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Scheda del film (241 Kb)
Elle - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 8 marzo 2018 – Scheda n. 20 (1022)

 

 

 

 

 

Elle

 

 

 

Titolo originale: Elle

 

Regia: Paul Verhoeven

 

Sceneggiatura: David Birke, dal romanzo “Oh…” di Philippe Djian

Fotografia: Stéphane Fontaine

 

Interpreti: Isabelle Huppert (Michelle), Laurent Lafitte (Patrick),

Anne Consigny (Anna), Charles Berling (Richard),

Virginie Efira Rebecca)

 

 

Produzione: SBS Productions. Distribuzione: Lucky Red

Durata: 130’. Origine: Francia, 2016.

 

 

 

Paul Verhoeven

 

 

Nato a Amsterdam nel 1938, Verhoeven è uno dei rari registi olandesi e il più unico che raro regista olandese che sia riuscito a imporsi a Hollywood con film di grosso impatto commerciale, sempre segnati da una sua personale marca d’autore che ha come tema costante la commistione tra sessualità e violenza. Nel 2006 ha vinto il premio come miglior film internazionale per Black Book alla Mostra di Venezia e nel 2017 ha vinto il Golden Globe per il miglior film straniero con questo Elle. Padre preside, madre cappellaia, cresce all’Aia, in una casa vicina a una base nazista, casa bombardata dagli alleati durante la guerra. Studia matematica e fisica a Leida, comincia a girare cortometraggi, passa alla tv, nel 1969, con la serie Floris con un giovane Rutger Hauer. Debutta al cinema con la commedia Gli strani amori di quelle signore. Del 1973 è Fiore di carne, successo finanziario e nomination agli Oscar come miglior film straniero. Del 1975 è il drammatico Keetje Tippel. Terzo film: Soldato d’Orange (1977). Spetters (1980) è il primo film scandalo della carriera del regista, grande successo in America tanto da spingere il regista a trasferirsi negli Usa. Del 1983 è Il quarto uomo, dai forti contenuti sessuali. Poi tocca a L’amore e il sangue (1985) e nel 1987 arriva uno dei suoi film più noti, RoboCop, storia di un robot-poliziotto ambientata in un futuro distopico. Quindi c’è Atto di forza (1990) con Arnold Schwarzenegger e Sharon Stone. Nel 1992 realizza il contestatissimo Basic Istinct con Michael Douglas e Sharon Stone, con famose scene di sesso e un incasso di 352,9 milioni di dollari. Nel 1996 Verhoeven capitombola su Showgirls, solo 20 milioni di dollari su un budget di 45 e ben otto Razzie Award, i premi ai film e ai registi peggiori dell’anno. Bello è il fantastico Starship Troopers - Fanteria dello spazio (1997). Dopo L’uomo senza ombra (2000), il regista abbandona Hollywood, torna in patria e realizza il sempre audace e scomodo Black Book (2006), sul passato bellico olandese. Verhoeven, dopo Steekspel e qualche anno di silenzio, riappare a Cannes con l’acclamatissimo Elle.

Sentiamo Verhoeven: «Il film viene dal romanzo, Oh… di Philippe Djian. L’idea era quella di girare Elle negli Stati Uniti. Ma dal punto di vista finanziario e anche artistico era complicato: nessuna attrice americana avrebbe accettato di recitare in un film così amorale. E Isabelle Huppert, incontrata nella fase iniziale del progetto, era pronta a girare il film... È una storia, non è vita vera, né una visione filosofica della donna. Questa particolare donna reagisce così. Non vuol dire che tutte le donne agirebbero nello stesso modo. Ma Michèle, lei sì! Il mio compito consisteva prima di tutto nel mettere in scena la sua storia nel modo più realistico, interessante e credibile possibile...

La regia non è mai didascalica. Bisognava evitare di essere espliciti. Tocca allo spettatore trovare una spiegazione a partire dagli elementi che gli vengono offerti. Volevo sfuggire a questa visione riduttiva del suo personaggio e del suo comportamento. Innanzi tutto c’è lei, Michèle, e la sua personalità nel complesso...

