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Scheda del film (220 Kb)
La battaglia di Hacksaw Ridge - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 9 novembre 2017 – Scheda n. 5 (1007)

 

 

 

 

 

La battaglia di Hacksaw Ridge

 

 

 

Titolo originale: Hacksaw Ridge

 

Regia: Mel Gibson

 

Sceneggiatura: Andrew Knight, Robert Schenkkan. Fotografia: Simon Duggan.

Musica: Rupert Gregson-Williams.

 

Interpreti: Andrew Garfield (Desmond T. Doss),

Teresa Palmer (Dorothy Schutte), Hugo Weaving (Tom Doss).

 

Produzione: Hacksaw Ridge Production. Distribuzione: Eagles Pictures.

Durata: 131’. Origine: Usa, 2016.

 

 

Mel Gibson

 

 

Nato nel 1956 a Peekskill, stato di New York, famiglia di origini irlandesi, Mel Gibson ha poi vissuto in Australia, ha frequentato l’Accademia di teatro di Sidney e ha cominciato a lavorare in tv. Nel 1979 George Miller lo vuole protagonista di Interceptor. Il successo porta a due sequel, Interceptor – Il guerriero della strada (1981) e Mad Max oltre la sfera del tuono (1985). Arriva la serie di film di Arma letale. Esordisce come regista con L’uomo senza volto (1993), quindi gira il film che gli dà un Oscar, Braveheart, sul patriota scozzese William Wallace. La passione di Cristo (2004) è girato a Matera, in aramaico. Del 2006 è Apocalypto, sui Maia, parlato nella loro lingua. Infine ecco La battaglia di Hacksaw Ridge, presentato a Venezia nel 2016. Personaggio focoso, Gibson è regista molto discusso. Questo suo ultimo film ha suscitato, come al solito, molte polemiche e discussioni.

Sentiamo Gibson: «Quando ho sentito la storia di Desmond Doss, il primo obiettore di coscienza a ricevere la Medaglia d’Onore degli Stati Uniti, sono rimasto stupito dalla portata del suo sacrificio. Era un uomo che, nel modo più puro, disinteressato, e quasi inconsapevole, aveva più volte rischiato la propria vita per salvare la vita dei suoi fratelli. Desmond era un uomo del tutto ordinario che ha fatto cose straordinarie. Quando è scoppiata la seconda guerra mondiale e i giovani sono corsi ad arruolarsi, Desmond ha dovuto affrontare una situazione difficile: era ansioso di servire la patria, come qualsiasi uomo, ma la violenza andava in conflitto con le sue convinzioni religiose e morali. Si è categoricamente rifiutato di toccare una sola arma. Desmond ha subito una persecuzione intensa per il suo rifiuto ad abbandonare la sua convinzione, si è lanciato nell’inferno della guerra armata con nient’altro che la sua fede, ed è emerso come uno dei più grandi eroi di guerra di tutti i tempi. Desmond Doss era singolare. Ce ne sono pochi, se non nessuno, che potrebbero o vorrebbero replicare le sue azioni. L’umiltà che ha mantenuto nell’affrontare il suo eroismo è un testamento al coraggio di un uomo. In realtà, a Desmond è stato chiesto per anni il permesso di adattare la sua storia in un film, e lui ha ripetutamente rifiutato, insistendo sul fatto che i “veri eroi” erano quelli sul campo. In un panorama cinematografico invaso da immaginari “supereroi”, ho pensato che fosse il momento di celebrarne uno vero».

 

 

La critica

 

 

Il fondamentalismo biblico ha dalla sua un immaginario che raramente incontra il cinema: ma quando succede l’esito è, per rimanere in argomento, manna caduta dal cielo. Sullo schermo piomba una visionarietà cruenta e crudele, estrema e allucinata, la stessa che Mel Gibson aveva avuto già modo di sperimentare nel controverso La passione di Cristo e che ora, in La battaglia di Hacksaw Ridge, viene declinata al genere bellico. Ricostruendo una storia di eroismo che ha per teatro la seconda guerra mondiale, il regista filma le trincee e i combattimenti sul fronte giapponese con l’impeto visivo di un predicatore, facendo di Okinawa un inferno in terra, un’odissea di sangue, dolore e fango quale raramente si è vista al cinema, che pure con quel conflitto ha da sempre una certa dimestichezza. Vista dal pulpito di Gibson, la guerra è un affresco di spaventosa eloquenza visiva, capace da sola di portare – al netto di ogni chiacchiericcio umanista – sul fronte del pacifismo chiunque abbia idee confuse al riguardo. Il tutto viene poi rinforzato da una vicenda, realmente accaduta, di eroismo anomalo, quella di un soldato americano che, forte delle proprie convinzioni religiose, si rifiuta di imbracciare e utilizzare armi, non volendo però nello stesso tempo rinunciare ad arruolarsi e fare la sua parte, come infermiere. Come già in un ottimo film di guerra uscito da un paio di anni, Fury, la parabola dell’eroismo prevede stadi preliminari di mortificazione (nella fase dell’addestramento) e successivi di riscatto e glorificazione, quando, durante la battaglia, il protagonista forgia il proprio eroismo prodigandosi per curare e salvare i commilitoni. Nel momento preciso in cui l’epica americana dell’uomo qualunque che si fa eccezionale incontra l’immaginario granguignolesco di Gibson, La battaglia di Hacksaw Ridge smette di essere un film qualunque e diventa un film eccezionale. E anche, al contempo, un film il cui retroterra ideologico merita qualche riflessione. Perché Gibson dagli archivi della seconda guerra mondiale ha riesumato una vicenda di fondamentalismo religioso umanitario, la storia di un uomo che ascoltando il suo Dio si prodiga a favore della vita e non della morte, per salvare vite umane e non per uccidere. Mossa ideologica che vuole evidentemente tracciare una distanza con altri fondamentalismi, com’è peraltro lecito attendersi da un cineasta tutt’altro che progressista. E che finisce però anche per rimescolare le carte del dibattito fra interventismo e pacifismo, descrivendo un personaggio che va in trincea mosso dal desiderio di arginare i danni inflitti della guerra all’uomo, non di contribuirvi. Un medico senza frontiere ante litteram, verrebbe da definirlo; o piuttosto, un uomo di pace che non osteggia la guerra ma la abita, addirittura la rincorre, quasi fosse quello il suo destino.

