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Giovedì 26 ottobre 2017 – Scheda n. 3 (1005)
La mia vita da Zucchina
Titolo originale: Ma vie de courgette
Regia: Claude Barras
Soggetto: dal libro “Autobiografia di una zucchina”
di Gilles Paris (ed. Piemme).
Sceneggiatura: Céline Sciamma, Germano Zullo,
Claude Barras, Morgan Navarro.
Fotografia: David Toutevoix. Musica: Sophie Hunger.
Interpreti: personaggi animati.
Produzione: Rita Productions, Blue Spirit Productions.
Distribuzione: Teodora.
Origine: Svizzera, Francia 2016. Durata: 66’.
Claude Barras
Nato nel 1973 a Sierre, in Svizzera, Claude Barras studia illustrazione e computer graphics all’ECAL (École Cantonale d’Art de Lausanne), scuola che produce anche i suoi primi lavori. Il cortometraggio in stop-motion (cioè girato certosinamente fotogramma per fotogramma come i tradizionali cartoni animati o i film a pupazzi animati) The Genie in a Ravioli Can ottiene un grande successo nei festival di tutto il mondo. Barras diventa un autore di punta nel regno dell’animazione. Dopo altri corti, Barras realizza il primo lungometraggio, La mia vita da Zucchina, accolto entusiasticamente ai festival di Cannes, Annecy, San Sebastián, Melbourne, Londra... Importante per il film è stata la sceneggiatura di Céline Sciamma, brava regista francese, parigina, autrice di Naissance des pieuvres (2007), premiato a Cannes come migliore opera prima, del corto Pauline (2009), di Tomboy (2011), premiato al festival di Berlino, e di Diamante nero (2014).
Sentiamo il regista: «La mia vita da Zucchina è un film d’animazione a passo uno (in inglese stop-motion o frame by frame), una tecnica simile a quella dell’animazione tradizionale, in cui però i disegni sono sostituiti da pupazzi, filmati fotogramma per fotogramma. Tra un fotogramma e l’altro i pupazzi vengono riposizionati per dare l’illusione del movimento: poiché i pupazzi in questione restano immobili quando vengono filmati, la raffinatezza dei gesti, la fluidità dei movimenti, le sottigliezze espressive sono determinati dalla qualità dell’animazione e degli animatori. Per La mia vita da Zucchina sono stati usati pupazzi alti circa 25 cm, costruiti artigianalmente combinando materiali diversi (schiuma di lattice per i capelli, silicone per le braccia, resina per il viso, tessuti per i vestiti) avvolti intorno uno scheletro articolabile adattato alla morfologia di ogni personaggio. I pupazzi vengono quindi collocati in un set realizzato in scala e illuminati dal direttore della fotografia, prima dell’intervento degli animatori...
Con il libro di Gilles Paris, un racconto di formazione tenero e poetico, è stato amore a prima vista. La vicenda e il modo in cui è raccontata mi hanno riportato alla mia infanzia e ricordato le mie prime emozioni da spettatore, grazie a film come I 400 colpi o Bambi e a serie animate come Remi, Belle e Sébastien o Heidi. Con La mia vita da Zucchina ho voluto condividere con il pubblico di oggi quelle emozioni, meravigliose e formative, ma soprattutto rendere omaggio a quei bambini, trascurati e maltrattati, che fanno del loro meglio per andare avanti e convivere con le loro ferite. Zucchina, il nostro eroe, ha attraversato molte difficoltà e, dopo aver perso la madre, crede di essere solo al mondo. Ma non ha tenuto conto delle persone che incontrerà nella casa famiglia e di quello che gli riserva il futuro: un gruppo di amici su cui fare affidamento, la possibilità di innamorarsi e magari un giorno essere felice. Egli ha ancora molte cose da imparare dalla vita. È questo il messaggio, al tempo stesso semplice e profondo, che mi sembrava vitale da trasmettere ai nostri bambini, e il desiderio di condividerlo mi ha guidato durante tutta la lavorazione del film...
Volevo che La mia vita da Zucchina fosse un film capace di intrattenere, che facesse ridere e piangere, ma che soprattutto fosse un film saldamente ancorato al presente, che raccontasse la forza di un gruppo di amici nel superare le difficoltà della vita, grazie all’empatia, alla solidarietà, alla condivisione e alla tolleranza. Nel cinema di ieri e oggi gli orfanotrofi sono spesso descritti come luoghi opprimenti, mentre il mondo al di fuori è sinonimo di libertà. Nel mio film accade il contrario: i problemi vengono dal mondo esterno e la casa famiglia è un posto di riconciliazione e ricostruzione. Questo è ciò che rende questa storia insieme classica e moderna...
Un grande disegnatore come Hergé, il creatore di Tintin, sosteneva che più la grafica di un viso è semplice, più il pubblico può proiettarvi le proprie emozioni e identificarsi con il personaggio. Sono pienamente d’accordo con lui ed è quanto io stesso provo a mettere in pratica con l’animazione a passo uno dei pupazzi, senza l’ambizione di riprodurre fedelmente la realtà ma provando a darne agli spettatori una visione rielaborata. Combinando delle voci realistiche e naturali con dei personaggi dall’estetica altamente stilizzata, ho anche tentato di conservare nel film lo stile di scrittura di Gilles Paris. Ma la chiave per entrare in questo universo restano gli occhi dei personaggi. I loro occhi enormi, spalancati sul mondo, danno un contributo essenziale all’empatia e alle emozioni...