Quando Isabelle Huppert ha visto il film mi ha detto: «L’aspetto più interessante della vicenda è la continua ambiguità». Effettivamente il film è sempre ambiguo. È difficile capire completamente questa donna, ogni cosa fluttua, le trame si mescolano… Nonostante la violenza delle aggressioni, Michèle non appare mai sfatta, «devastata». Sarebbe stato scontato, saremmo piombati nel melodramma e nella noia. Sono un grande ammiratore di Stravinsky, il modo di comporre le sue sinfonie del tutto inusuale, di ribaltare le regole. Questa decisione artistica corrisponde anche al carattere di Michèle, al suo atteggiamento nei confronti degli accadimenti: lei usa l’ironia con una vivacità sorprendente. In tutti i miei film c’è della violenza ma mi sembra che sia normale, si tratta della violenza che esiste nel mondo, che compare sulle prime pagine dei giornali. E non solo sulle prime pagine: in tutte le pagine. C’è una scena che è emblematica delle emozioni contraddittorie che proviamo durante tutto il film: la confessione di Michèle fatta a Patrick sul crimine del padre. Ci sentiamo progressivamente inorriditi, divertiti, dubbiosi, commossi».

 

 

La critica

 

 

A un certo punto del film sento una frase detta da uno che passa di lì e poi nel film non si vede più. Una frase che viene giù da un capolavoro del cinema e che Verhoeven fa dire quasi di nascosto, in un angolino, così, come se niente fosse, e che mi fa sobbalzare. E da quel momento questo film già bello di suo mi diventa magnifico. La frase ve la dico tra un po’. All’inizio c’è un gatto grigio bellissimo, un certosino, razza felina tra le più antiche, sembra (Wikipedia) portato in Francia dall’Oriente dai cavalieri templari verso il 1100. La leggenda narra che un gruppo di crociati, di ritorno dalla Terra Santa e ospitati nelle certose, per sdebitarsi con i monaci, regalarono loro una coppia di gatti grigiobluastri, gran cacciatori di topi che rosicchiavano grano e manoscritti. All’inizio del film, il gatto e ‘elle’, cioè Michèle, cioè una fenomenale Isabelle Huppert, si guardano negli occhi: l’uno conosce i segreti dell’altra. Il gatto sa. Sa che lei viene regolarmente assalita picchiata posseduta, nella sua casa molto chic e borghese, da un uomo mascherato che entra all’improvviso nella stanza dalla porta finestra. E ogni volta Michèle cade tirandosi dietro la tovaglia con tazze bicchieri piatti vasi. E ogni volta Michèle si rialza senza scomporsi e riprende vita e lavoro, come se si fosse lasciata voluttuosamente violentare. Elle, lei è un’imprenditrice, dirige una bella squadra di ragazzoni che pensano disegnano creano videogiochi dove violenza sangue stupro sono di casa. Nell’animazione, una ragazza-Michèle viene penetrata in tutti i buchi da lunghissimi e sinuosi sessi tubolari di cui è ben fornito un essere uscito dalle menti prolifiche dei giovani inventori della factory.

