CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 22 marzo 2007 – scheda n. 21 (724)
Radio America
Titolo originale: A Prairie Home Companion
Regia: Robert Altman
Sceneggiatura: Garrison Keillor, Ken LaZebnik. Fotografia: Edward Lachmann.
Montaggio: Jacob Craycroft. Scenografia: Dina Goldman.
Interpreti: Garrison Keillor (lui stesso), Kevin Kline (Guy Noir), Meryl Streep (Yolanda Johnson),
Lily Tomlin (Rhonda Johnson), Lindsay Lohan (Lola Johnson), Woody Harrelson (Dusty),
John C. Reilly (Lefty), Maya Rudolph (Molly), L.Q. Jones (Chuck Akers),
Tommy Lee Jones (Axeman).
Produzione: Prairie Home Productions. Distribuzione: Medusa.
Durata: 105’. Origine: Usa, 2006.
Il regista
Robert Altman era nato nel 1925 a Kansas City ed è morto il 20 novembre dell’anno scorso a Los Angeles. Non ce lo aspettavamo, ci sembrava che dovesse ancora per tanto tempo regalarci altri film, sempre corali, dedicati a una puntigliosa ricognizione di un’America che Altman sottoponeva ad analisi anche spietate, ma sempre attenti a ritrovare, come in questo Radio America, l’altra America che Altman amava. Aveva fatto l’accademia militare ed era laureato in ingegneria. Andò a Hollywood per fare l’attore e invece diventò uno dei massimi registi degli ultimi quarant’anni. Debutta nel lungometraggio nel 1957 con The Delinquents, seguito da un documentario, The James Dean Story. Poi arrivano Conto alla rovescia, Quel freddo giorno nel parco, quindi uno dei suoi maggiori successi, M.A.S.H. (1970), palma d’oro a Cannes. Tra gli altri titoli citiamo i più famosi: Anche gli uccelli uccidono, I compari, Il lungo addio, Gang, California Poker, il magnifico Nashville (1975), uno dei massimi risultati del cinema degli anni Settanta; poi negli Ottanta, tra gli altri, Jimmy Dean, Jimmy Dean, e nei Novanta I protagonisti e soprattutto America oggi (1993), fino ai più recenti La fortuna di Cookie, Il dottor T. e le donne, Gosford Park e questo Radio America che è il suo film di addio. Sono tantissimi i film di Altman che abbiamo presentato al cineforum. Ci ha accompagnati per tutti i nostri più che quarant’anni di attività. Sono tante le sere in cui abbiamo proiettato un suo film e siamo usciti dal Sociale più consapevoli di come ci eravamo entrati.
La critica
Umorismo, malinconia, musica: com’è bravo Robert Altman a 81 anni, come sa condensare in film un intero mondo, stavolta il Midwest degli Stati Uniti, quella zona centrale e rurale del Paese che conserva ancora le tradizioni originarie. La storia di Radio America è singolare. «A Prarie Home Companion» è un programma radiofonico settimanale che Garrison Keillor scrive e conduce dal 1974, trasmesso in diretta dal Fitzgerald Theater di St. Paul su 558 frequenze radio in tutta l’America, seguìto da circa 4,3 milioni di ascoltatori americani. È un programma di musica country (ma anche folk, lirica, gospel, jazz), di sketches, satira bonaria, pubblicità locale (biscotti in scatola, confezioni di nastro adesivo), romanzo a puntate: più educato e antiquato delle trasmissione di Fiorello, ma nel genere. Garrison Keillor ha voluto farne un film, lo ha offerto ad Altman in ricordo di Nashville, il suo film del 1975 sul festival canoro della musica country and western nella capitale del Tennessee. Il regista ha accettato. Era necessario per il film un elemento drammaturgico forte: è stato l’idea che il programma fosse alla sua ultima puntata, nel teatro ormai venduto e destinato a diventare un parcheggio, un addio al pubblico affezionato. Tutto lo spettacolo è uguale a sempre, e insieme assolutamente diverso. La fine imminente ispira ricordi buffi o amari, nostalgie, vecchie canzoni, chiacchiere, dolcezza. Si succedono sul palcoscenico i personaggi tipici: le mature sorelle cantanti, che all’inizio erano un quartetto famigliare e stanno per diventare un trio con l’inserimento della figlia di Meryl Streep e nipote di Lily Tomlin; la nera grassa dalla voce di velluto; i due mandriani con le loro canzoni sboccate e la chitarra; il conduttore Keillor, bravissimo: i musicisti dell’orchestra, infaticabili. Fuori del palcoscenico, si aggirano l’addetto alla sicurezza Kevin Kline, copia vivente di un elegante investigatore coi baffetti protagonista dei romanzi di Raymond Chandler; e una bionda Virginia Madsen in impermeabile bianco, carica di mistero e bontà, che è un fantasma e anche un angelo benefattore. Gli attori sono straordinari: Meryl Streep sembra non aver mai fatto altro in tutta la vita. Il film perfetto, nella sua dolce tristezza, pare alludere alla fine di un’esistenza e insieme alla fine d’una cultura ormai fuori del tempo: è molto commovente, e la abbondante musica gli dà vitalità. Né Altman né Keillor, però, hanno voluto dare al film un segno di fine: da quel momento in poi, decidono gli interpreti, ogni spettacolo verrà presentato come l’ultimo spettacolo.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 2 giugno 2006