LLeonardo Gandini, cineforum.it, 2 febbraio 2017

 

La fede religiosa e la violenza umana, una virtù teologale e una degenerazione comportamentale, hanno il loro inferno e il loro paradiso nel medesimo terreno di incontro-scontro. La guerra. E c’è chi tra l’una e l’altra non accetta compromessi scegliendo, nel segno di una devozione totale, l’obiezione di coscienza. Mai impugnare un’arma. Tu non ucciderai, come impone il comandamento divino. Nella prima macelleria mondiale il sergente York, catecumeno dell’Unione Cristiana, dopo lunga macerazione accettò di spianare il moschetto come quando andava a caccia di tacchini per obbedire ad un imperativo morale da Bene contro il Male e diventò un eroe decorato. Nella seconda carneficina planetaria, entrò in entrambe le dimensioni, l’abiura del futile e la Medaglia d’Onore (la decorazione americana più alta per chi indossi una divisa), anche Desmond Doss, ma senza venire a patti con le proprie convinzioni da Avventista del Settimo Giorno, prodigandosi, invece, come assistente medico sul campo nell’eccidio di Okinawa. Pur senza sparare un colpo salvò la vita di 75 suoi compagni feriti, da solo, di giorno e di notte, in cima alla scogliera di Hacksaw Ridge. Due storie vere: il calvario intimo e le imprese di Alvin York, sono già state raccontate da Howard Hawks nel film folgorato dalla presenza di Gary Cooper; l’ostinazione e il coraggio di Doss li ha trascinati davanti alla macchina da presa Mel Gibson in La battaglia di Hacksaw Ridge, con la faccia, l’aria e l’innocenza spiazzante quasi alla Forrest Gump di un Andrew Garfield toccato dalla grazia interpretativa. Tre tempi: l’infanzia, il padre alcolista e manesco dopo l’esperienza nelle trincee francesi, l’amore per la bella infermiera che sposerà; l’arruolamento volontario come obbligo etico dopo Pearl Harbour e i guai con l’esercito (superiori e commilitoni) per i suoi aneliti pacifisti; l’opera da samaritano miracolista nell’isola del Pacifico quando nel maggio del 1945 tra statunitensi e giapponesi si innescò una resa dei conti da tragedia e tregenda. Mel Gibson regista conosce la classicità, ma la rilegge alla luce della sua vocazione ad un realismo sanguinario (montaggio, frenesia, panoramiche e carrellate virtuosistiche, angoscianti primi piani) che potrebbe, proprio come Doss accusato falsamente di codardia, essere scambiata per un compiacimento a mostrare l’orrore per l’orrore. Ma alla stregua di Doss, Gibson non è quello che appare ad una lettura superficiale: la sua messa in scena lancia lo sguardo nella profondità assurda dello stragismo della guerra. La lunga prevalenza del combattimento ha toni così selvaggi, tra tempo reale e rallentato, da rendere ‘innocuo’ l’incipit sullo sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan in fatto di corpi dilaniati e bruciati, budella sparse, topi che divorano cadaveri, ufficiali del Sol Levante che decapitano e si fanno tagliare la testa per pagare la sconfitta. Il ritmo ad alto profitto figurativo e senza un attimo di tregua impedisce che gli stereotipi del genere siano resi secondo consuetudini logore dove si risparmia l’inquadratura da choc a favore di un pudore più riflessivo. Nel suo calcolato eccesso d’arrembaggio alle modalità della battaglia, Gibson non rinnega il proprio stile, la propria tendenza a mettere a confronto il sacrificio e la pugna, la religione e il coraggio nel nome, comunque, della vita, anche se comporta un dialogo aperto con la morte. Epica e Bibbia si condensano in episodi che rimandano tanto a Caino e Abele (Desmond ragazzino che colpisce con una pietra il capo del fratello) quando ai rituali dei guerrieri omerici (i lavacri) in un’apocalisse che travolge e stravolge parametri, codici, giudizi e pregiudizi. Un processo di mutazione e di ascesa che il suo protagonista affronta con la corazza dei suoi valori, l’unica cosa alla quale non vuol rinunciare. Come York, Desmond Doss non è affatto un monumento al bellicismo e al credo guerrafondaio, ma un salmo esplosivo alla potenza dello spirito come essenziale mitologia di un’esperienza esistenziale che tocca, in qualsiasi senso, i suoi estremi. E proprio le sequenze più terrificanti testimoniano di un Gibson autore i cui furori sono magistralmente resi dall’evidenza radicale del martirio.

NNatalino Bruzzone, Il Secolo XIX, 30 gennaio 2017

 

 

 

 

 

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Un bambino efebico. Rapporti psicologici distorti. Un affascinante microcosmo di umori. Una regia mai banale.

Durata: 113’.

 

 

Giovedì 16 novembre, ore 21

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