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Scheda pdf (179 KB)
L'ignoto spazio profondo - Scheda del film

 

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA


quarantatreesima stagione

in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 19 aprile 2007 – scheda n. 25 (728)

 

 

L’ignoto spazio profondo

 

 

Titolo originale: The Wild Blue Yonder

Regia e sceneggiatura:Werner Herzog

Fotografia: Tania Koop, Henry Kaiser, Klaus Scheurich. Montaggio: Joe Bini.

Musica: Ernst Reijseger, Mora Sylla, Tenore e Cuncordu de Orosei.

Interpreti: Brad Dourif l’alieno; gli astronauti dello Space Shuttle STS-43:

capitano comandante Donald Williams, Ellen Baker fisico, Franklin Chang-Diaz fisico del plasma,

Shannon Lucid biochimico, Michael McCulley pilota; i matematici della NASA: Roger Diehl,

Ted Sweetser, Martin Lo.

Produzione: Werner Herzog Filmproduktion. Distribuzione: Fandango.

Durata: 81’. Origine: Francia, Germania, Gran Bretagna, Usa, Italia, 2006.

 

Il regista

 

Ecco, dopo Bellocchio (e prima dello scandalosissimo Tsai Ming Liang!), un altro nome dell’Olimpo cinematografico. Werner Herzog (vero cognome: Stipetic) è nato nel 1942, a Monaco di Baviera. Grande talento visionario, eccentrico, inquieto. Scrittore, poeta, regista di opere liriche, appassionato viaggiatore. Affascinato da tutto ciò che può darci un’idea di cosa sia la natura delle cose, del mondo e dell’uomo. Pronto a imprese difficili e a sfide pericolose pur di cogliere un attimo in cui la natura si rivela e ci stupisce. Herzog è sulla breccia da una quarantina d’anni (e moltissimi suoi film sono disponibili in belle edizioni in dvd, anche con film mai usciti in Italia). Ha cominciato negli anni ‘60 con dei corti e con il film Segni di vita (1967). Poi sono venuti il desertico Fata morgana (1970), Il paese del silenzio e dell’oscurità sulle persone sorde e cieche, Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1969), l’amazzonico Aguirre il furore di Dio (1972), La Soufrière su una mancata eruzione nell’isola della Guadalupa, il celeste La grande estasi dell’intagliatore Steiner (1974), L’enigma di Kaspar Hauser (1974), il vampiresco Nosferatu (1978), il folle e ancora amazzonico Fitzcarraldo (1979), l’himalayano L’oscuro bagliore delle montagne (1985), l’aborigeno Dove sognano le formiche verdi (1985), il guerresco Apocalisse nel deserto girato in Kuwait dopo la prima guerra del Golfo, l’avventuroso Cobra Verde (1990), il patagonico Grido di pietra (1991). Fino agli ultimi, meravigliosi lavori, sospesi tra documentarismo e partecipazione: L’ignoto spazio profondo, Il diamante bianco, su un uomo che sorvola la foresta venezuelana con un aerostato, e Grizzly Man, con un uomo che vorrebbe diventare amico degli orsi dell’Alaska (e mal gliene incoglie). Werner Herzog regista umano e profondo.

 

La critica

 