«Ogni spettacolo l’ultimo spettacolo: questa è la mia filosofia». Così ai suoi compagni d’avventura radiofonica dice GK (Garrison Keillor, nella parte di se stesso), in una delle prime sequenze di Radio America. E forse intende che niente di quello che si mette in scena è ripetibile. Per quanto, giorno dopo giorno, tornino le stesse canzoni e le stesse battute, ogni volta si tratta di canzoni e di battute “assolute”, che nascono e muoiono oggi, nel tempo breve d’una rappresentazione. Domani ne nasceranno e ne moriranno altre, forse simili. Ma non saranno le stesse. Quando così non è, quando uno spettacolo ne vale un altro, allora accade che non valga molto. Anche il grande Robert Altman — nato a Kansas City il 25 febbraio del 1925 — gira i suoi film come se ognuno fosse l’ultimo, irripetibile e definitivo. Non lo fa solo a 80 anni. Definitivi e irripetibili sono stati I compari (1971), II lungo addio (1973), Nashville (1975), e poi I protagonisti (1992), America oggi (1993), Kansas City (1996), Gosford Park (2001). E lo sono stati gli altri, riusciti o non riusciti. Per questo è tra gli autori più grandi, e per questo può girare Radio America come se fosse ancora una volta il suo ultimo, magnifico film. Per farci entrare nel gioco di GK e dei suoi compagni, la regia e la sceneggiatura — dello stesso Keillor e di Ken LaZebnik — si affidano alla memoria dolce d’un cinema che non c’è più. Guy Noir (Kevin Klein) viene dagli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso, dai polizieschi colmi d’ombre e di malinconia. II suo modello è Philip Marlowe. Ma subito l’ironia e l’affetto degli autori lo trasformano, lo fanno tenero e fragile (e narcisista) come può esserlo un sopravvissuto. D’altra parte, il poliziotto privato creato da Raymond Chandler era straniero in patria già 60 anni fa, e solo la letteratura e il cinema gli davano asilo. Oggi, addirittura, deve contendere il diritto di cittadinanza all’axeman (Tommy Lee Jones), all’uomo-scure, al tagliatore di rami secchi salito dal Texas nel Minnesota per chiudere il Fitzgerald Theater, e per farne un parcheggio. Non ha alcun senso dello spettacolo, l’axeman. Ha smesso d’averlo quando è “rinato” alla fede, e alla serietà terribile dei dividendi. Finirà come si merita. Ci penserà Guy a rispedirlo lontano da ogni spettacolo e da ogni tentazione. Lo farà anche in nome di F. Scott Fitzgerald, la cui testa in bronzo veglia sul teatro. Ma altri tagliatori saliranno dal Texas, e nessun Marlowe redivivo potrà fermarli. Insomma, la morte incombe sulla trasmissione di GK. D’altra parte, che cosa promette di rendere ultima qualsiasi cosa si stia facendo, se non la morte? Ed essa s’aggira infatti tra i camerini e il palcoscenico, bionda e bianca morbida come un angelo di carne (Virginia Madsen). Se non la protagonista dello spettacolo, ne è almeno in parte l’autrice. Un po’ se ne prende cura, eliminando l’axeman, Un po’ ne riscrive il canovaccio, chiudendo gli occhi a Chuck (L.Q. Jones). Quando se ne va, il vecchio cantastorie lo fa mettendo in scena la sua ennesima ultima rappresentazione, tra ombre e luci di candela, in attesa d’un incontro d’amore. E gli altri? Gli altri piangono, ma continuano a fare quel che devono, dal momento che si tratta appunto dell’ultimo spettacolo: mettono in scena, cantano, improvvisano. Su tutti veglia Loretta (Maya Rudolph), la direttrice di scena. Per lei, ogni momento dello spettacolo è assoluto, irripetibile anche in senso stretto. Basta un piccolo sbaglio, per ucciderlo. La macchina radiofonica (o teatrale, o cinematografica) è complessa e laboriosa, ma quando funziona produce leggerezza e gioco. Ben lo sa Altman, che in The Company (2003) ce lo ha mostrato nella lievità della danza, e nella sua fatica. Tutto danza, appunto, in Radio America. Danza anche l’improvvisazione. Che cosa c’è di più irripetibile? E tuttavia, che cosa c’è di più "preparata"? Sono gli anni di mestiere e di fatica che consentono a Yolanda e Ronda Johnson (Meryl Sheep e Lily Tomlin) di inseguire un canovaccio che il caso ha interrotto e disperso, e di trasformare la necessità in gioco, insieme con i musicisti, il rumorista, GK e tutti quelli che stanno sul palco. Che cosa accadrà poi, dopo l’ultimo spettacolo? Ne verrà un altro. Oppure, entrando dalla porta di un bar, arriverà la signora della morte. Seduti insieme a progettare un futuro ancora di gioco e messa in scena, troverà magari GK, Yolanda, Ronda e Guy, sempre svagato e preso di sé. Li guarderà, bianca e morbida. Allora, nel silenzio improvviso, ognuno si domanderà chi. Ma non sarà troppo triste, né difficile. Non lo sarà più di un ultimo spettacolo.
Roberto Escobar, Il Sole – 24 Ore, 11 giugno 2006
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