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Giovedì 26 aprile 2018 – Scheda n. 27 (1029)
Civiltà perduta
Titolo originale: The Lost City of Z.
Regia e sceneggiatura: James Gray.
Fotografia: Darius Khondij. Musiche: Christopher Spelman.
Interpreti: Charlie Hunnam (Percy Fawcett), Robert Pattinson (Henry Costin),
Sienna Miller (Nina Fawcett), Tom Holland (Jack Fawcett),
Angus Macfadyen (James Murray).
Produzione: Keep Your Head. Distribuzione: Eagle Pictures, Leone Film Group.
Durata: 140’. Origine: Usa, 2016.
James Gray
Nato a New York nel 1969, James Gray lavora sul labile confine tra bene e male nascosto nell’animo dei suoi personaggi. Nipote di immigrati russi, cresce nel Queens, quartiere di elevato melting pot. Si appassiona alla pittura, arriva al cinema nella School of Cinematic Arts di Los Angeles. Gira un film da studente, Cowboys an Angels: il produttore Paul Webster vede il film e incoraggia Gray a scrivere una sceneggiatura. Così, a 25 anni, scrive e dirige Little Odessa (1994), spietata rappresentazione di una disgrazia familiare. Il film, presentato in concorso a Venezia, si aggiudica il Leone d’Argento e una Coppa Volpi per Vanessa Redgrave come miglior attrice. Gray ritorna sui temi del suo esordio con The Yards (2000), un noir ambientato tra i corrotti. Il film non ha successo. Inizia un lungo periodo di pausa, fino al 2007, quando arriva I padroni della notte (2007), ancora su affari mafiosi e su rapporti familiari tra fratelli. Con Two Lovers (2008, visto al cineforum), il regista adotta ancora il suo attore prediletto, Joachim Phoenix, per una love story ispirata al Dostoevskij delle Notti bianche. Con The Immigrant (2013), in concorso a Cannes, torna al tema dell’integrazione sociale, ancora con Joaquim Phoenix, attore perfetto come emblema di storie difficili, futuri faticosi e sguardi sofferti.
Sentiamo Gray: «Mentre Civiltà perduta percorreva il suo lungo e arduo cammino verso il grande schermo, il film è diventato qualcosa di simile a un’ossessione per me, suppongo proprio per il suo tema. Le preoccupazioni di Percy Fawcett nei confronti dell’Amazzonia e le sue popolazioni sono state motivate da molti fattori, e la sua storia è caratterizzata da incredibili colpi di scena e risvolti. Ma quando io ho letto il libro di David Grann da cui sono partito per scrivere il film, c’è stato un aspetto che mi ha colpito in particolare: quella era la storia di una persona per la quale la ricerca significava tutto. Il suo sogno di trovare un’antica civiltà amazzonica gli ha permesso di attraversare difficoltà inimmaginabili, superare lo scetticismo della comunità scientifica, tradimenti di ogni tipo e anche gli anni trascorsi lontano dalla sua famiglia. Il film tocca anche il tema delle classi sociali, nonché la difficoltà che alcuni individui hanno nell’adattarsi comodamente alla società. Inoltre ero affascinato dalle lotte interne di Fawcett. Allo stesso tempo si trova a scontrarsi con la comunità scientifica e i militari britannici, ma è anche un uomo in guerra con se stesso: ambizioso ufficiale dell’esercito, inasprito per una ragione apparentemente oscura; un uomo di famiglia e un patriota devoto che diventa un esploratore inquieto; un soldato preciso e pragmatico che ha una fede quasi spirituale nell’esistenza di Z. Come spesso accade nei miei film, Civiltà perduta esamina la dinamica della famiglia. Ero particolarmente attratto dal legame infrangibile tra Percy e la sua fedele moglie Nina, così come quel rapporto complesso tra Percy e il suo figlio maggiore Jack, che da bambino risente molto dell’assenza di suo padre, ma poi si unisce a lui in quella che risulta essere la sua spedizione finale. Infine c’è la relazione tra Percy e la giungla stessa, che diventa un personaggio centrale nel film. Abbiamo girato le scene dell’Amazzonia nella foresta pluviale colombiana. E sebbene le avversità sopportate dal nostro cast e dalla troupe non erano nulla rispetto alle privazioni subite da Fawcett e i suoi uomini, abbiamo comunque dovuto affrontare la nostra buona parte di difficoltà, dai serpenti agli attacchi di febbre tropicale. Io, nato e cresciuto a New York, non potevo essere più lontano dal mio elemento naturale come in quel luogo. Abbiamo scelto di girare il film su pellicola da 35 mm (cosa che ho fatto per tutti i miei film finora), ma ciò si è rivelato particolarmente impegnativo nel bel mezzo della giungla. Le location così lontane hanno richiesto di far volare la pellicola girata per migliaia di chilometri per essere rielaborata e montata, il che significava che non vedevamo il girato quotidiano fino a una settimana dopo. Eppure, alla fine credo che l’autenticità di quei luoghi ne abbia fatto valere la pena. Potrebbe essere difficile per noi oggi immaginare un mondo in cui ci siano ancora grosse zone della terra incontaminate, ma alcune cose non sono cambiate dall’alba del XX secolo. Per me, il tema più universale e senza tempo che attraversa Civiltà Perduta è che, come dice Fawcett nel film, “Siamo fatti tutti della stessa pasta”».
