CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
quarantatreesima stagione
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE - S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA - IL CINEMA DIFFUSO
promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 29 marzo 2007 – scheda n. 22 (725)
Il grande silenzio
Titolo originale: Die Große Stille
Regia, fotografia e montaggio: Philip Gröning
Musica: Michael Busch, Philip Gröning.
Interpreti: i monaci della Grande Chartreuse di Grenoble.
Produzione: Produktionfirma, Bavaria. Distribuzione: Metacinema.
Durata: 162’. Origine: Germania, Svizzera.
Il regista
Philip Gröning è nato a Düsseldorf, nel 1959. Ha passato l’infanzia tra la Germania e gli Stati Uniti, ha compiuto molti viaggi in Sudamerica, ha studiato medicina e psicologia prima di dedicarsi al cinema, iscrivendosi alla Scuola di Cinema di Monaco di Baviera, una delle più importanti d’Europa. Nel 1986 ha fondato una sua società di produzione. Il suo film di esordio è stato Sommer, nel 1986, poi ha girato Die Terroristen, presentato anche qui a Omegna pochi mesi fa, Lena’s Tag (1996), Die Philosophie (1998) e L’amour, l’argent, la mort (1999). Il grande silenzio è stato presentato in numerosi festival internazionali, anche a Venezia, e in Germania ha ottenuto un successo strabiliante, il che ha permesso al film di essere distribuito anche in molti altri paesi.
La critica
«Non è un film, è un’esperienza. Dopo i primi due minuti sentirete se riuscirete a viverla fino in fondo. Se sarà così abbandonatevi alle immagini, altrimenti vi consiglio di uscire»: è l’avvertenza del regista Phiip Gröning per Il grande silenzio, 160 minuti all’interno della Grande Chartreuse sulle Alpi francesi, tra i monaci certosini che vivono nel rispetto dell’antica regola «parlare il meno possibile». Il film ha raccolto riconoscimenti nei maggiori festival internazionali, dal Sundance a Toronto, in Germania ha superato gli incassi di Harry Potter 4 ed è ancora in sala da novembre. Nelle nostre sale ha debuttato lo scorso fine settimana in 18 copie che già questo weekend saliranno a 36 per crescere ulteriormente la prossima settimana, grazie a un successo insospettabile anche tra il pubblico italiano. «Il successo è sorprendente, ma non troppo. In un momento come questo, nel nostro vivere assediati dal rumore e stretti in un rapporto frenetico con il tempo, non è un caso che siano andati bene film sul tema della spiritualità in genere legata a religioni orientali. Perché non sperimentare il bisogno di ricerca nella religione cattolica, assai più vicina a noi, alla nostra cultura, alle nostre radici?», dice il regista. Il film si deve alla sua tenacia. La prima richiesta al priore della Certosa risale a 18 anni fa. «Ora è troppo presto, fra qualche anno forse» fu la risposta. Dopo 19 anni lo chiamarono dal monastero: «Se è ancora interessato». Nato a Düsseldorf nel ‘59, Gröning - che sul tema del tempo, anzi filosofia e tempo, insisterà con il film che prepara su Heidegger - ha ricevuto un’educazione cattolica, «ma da bambino negli anni Sessanta essere cattolico significava complesso di colpa, paura del peccato. Sono stato con i certosini per sei mesi, ho condiviso i loro silenzi, i ritmi naturali e quieti del loro quotidiano. I piccoli lavori necessari nella cucina o nell’orto, i canti e le preghiere. La mia visione della religione è cambiata, non si parla di colpa e di peccati ma si esalta l’aspetto più luminoso, la percezione della grazia. Vivere con persone che non hanno paura, neanche della morte, mi ha arricchito di una libertà interiore sorprendente, di una strana felicità, come se non fosse possibile una vita fallita». Sono stato sedotto dal Signore e mi sono lasciato sedurre, ripetono i monaci nei loro canti, che sono l’unica colonna sonora del film, insieme ai rumori naturali, il fruscio delle vesti, il suono delle campane, un coltello che taglia verdure, le grida e le risa quasi infantili quando, durante le passeggiate domenicali, è consentito parlare. I monaci hanno riso «anche vedendo il film soprattutto alle piccole trasgressioni alle regole, per esempio quando uno di loro mangia in giardino e non in cucina o parla con il gatto», dice il regista.
Secondo lui «nel silenzio anche le cose, le più banali, una sedia o un tavolo, un bicchiere diventano presenza tangibile, importante. Questo ho cercato di rendere con il film. Non dico di essere stato “sedotto dal Signore”, ma trovare il tempo per vivere con se stessi in una solitudine che allontana la realtà esterna — nel monastero solo il priore legge i giornali e conosce le cose del mondo — è un’esperienza che consiglio. Anche ai laici, anche ai seguaci di altre dottrine, la vita monastica del resto esiste da sempre in qualunque cultura. Penso che un’esperienza del genere possa trasformare un ateo in qualcuno che crede in qualcosa».
