di un grand hotel e i pasticci di tre russi che non finiscono più di entrare e uscire. E come potrebbe altrimenti filmare Lubitsch? Perché è appunto la porta che instaura il rituale, la teatralità come oggetto e natura stessa del film, come spazio della messinscena. La porta, la si spinge e la si supera, trasformando ogni entrata in una entrata in scena. (…) La porta è lo strumento con cui si crea il fuoricampo. Quando le tre venditrici di sigarette entrano nella stanza dei russi di cui sentiamo, fuori quadro, le esclamazioni, noi restiamo nel corridoio. Una volta chiusa, la porta passa dalla funzione di quadro scenico a quella di ostacolo, di oggetto che fa rimbalzare il nostro punto di vista. Perché derubando lo spettatore dell’oggetto dello spettacolo, la porta qui eccita meno il suo desiderio di quanto non trasferisca invece la comicità dall’occhio all’orecchio: cioè all’immaginazione. Fa l’effetto di una quinta: non permettendoci di godere dello spettacolo che si svolge all’interno, lasciandoci quindi “alla porta”, la messinscena ci fa capire qual è il nostro punto di vista, ci fa reinventare la finzione a partire dagli indizi che ci vengono forniti. E questa scena è la prima di tre che vanno in progressione (con tre venditrici di sigarette invece di una sola) e l’oggetto del ridere non è la loro entrata nella stanza, ma l’effetto che producono sui russi, e la gag puramente sonora non ci viene mostrata. Perché perderebbe la sua forza.

Marc Chevrie, Ninotchka ou le parti d’en rire, in Ernst Lubitsch,

Cahiers du Cinéma, Cinémathèque française, 1985.

 

(…) La compagna Yakushova è ormai scomparsa: se Ninotchka, ubriaca grida di voler fare la rivoluzione e di voler detronizzare la granduchessa, il suo comizio può avvenire solo nella toilette del Café de Lucesse, fra lo scandalo delle signore che s’incipriano. La stessa sera, del resto, proclamando di aver bisogno di una buona punizione, Ninotchka si fa bendare, mettere al muro, e burlescamente fucilare da Léon con una bottiglia di champagne. La nuova, fragile Ninotchka è l’eroina di una favola: la parure di gioielli che indossa immaginando che glielo chiedano le masse («grazie Léon, grazie masse») dev’essere riposta a mezzanotte, altrimenti sparirà; oppure è la protagonista di un melodramma, ché all’arrivo della «fata cattiva», o matrigna che sia, segna l’ora della rinuncia e del distacco: Swana renderà i gioielli al popolo se Ninotchka partirà. E l’ultima parte, con Léon che cerca invano il visto per l’Urss, o le invia lettere d’amore tutte censurate tranne la prima riga e l’ultima («Ninotchka mia amatissima, tuo Léon») la vede trasformata nella principessa prigioniera di un Orco-Stalin, mentre Léon, anche lui «rinato» dopo la simbolica esecuzione cui ha partecipato, assume il ruolo del cavaliere senza macchia che cerca di salvarla.

La molteplicità di registri di Ninotchka è parzialmente unificata dal ritmo su cui si basa il film, che è un ritmo, come al solito in Lubitsch, binario. Non tanto basato sulle opposizioni (capitalismo e comunismo, vecchia e nuova Russia, Mosca e Parigi, uomo e donna, amore e dovere) quanto sulla ripresa e sul riecheggiamento: tutto, a ben vedere, ricorre due volte nel film, e la prima volta viene generalmente respinto o criticato, la seconda accettato con gratitudine: così il cappellino, che all’inizio appare mostruoso alla protagonista, o le barzellette di Léon, a cui ricorrerà poi, in un momento di disperazione; così, persino, la Tour Eiffel, che Ninotchka non ha mai trovato e di cui sull’aereo che la porta via da Parigi per sempre, ripeterà a Iranoff, Buljanoff e Kopalski misure e caratteristiche tecniche. Tutto viene dunque rovesciato (Léon che suggestionato da Ninotchka vuole dividere le sue sostanze con il vecchi maggiordomo Gaston, e Gaston terrorizzato all’idea di dovergli dare metà dei suoio risparmi) o corretto («Dice un proverbio russo: il gatto colto coi baffi sporchi di panna farà meglio a trovare una scusa»; «Beh, con la qualità della nostra panna, è la Russia che dovrebbe scusarsi coi gatti»). La filosofia del capitalismo, che Ninotchka finisce per far sua, ha in sé l’idea dello spreco, del consumo e dell’effimero: di qui la coscienza della labilità di ogni soluzione, e la tendenza a riassaporare ogni frammento di esperienza prima che si cancelli. «Compagni!», grida Ninotchka, incoronata «Gran Duchessa del Popolo» e ubriaca di champagne. «Compagni, la rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà a pezzi. Ma, per favore, non adesso». (…) E la Garbo che ride (di se stessa ma anche di noi), è una Garbo che, a differenza di Ninotchka ormai votata allo hic et nunc, al qui e ora, guarda al di fuori e dall’alto questi paesaggi patetici, un po’ buffi.

Guido Fink, Ernst Lubitsch, Il Castoro Cinema, n. 41. La Nuova Italia editrice, 1977.

 

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