CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 16 novembre 2006 – scheda n. 5 (708)
La vita segreta delle parole
Titolo originale: La vida secreta de las palabras
Regia e sceneggiatura: Isabel Coixet
Fotografia: Jean-Claude Larrieu. Montaggio: Irene Blecua.
Scenografia: Pierre-François Limbosch.
Interpreti: Sarah Polley (Hanna), Tim Robbins (Joseph), Julie Christie (Inge),
Javier Camara (Simon), Eddie Marsan (Victor), Steven Mackintosh (dottor Sullitzer),
Danny Cunningham (Scott).
Produzione: El Deseo. Distribuzione: Bim.
Durata: 112’. Origine: Spagna, 2005
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La regista
Isabel Coixet è nata a Barcellona nel 1962, si è laureata in Storia contemporanea, ha lavorato nella pubblicità e nel giornalismo, poi ha cominciato a girare dei cortometraggi, quindi ha scritto, prodotto e girato il suo primo film Cosas que nunca te dije (1986), seguito da A los que aman (1998). Il successivo Mi vida sin mí (strano titolo: La mia vita senza me, 2002) è stato prodotto dai fratelli Almodóvar, che sono anche i produttori di questo La vita segreta delle parole, presentato con successo di critica alla Mostra di Venezia del 2005. Isabel Coixet ha anche pubblicato un romanzo, La vida es un guión, cioè La vita è un copione.
La critica
Il cinema, nonostante il famoso aforisma che lo definisce «la morte al lavoro», riesce sempre meno a raccontare la morte, soprattutto nel momento in cui viene negata come possibilità, patologia tutta occidentale. La rimozione della morte e l’incapacità di immaginare un futuro sono, invece, il tema del film di Isabel Coixet La vita segreta delle parole. La regista spagnola aveva già realizzato due film originali come Le cose che non ti ho mai detto e La mia vita senza me, convincendo Pedro Almodóvar del suo talento, al punto di indurlo a produrre questo nuovo film. Con immagini rarefatte e dialoghi scarni la Coixet riesce a rappresentare il dolore segreto, intimo e impossibile di chi è sopravvissuto a un vero e proprio orrore. Per farlo sposta l’attenzione su un luogo particolare, innalzato a metafora: una piattaforma petrolifera in smantellamento al largo della costa irlandese. Qui abitano sette «sopravvissuti», unici rimasti dopo un incidente occorso alla struttura. Tra questi vi è Joseph (Tim Robbins) reso cieco e ustionato in tutto il corpo nel tentativo di salvare un operaio che si è dato alle fiamme, e la sua infermiera (Sarah Polley), che sfrutta il mese di vacanze dalla fabbrica in cui lavora per darsi a questa missione. Queste due solitudini si incontrano. E il rimosso torna a galla su questa strana «scialuppa» alla deriva che è la piattaforma. Entrambi sono stati colpiti dal destino e non riescono a immaginare, chiusi dentro un dolore superbo, cosa potrà essere il domani. La Coixet lavora di fino, intesse una trama sotterranea il cui disegno appare solo alla fine. A noi risulta come uno dei film più riusciti sul tema della solitudine dei sopravvissuti, e ha il dono raro di connettere la sofferenza del singolo con il male della Storia. Il tutto cucito da una colonna sonora perfetta.
Dario Zonta, l’Unità, 17 marzo 2006
«Il cibo, il piacere di cucinare e di mangiare bene (quando si ha questa fortuna) è uno dei temi principali del film. Un altro è lo scherzo - fare una battuta - perché in quel momento non è possibile fare nient’altro. Queste due cose ci ricordano che, nonostante tutto, la vita può essere considerata un dono». Fa bene la regista e scrittrice barcellonese Isabelle Coixet a chiarire con quest’affermazione il senso del suo ultimo film. Perché è sempre doveroso fare molta attenzione alle parole.