Lei vive con intorno uomini da cui si fa prendere, che prende e che lascia, lascia e prende, prende e lascia. Le piacciono le perversioni, le piace essere di uno tutti nessuno. L’anarcoide Verhoeven descrive con voluttà e ironia una Francia dove tutti si incrociano si combinano si mettono in gioco in una due dieci parti. E qui bisogna tirar fuori quella piccola frase detta da uno che non ha nessun ruolo nel film e che ci consegna una chiave perfetta per aprirne le mille porte. Dice: “Tout le monde a ses raisons”. Tutti hanno le loro, buone o cattive, ragioni. Stessa identica frase che diceva il personaggio di Octave, Jean Renoir, al personaggio del marchese Robert de la Cheyniest (ma anche De la Chesnaye, pronunciare Scenè), Marcel Dalio, nella Règle du jeu dello stesso Renoir (1939), film che è un punto fermo nella storia del cinema: e che Verhoeven, una volta sentita la frase, scopriamo aver preso, chissà quanto espressamente, come punto di riferimento del suo Elle. Lei, Michèle, ha le sue buone ragioni, come tutti. Non si sa se ama uno e l’altro, come succedeva alla moglie del marchese Robert, Christine de la Cheyniest (ma anche De la Chesnaye, pronunciare: Scenè), Nora Gregor. Come Christine che amava tanti e nessuno, anche Michèle ama o perlomeno gioca con chi le arriva tra le mani, anche con chi le entra mascherato nella stanza. E se nella Règle du jeu, il marchese era un appassionato collezionista di automi meccanici, qui Michèle costruisce con i suoi sottoposti dei videogiochi con personaggi animati, automi digitali che passano da una penetrazione all’altra. Oggi la regola del gioco è, ancora, giocare ogni gioco, nella vita o alla playstation. Il videogioco è infinitamente ripetitivo tanto da sembrare fintamente mai uguale a se stesso pur essendo sempre uguale e sembrando sempre diverso. Verhoeven lavora su questa neoreligiosità della ripetitività e la mette a confronto con la religione, sfinita e immobile, di una volta. Uno dei tanti personaggi di Elle, tanti quanti quelli di Renoir, è una fervente cattolica che mette in scena un presepe con statue a misura d’uomo, immobili, superate, senza la mobilità sfrenata e attraente del videogioco.

Tornato alla regia dopo dieci anni, un ritorno che si capisce molto meditato e magistrale, Verhoeven guarda gli umani di oggi con la stessa voglia di ascoltarne le buone ragioni, così come aveva fatto Renoir (e vengono in mente altri nomi, Hitchcock e Chabrol). La beatrice che ci fa da guida è una Isabelle Huppert superlativa, audace e ironica (come usa il sopracciglio!). Senza vergogna: «La honte n’est pas un sentiment assez fort pour nous empêcher de faire quoi que ce soit». Capace di muoversi tra rigidezza e sottigliezza, consapevole e attiva ma anche laterale, piuttosto lontana da questo mondo che è caos e desiderio, sopraffazione e ipocrisia, frenesia e violenza (che lei conosce bene con il mostruoso padre uccisore seriale da fine pena mai). È anche madre di un figlio stupido e bianco che sposa una ragazza stupida e bianca che gli dà un figlio nero e lui non se ne accorge. Elle-Isabelle sta al centro dell’universo e viaggia da uno all’altro dei pianeti-uomo e dei pianeti-donna. Gatta osservatrice, pronta a ingoiarsi i topi, supereroina più di ogni supereroe. Elle è La Règle du jeu di oggi. La regola del gioco di oggi, come quella di una volta, è che si può giocare, se lo si sa fare, ogni gioco: ben sapendo però, oggi (lo dice l’ultimissima immagine come lo dicevano le ultime scene di Renoir), che lo stiamo giocando in un cimitero.

BBruno Fornara, su facebok, dal festival di Cannes, maggio 2016

 

 

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Lady Macbeth

 

di William Oldroyd

 

 

Un film in cui la rarefazione e il controllo dell’immagine sembrano voler imprigionare la passione e il dramma che i personaggi vivono. Prima regia cinematografica di un regista inglese già affermato a teatro, William Oldroyd. Rilettura non direttamente da Shakespeare ma dal racconto Lady Macbeth di Mcensk del russo Nikolaj Leskov. In più, nel film, si cambia l’ambientazione dalla Russia alla campagna dell’Inghilterra ottocentesca.

Il destino della giovane Katherine sembra essere quello dell’infelicità e della solitudine: va in sposa a un uomo che non la ama e nemmeno la desidera. Sembra ineluttabile la sua condizione, ma...

Durata: 88’.

 

 

Giovedì 15 marzo, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

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