Maria Pia Fusco, La Repubblica, 7 aprile 2006
Come passano le stelle e le nubi sopra la Grande Chartreuse, così passa il tempo in Il grande silenzio. Da un inverno a un inverno, fra le montagne di Grenoble tutto torna come in un cerchio. E tutto torna nella vita dei monaci, nel succedersi muto dei giorni. Come sotto il cielo, anche nelle celle della certosa più antica e austera il tempo si muove dentro se stesso, infinito e uguale. E però, negli uomini che vediamo per quasi tre ore c’è qualcosa che pretende di oltrepassare questa infinitezza: qualcosa che si tende come una linea verso Dio, e che cerca la sua parola nel silenzio, nell’ascolto del «vento leggero» di cui dicono i versi dell'Antico Testamento che aprono e chiudono il film. Avverte peraltro Philip Gröning che Il grande silenzio non si rivolge solo ai credenti, ma a chiunque senta il «miracolo del tempo». E a noi viene da aggiungere: a chiunque avverta lo scandalo del suo scorrere, e non accetti di lasciarsi perdere nel fluire circolare e infinito del presente. Forse anche per questo, nel 1988 il quarantasettenne regista tedesco ha chiesto ai monaci di entrare nella Chartreuse con la macchina da presa: per mettere alla prova del suo occhio la regola cui essi affidano ogni loro interrogarsi. E i monaci, 16 anni dopo, gli hanno aperto il loro convento. È tutto girato in alla definizione Il grande silenzio (e poi riversato su pellicola). Lo richiede il progetto che lo muove. Infatti, al cinema di Gröning è necessario arrivare fin dentro i particolari, fin dentro le trame imperfette e vive degli oggetti, cercandone il significato nelle luci e nelle ombre che li accendono. E così sono molto spesso i dettagli che la macchina da presa va a cercare: ora di semplici, povere cose quotidiane o di figure umane, ora d'erba e di rami. Certo, ci sono montagne e vette nel film, e distese di neve, e il blu profondo delle notti, e anche la luce sconfinata che la primavera e l’estate esplodono nell’aria. Ci sono poi il campo totale del refettorio, protetto nella penombra. e quello del coro sui cui banchi i frati si ritrovano ogni giorno e ogni notte. Allora, in un silenzio percorso solo dalla voce di un lettore o da quella alta di una campana, è come se il cinema si provasse ad abbracciare appunto la totalità di quel che è venuto a cercare. Ma per farlo deve allontanarsene, sospendendo la sua curiosità più intima e profonda, e quasi mettendosi in disparte. Ma è soprattutto sui particolari, e anzi dentro i particolari che l’obiettivo si posa. Fin dalle prime immagini insiste su una piccola fiamma avvolta in un rosso tremante e intenso, custode notturna della pace che riempie la certosa. Poi si perde nei giochi caldi delle luci e delle ombre che si proiettano dalle finestre, dalle porte, dai colonnati percorsi in silenzio dai frati. E ancora indugia sui loro volti, senza che su di essi si intraveda stupore e tanto meno sconcerto. In sedici anni — così ci sembra — hanno trovato il modo di prepararsi all'occhio che ora li scruta. Ogni cosa e ogni dettaglio — una mela tagliata a mezzo, una stufa antica, la pagina ingiallita di un libro —, ogni cosa e ogni dettaglio, dunque, riempiono della loro semplicità lo schermo, e insieme però ci sorprendono per una materialità che si fa viva e tenera. Così, vivi e teneri. Ci paiono dei bottoni d’osso resi lisci e irregolari dall’uso. Un vecchio frate li ha raccolti negli anni, certo dopo molti altri frati, come lui attenti a conservarne e tramandarne il “valore”. E quando li posa su una stoffa spessa e rozza —avorio su avorio —, nel suo gesto il cinema scopre una bellezza insospettata. Insomma, Gröning ci promette molto, e noi ci attendiamo che il suo occhio non si limiti alle trame degli oggetti e delle vite. E anche ci attendiamo che il silenzio “raccolto” dalla sua macchina da presa nella Grande Chartreuse diventi parola, almeno nel senso della parola interiore cercata dai monaci. Come possiamo non condividere questa loro ricerca, noi che in platea ne condividiamo il silenzio? Che ci si affidi o non ci si affidi a un Dio, ci è ben chiaro che ogni grande silenzio vale come attesa e come apertura all’ascolto. Esso dunque si compie davvero solo quando ne nascono parole che riescano a esser ponti tesi fra le solitudini, al di sopra dell'infinitezza del tempo. In ogni caso, questo ci sembra il cinema, quando è grande: parole che si vedono, linee tese verso un significato. Ma a questo non arriva Il grande silenzio, perché Gròning non lo vuole o perché non lo sa fare. Il suo occhio ad alta definizione si lascia solo andare al fluire infinito del presente. Ne è affascinato, e ce ne affascina. Ma noi pretendiamo qualcosa di più.
Roberto Escobar, Il Sole – 24 Ore, 16 aprile 2006