Costruito su un approccio più esplicito verso alcune situazioni, il libro di Gilles Paris è diretto a dei ragazzi più grandi, mentre io volevo che il film includesse nel suo pubblico anche i bambini piccoli. Sono stati i miei produttori a propormi di lavorare alla sceneggiatura con Céline Sciamma e ne sono stato entusiasta da subito. Avevo visto il suo film Tomboy pochi mesi prima e l’avevo adorato. Abbiamo iniziato a vederci regolarmente per scambiarci delle idee e molto presto Céline ha capito come dare al copione una struttura solida e classica, con il giusto equilibrio tra umorismo e emozione, avventura e realismo. Il successo del suo lavoro è dovuto anche al modo molto delicato di gestire i personaggi, ad esempio rievocandone le drammatiche esperienze del passato solo alla luce dell’amicizia che lega tutti nel presente...».
La critica
Il suo nome è Icare ma vuole essere chiamato come faceva sua mamma: Zucchina. Ha nove anni, una gran testa rotonda, due occhi altrettanto tondi e grandi e i capelli blu. Al poliziotto che lo interroga, risponde che la madre beveva molto ma faceva anche un purè molto buono e che il papà non c’è ma l’ha disegnato sull’aquilone con la sua gallina, perché - aggiunge - ‘la mamma diceva che aveva un debole per le pollastre’. Prima di questa scena, straziante nella sua trattenuta comicità, abbiamo visto Zucchina - animato con la tecnica del passo uno - giocare in soffitta col suo aquilone, raccogliere le lattine di birra abbandonate dalla mamma e costruire una specie di torre, la cui rumorosa caduta fa irritare la madre e salire traballando le scale che portano al rifugio di Zucchina. L’improvvisa chiusura della botola per proteggersi dai suoi rimproveri e il silenzio che segue fa intuire quello che il poliziotto Raymond dovrà spiegare al ragazzo: adesso è solo e sarà accompagnato dove troverà altri bambini come lui, senza genitori. Con un’essenzialità tanto efficace quanto coinvolgente, “La mia vita da Zucchina” ha bisogno solo di pochi minuti (fino all’incontro con il poliziotto ne son passati 7) per trasportare lo spettatore in quel misto di malinconia e delicata comicità che è la chiave per entrare in questo capolavoro di animazione e di poesia dedicato all’infanzia e ai suoi temi più dolorosi. All’origine c’è il libro omonimo di Gilles Paris da poco tradotto in italiano da Piemme ma uscito in Francia nel 2002 come ‘Autobiographie d’une courgette’ (e già diventato film con attori in carne e ossa nel 2007: “C’est mieux la vie quand on est grand”, di Luc Beraud). Nel 2008 lo svizzero Claude Barras, disegnatore di fumetti poi passato all’animazione ma fino ad allora autore solo di alcuni corti, ottiene nuovamente i diritti per una versione animata, ma è solo grazie all’incontro con Céline Sciamma che il progetto si concretizza davvero. Alla regista francese, che aveva già dimostrato la sua sensibilità verso l’infanzia con “Tomboy”, Barras affida la sceneggiatura: è sua l’idea di trasformare la perdita della madre in un involontario incidente (nel romanzo succedeva per un colpo di pistola) ma soprattutto è lei a scegliere l’economia di mezzi e di parole che danno al film quel suo procedere con attenzione e delicatezza insieme, in un mondo non certo accomodante o edulcorato (i bambini che Zucchina troverà nella casa famiglia hanno ognuno alle spalle storie tragiche e drammatiche: genitori drogati, madri rimpatriate a forza, padri pedofili o ladri o assassini). Il resto lo fa il fascino dell’animazione a passo uno con i personaggi di plastilina che devono essere mossi a ogni fotogramma: otto mesi di riprese per realizzare in media quattro secondi di film al giorno (utilizzando 62 scenografie e 53 marionette, di cui ben 9 solo per Zucchina), seguiti da sei mesi di postproduzione. Il risultato è un film emozionante e bellissimo, dove anche i temi più duri vengono trattati con sensibilità e pudore, ma soprattutto mai con ipocrisia o superficialità (il che sconsiglia la visione ai piccolissimi). Una messa in scena molto controllata, con pochi movimenti di macchina e una durata media delle scene piuttosto lunga, oltre a quegli occhioni commoventi, innesca l’empatia e permette al film di affrontare temi anche urticanti senza cadere mai nel facile conformismo. Le brutture esistono al mondo e sarebbe sbagliato chiudere gli occhi: Barras sa però evitare il sensazionalismo o, peggio, il voyeurismo, perché su tutto il film, che affronterà anche la nascita del sentimento dell’amore (negli adulti tra il maestro di scuola e l’assistente; nei ragazzi tra Zucchina e l’ultima arrivata Camille), si stende un’atmosfera che si può definire ‘dickensiana’, di testarda fiducia nella possibilità di risolvere i problemi e di rinfrancante ottimismo sull’esistenza della bontà. Come appunto dimostra chi gestisce la casa-famiglia (tenerissima la scena in cui l’assistente distribuisce il ‘bacio della buonanotte’ ai piccoli) o il burbero poliziotto Raymond, anche lui segnato da una paternità difficile ma infine capace di restituire fiducia nella vita di Zucchina e della sua nuova amica.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 29 novembre 2016
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