La critica
L’ossessione per la mappatura. La grande sfida dell’età moderna: tutto deve essere esplorato, definito, descritto, sperimentato, catalogato, conosciuto… Ma che cosa c’è veramente da scoprire? Quanta reale importanza hanno l’oggetto della ricerca o la meta del viaggio? E cosa si farà quando tutto sarà scoperto? Civiltà perduta di James Gray è un film su questa ossessione. Il Percy Fawcett che racconta Gray è sì il militare di professione e geografo britannico che tra 1906 e il 1925 esplorò parte della giungla amazzonica e ispirò il Professor Challenger del Mondo Perduto di Conan Doyle, ma è, soprattutto, un uomo braccato dalla sua ossessione. L’avventura, la sete di conoscenza, o meglio la lotta contro il pericolo e la paura per ciò che non si conosce, è nella testa dell’esploratore ancor prima che nelle sue azioni. Lo sa bene la sua famiglia: la devota moglie Nina che intuisce l’indomabilità del sacro fuoco che arde dentro il marito e decide di dedicare, attivamente, la sua vita alla preparazione dei suoi ritorni, alla costruzione della credibilità scientifica dell’uomo, al mantenimento della sua stabilità familiare; lo sa il figlio maggiore Jack che, prima che il padre parta per il fronte della Somme, lo accusa di abbandonarli di nuovo. E a ragione. Percy parte infatti per il fronte in preda alla stessa ossessione con cui parte per l’Amazzonia, totalmente dentro i suoi demoni, combattendo contro un nemico che non conosce e che è nella sua testa prima ancora che nella realtà (come dice fin troppo esplicitamente la scena in cui Percy spara, in ralenti, verso un fronte vuoto riempito solo dai gas che velano il nemico, come le foglie della giungla nascondono gli indios e anche la sua Z). È forse per questo che Civiltà perduta non è né un racconto avventuroso né un racconto storico. Perché a Gray non interessa un approccio dialettico tra l’esploratore e l’oggetto della sua esplorazione; non gli interessano la questione scientifica e quella geografica, il problema dello scontro di civiltà (degli indigeni così come della foresta, in fondo, viene raccontato pressoché nulla) né tantomeno la ricostruzione di quell’età straordinaria dei primi del Novecento, in cui i grandi esploratori partirono per l’Himalaya, l’Amazzonia o il Polo Nord con lo scopo di entrare nella storia per aver mappato un altro pezzo di mondo. Per fortuna, a Gray non interessa nemmeno muoversi dalle parti di Fitzcarraldo di Werner Herzog, anche se l’intera macchina del film sembra essere spinta, come in quel caso, da una doppia ossessione: quella del personaggio da una parte e quella del regista dall’altra. Quello che interessa a Gray è raccontare un uomo ripiegato su se stesso anche quando guarda agli orizzonti più lontani e raccontarlo attraverso la realizzazione della sua stessa ossessione estetica per l’immagine “perfetta”, cinematografica nel senso più essenziale del termine. Che poi il risultato finale possa esserne compromesso è come se fosse un lato secondario di tutta la questione; non era stata data d’altra parte precisa disposizione dallo stesso Percy di non andare a cercare lui e il figlio qualora non avessero fatto ritorno dall’ultima spedizione? Come dire, appunto, che in fondo il raggiungimento della meta e il racconto del viaggio sono un aspetto secondario rispetto all’esperienza, quella esistenziale e psicologica per Percy, quella estetica per Gray. È indubbio infatti che il film soffra di una carenza dal punto di vista narrativo, che non abbia una scrittura all’altezza del suo farsi visivo e che sembri come inchiodato dal suo stesso costruirsi come macchina perfetta. Se da una parte il maggiore Percy (storico o romanzato che sia) finisce per perdersi, non solo metaforicamente, in una mappa più simile alla Carte du tendre di M.me de Scudéry [1607-1701, famosa per il suo salotto letterario parigino; la Carte du tendre è un suo libro sulla galanteria, ndr] che non a un sistematico studio à la Von Humboldt, James Gray finisce parzialmente per perdersi nel suo personale viaggio emozionale cinematografico. Quasi prigioniero della sua stessa costruzione estetica, che con l’aiuto dell’ormai abituale direttore della fotografia Darius Khondji (che sta al regista un po’ come Mr. Constantin/Robert Pattinson sta a Percy/Charlie Hunnam) raggiunge in più di un momento vette sublimi, è come se Gray rimanesse in un certo senso invischiato dalla bellezza delle sue immagini. Ma, forse, fa niente. Che cosa resta da fare quando il cinema ha detto tutto, raccontato tutto, fatto tutto, mappato ogni possibilità? Girare in pellicola in mezzo alla giungla amazzonica votandosi alle difficoltà e alla bellezza che una più leggera e consona apparecchiatura digitale non avrebbe consentito, cercando in un’estetica vecchia di quarant’anni la perfezione estetica ed emotiva dell’immagine. Questo interessa a Gray in fondo, questa è la sua ricerca, questa è la sua sfida, questa la sua ossessione. E se il film ne fa in parte le spese sembra dire, pazienza, non venitemi a cercare…
CChiara Borroni, cineforum.it, 21 giugno 2017
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