C’è una colpa all’origine della storia umana, dice il narratore alieno (Brad Dourif) di L’ignoto spazio profondo. Sullo schermo sono già comparse le immagini del “folle volo” che un equipaggio spaziale — nella realtà, gli astronauti della missione Galileo — tenta al di là dei confini del sistema solare. Già la loro navicella ha iniziato, a ritroso, il viaggio compiuto dall’alieno, in fuga da Andromeda fin sul nostro pianeta. E ora, condensando in un racconto di pochi secondi il cammino degli esseri umani sulla Terra, lo stesso alieno ci porta dalle nostre origini arcaiche fino al XX e al XXI secolo, con le loro molte “follie”. Tutto, sostiene attraverso di lui Werner Herzog, inizia decine di migliaia d’anni fa, quando i nostri antenati addomesticarono i maiali. Allora, da nomadi e da cacciatori che erano, si fecero sedentari, e smisero di percorrere i grandi spazi aperti. Ogni nostro male, dunque, viene da quel tempo lontano. Si può sorridere di questa filosofia della storia un po’ troppo spiccia. Ma basta andare con la mente ai grandi film di Herzog, da Aguirre, furore di Dio (1972) a Nosferatu, principe della notte (1978) e a Cobra verde (1987), per avvertire quanto vicina alla sua poetica sia quella colpa ipotetica. Tutti i suoi personaggi, e anzi tutti i suoi film sono “in viaggio”. Per lui, in fondo, girare significa sfidare chiusure, vincere confini, immaginare mondi. Il suo modello è il protagonista di Fitzcarraldo (1982), che porta la sua nave da una parte all’altra di una montagna, allo scopo di costruire un teatro dove canterà Enrico Caruso. È un nomade, l’ormai sessantatreenne regista tedesco, ed è un cacciatore d’immagini, che sempre pretende di abitare altrove. Ai suoi occhi, i confini non sono limiti, ma soglie, e ogni stanzialità — del corpo e dell’immaginario — è in se stessa un male. Tuttavia, il peccato che sembra gravare su L’ignoto spazio profondo non è la stanzialità, ma il massimo del nomadismo umano. Quello che il narratore alieno ci rimprovera è appunto la nostra corsa verso le profondità dell’universo. Sarebbe, questa corsa, niente altro che l’effetto di una sorta di infezione, di una malattia che ci avrebbero trasmesso proprio gli alieni (in sceneggiatura, Herzog utilizza la storia e le immagini famose del caso di Rosswell). Egli stesso viene da Andromeda, appunto, e ben sa che là tutto sta gia morendo da gran tempo. Quanto al pianeta abitabile più vicino, ce ne separano 100mila anni luce. Non c’è più spazio e non ci sono più confini da oltrepassare, dunque. D’altra parte, questa catastrofe che la sceneggiatura prospetta nel futuro, e anzi già nel presente, è per Herzog ancora un’occasione per mettersi egli stesso in viaggio. Così, usa ed elabora filmati di repertorio, e li reinventa in funzione della sua nuova avventura cinematografica. E poi, una volta arrivato con il cinema ai confini del (nostro) mondo, si lascia tentare dalla sua antica curiosità di cacciatore, e si dirige con coraggio al di là di un intero universo di immagini. Usciti dalla loro navicella, gli uomini e le donne dell’equipaggio si trovano sotto il cielo di Andromeda: una sconfinata, grigia cupola di ghiaccio. E allora, attraverso un buco che la fora, vanno ancora oltre, immergendosi in un mare di elio liquido. L’effetto, per noi che stiamo in sala, è di un capovolgimento inatteso e radicale. Ora, infatti, gli astronauti scendono al di sopra del cielo, nelle profondità di quel mare (nella realtà, si tratta di riprese realizzate sotto la calotta artica). Ciò che sarebbe dovuto essere sopra, appunto, ci si rivela sotto, e ogni nostro orientamento viene negato, in un trionfo di bianchi e di grigi, e di colori che il controluce mescola e sublima. È il non mai visto prima quello che il cinema di Herzog tenta e rincorre. Non è sempre fortunata la sua avventura, proprio come non lo era quella narrata in Fitzcarraldo. Talvolta, le asperità del viaggio la appesantiscono e la frenano (in sala qualcuno ne soffre). Altre volte, invece, le immagini si trasfigurano e diventano una musica per gli occhi. Intanto, moltiplica l’emozione un commento sonoro colmo di canti e di lingue solenni e diverse (sardo e wolof, un idioma del Senegal). Quando, 800 anni dopo, gli astronauti tornano sulla Terra, la trovano disabitata. L’umanità l’ha abbandonata, e l’ha lasciata ritornare come all’inizio del tempo. La macchina da presa la osserva dall’alto, in volo. È grigia di vapore, nera di montagne, verde di alberi. Aperta e selvaggia, possente nella sua innocenza preistorica, è un luogo dove un nomade come Werner Herzog può vivere ancora, e immaginare altri mondi.

Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 4 dicembre 2005

 

Sotto i colpi dell’energia eolica, Werner Herzog tenta di rispondere a un paio di domande che da sempre ci assillano: chi siamo, da dove veniamo, con una variante ansiogena molto moderna: dove andremo. Ci accompagna nel viaggio verso l’ignoto, un alieno vero, l’attore Brad Dourif (finalmente ne abbiamo conferma: «Io vengo da un’altra galassia»), erede spirituale e somatico dell’attore feticcio del geniale autore tedesco, Klaus Kinski. Composto di dieci “brani”, il film comincia con un dolentissimo Requiem per un pianeta morente, prosegue con i padri fondatori alieni, con il riesame del mistero di Roswell, con missioni oltre i limiti di un’astronave che non può tornare sulla Terra (ormai inospitale) e la conseguente morte di sogni e utopie della colonia ideale («Nello spazio ci starebbe bene un enorme centro commerciale, gli uomini non riuscirebbero più a vivere in un habitat selvaggio» stigmatizza uno scienziato), attraverso tunnel del tempo che fanno passare i giorni e le notti con frettolosa eternità (i malcapitati partono; e quando tornano sono passati 800 e passa anni...). La vera storia del loro ritorno ha a che fare con il trasporto caotico («il caos conserva l’energia»), con sguardi lontani che consentono di percepire la Terra solo tramite immagini registrate, nuotando nell’elio liquido che pare un oceano di silenzio. «Un giorno - profetizza un matematico - gli esseri umani andranno sulla Terra solo per trascorrere le vacanze. Il nostro pianeta sarà un grande parco iperprotetto, mentre il lavoro si svolgerà su qualche stella o su qualche asteroide». In questa sua strabiliante odissea nello spazio, che entra nell’autostrada interplanetaria oltre le orbite copernicane (grazie alla “teoria delle stringhe”), Herzog accumula macerie di frame, sfrutta la voce off come Scorsese ma poi si concede al Cinema Muto, ai canti sardi, alle sonate di Haëndel, ruba pezzi di pellicola antica (aerei e treni del primo 900) come avrebbe fatto Ed Wood, inframmezzandoli con lezioni in stile Consorzio Nettuno: più che al cinema, pare di essere al planetario. Con sincera ironia ringrazia la Nasa per il suo “senso poetico” e ci lascia facendoci annegare tra scaglie di particelle, frammenti di ex vita per un ignoto che non possiamo (ancora) cogliere.

Aldo Fittante, Film Tv, 13 dicembre 2005

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