E La vita segreta delle parole è un viaggio difficile, accidentato, nel territorio della sofferenza fisica e psicologica. Ma altrettanto consapevole nel delinearne gli sviluppi e le implicazioni, attento a non spettacolarizzare il dolore né a banalizzare quello che nella realtà è sempre e comunque più ricco di ciò a cui anche il migliore dei film può solo approssimarsi per difetto. Si tratta di una sorta di proseguimento di La mia vita senza me, la cui protagonista è sempre l’intensa Sarah PoIley, emersa in Il dolce domani di Atom Egoyan, e scelta dalla Coixet per la sua «straordinaria capacità di trasformarsi». Mentre in quel film la Polley era una malata terminale di cancro, una malattia che inevitabilmente faceva saltare ogni rapporto attorno a lei, qui è Harina, una ragazza sorda, ossessivamente ripiegata su una routine di pasti sempre uguali e di lavoro che altro non è che l’antidoto per placarne l’ansia divorante. Al punto tale che è il suo stesso datore di lavoro a forzarla a prendersi una vacanza. Si ritrova su una piattaforma petrolifera (lo spunto del film è un’analoga esperienza della regista, nel Sud del Cile, di oltre dieci anni fa), sulla quale macchine rumorosissime riempiono il silenzio e un oceanografo cerca di stabilire la frequenza delle onde. E Simon, un cuoco spagnolo (Javier Camara, lo straordinario Benigno di Parla con lei) s’ingegna per trovare nuovi sapori che diano gioia, un’oca che è come un’epifania naïf in un contesto iper-artificiale. E soprattutto, dove Josef (un torreggiante Tim Robbins) rimane gravemente ustionato e temporaneamente cieco, in un incidente, come Stellan Skarsgard in Le onde del destino. Ma il rapporto che si stabilisce tra i due è all’opposto di quello sadomasochistico e sacrificale che s’innescava come una bomba a orologeria nel film di Von Trier. Hanna si presta a diventare non solo l’infermiera che si prende cura di lui ma anche il suo tramite per il mondo. Insomma, la feroce ironia che Josef deve esercitare per dare un (nuovo) senso alla sua vita, trova nel silenzio di Hanna un inatteso, accogliente interlocutore. La sceneggiatura fa emergere la storia che Hanna vuol dimenticare solo alla fine, in un segmento che vede una folgorante apparizione di Julie Christie. Per dirla con lo scrittore e storico dell’arte John Berger, nume tutelare del film, che ricollega al Neorealismo italiano, La vita segreta delle parole «è stato concepito su un terreno che si estende a un orizzonte che va al di là della nozione di martirio, non c’è nemmeno un culto del dolore. Semplicemente una visione di come la sofferenza conduca a una salvezza comune». Prodotto dalla casa di Augustin Almodóvar con la partecipazione di MediaPro, El Deseo, girato tra l’Irlanda e la Spagna e presentato nella sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia, la pellicola ha già vinto quattro premi Goya per miglior film, regia, sceneggiatura originale e direttore di produzione. Giusti riconoscimenti ad un esempio singolare di cinema che sfida l’indicibile, ama lasciare sospesi e indagare gli equilibri che si stabiliscono in condizioni estreme e la difficoltà di esprimere le parole che, se riuscissimo a dirle, ci renderebbero più liberi.
Raffaella Giancristofaro, Film Tv, 14 marzo 2006
Protagonista trionfale della serata dei Goya, Isabel Coixet ha conquistato con La vita segreta delle parole ben quattro prestigiosi riconoscimenti del cinema spagnolo, cinematografia quanto mai in crescita. Ma questa non è una delle solite pazze commedie sociali, sovversive e scombinate che arrivano anche sui nostri schermi. Si tratta di una elaborazione controllatissima sulla violenza contro le donne nelle recenti guerre, immagini che non si vorrebbero vedere e che non si possono ricreare al cinema. Ma Coixet (laureata in storia e anche pubblicitaria) di queste violenze ha sentito parlare a lungo nei documentari che ha girato nei Balcani, ore e ore di registrazione e la sua mente si è riempita di parole, oltre che di immagini. Le parole e il silenzio a volte sono deflagranti come avvenimenti, questo ha imparato da quegli incontri e con questi due elementi principali ha costruito un film magistrale per composizione e recitazione, sia per quanto riguarda i protagonista Sarah Polley (già interprete del suo precedente film La mia vita senza me) e Tim Robbins (che non manca mai nei progetti impegnati) che per l’abilità con cui procede in progressivo avvicinamento verso l’acme narrativo. L'isolamento della piattaforma petrolifera dove è ambientata la maggior parte del film dà l’idea precisa dell’isolamento più totale in cui si trovano a vivere personaggi che convivono con situazioni sepolte nel profondo. Lei, di cui non si sa nulla, arrivata lì a fare da infermiera a un uomo che si è ustionato e non vede più. Di parole è fatta la nostra realtà, di libri, di canzoni, lettere e segreterie telefoniche, ma non sempre si ha voglia di far corrispondere quelle pronunciate alle sensazioni del vissuto. Con sottile maestria e secondo i canoni delle storie d’amore, i due riusciranno ad avvicinarsi anche se potrebbe sembrare impossibile. A piccoli passi, superando le diffidenze o meglio il baratro delle esperienze diverse del vissuto. Un incontro tra due solitudini, fatto di intuizione e di umorismo per quanto è possibile nella situazione estrema, ma anche con altri personaggi che danno grazia al racconto pur nell’oscurità tratteggiata delle loro personalità, come un cuoco (Javier Camara), un soldato, un ingegnere. Tra gli altri, emerge il personaggio di Inge Genefke, la neurologa che ha fondato in Danimarca l’istituto per il recupero delle vittime della violenza (ed ora è in azione con il suo staff a Guantanamo), interpretato da Julie Christie in maniera aderente. Film prodotto dalla società di Pedro Almodovar (El Deseo), girato in inglese, con particolare cura all’accento balcanico della ragazza (tutto azzerato al doppiaggio).
Silvana Silvestri, il manifesto, 17 marzo 2006
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