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Edmond - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì 25 ottobre 2007 – scheda n. 4 (734)

 

 

Edmond

 

Titolo originale: Edmond

Regia: Stuart Gordon

Sceneggiatura: David Mamet, dalla sua pièce. Fotografia: Denis Maloney. Montaggio: Andy Horvitch. Musica: Bobby Johnston. Scenografia: Alan E. Muruoka.

Interpreti: William H. Macy (Edmond Burke), Julia Stiles (Glenna), Joe Mantegna (l'uomo nel bar), Rebecca Pidgeon (la moglie), Bai Ling (la ragazza), Frances Bay (l'indovina), Russell Hornsby (Shill).

Produzione: Stuart Gordon, Code, Dog Pond. Distribuzione: Fandango.

Durata: 80’. Origine: Usa, 2006.

 

Il regista

Eccoci qua con un bel film di genere. Regia di Stuart Gordon, nato nel 1947 a Chicago e diventato uno dei maggiori registi statunitensi di film da brivido. Ha studiato all'università del Wisconsin, poi ha cominciato una carriera di regista teatrale con la sua compagnia, la Screw Theater (nome che è tutto un programma), infine è passato al cinema facendosi un nome nell’horror. Regista trasgressivo, è stato denunciato per oscenità nel 1968, accusa poi lasciata cadere. L’anno dopo mette in scena un Peter Pan con forti venature politiche e di protesta. Lasciata l'università, si sposta a Chicago dove fonda l’Organic Theatre, poi va a New York, a Los Angeles e anche in Europa. Mette in scena soprattutto opere di David Mamet, di cui diventa amico. La pièce Perversioni sessuali a Chicago, sempre di Mamet, ottiene un grande successo. Comincia a occuparsi di cinema e di tv, scrive degli episodi per la serie E/R, con i soldi guadagnati fonda una sua casa di produzione, la Empire Pictures. Il suo primo film è Re-animator (1985), un horror tratto dai racconti di H. P. Lovecraft, storia di uno scienziato che inventa un siero per far risuscitare i morti. Vengono quindi Il pozzo e il pendolo, da Poe (1991), il film di fantascienza 2013, la fortezza (1993), Space Truckers (1996), Il meraviglioso abito color gelato alla panna (1998) e quindi questo Edmond, presentato alla Mostra di Venezia, un grottesco horror metropolitano.

 

La critica

Chissà se David Mamet pensava al personaggio espressionista del “borghese demoniaco” quando concepì la versione teatrale di Edmond, che ora ha riscritto per lo schermo dando origine a un film autenticamente perturbante? L’Edmond del titolo è uno scialbo impiegato coniugato di mezza età (lo interpreta benissimo William H. Macy) il quale, da un momento all’altro, previa visita alla chiromante, pianta la routine di sempre e, comprato un coltello da guerra, si tuffa nella minacciosa notte urbana. Il vero pericolo, però, è lui: mentre anche il mondo della malavita e della prostituzione rispetta certe - pur aberranti - regole interne, Edmond dà sfogo al suo anarchismo represso, frutto di un impasto di razzismo e invidia, paura e desiderio di cui sarà vittima una cameriera (Julia Stiles) incontrata per caso. A quanto pare siamo in pieno revival di cinema antiborghese; anche se in una chiave diversa dal film di Per Fly Gli innocenti, che esce in contemporanea a questo. Mamet fa dire al protagonista cose da brivido, ma probabilmente vere, cui è duro guardare in faccia. Che ogni paura è riflesso di un desiderio; che tutti, nel profondo, coviamo qualche forma di razzismo; che istituzioni come quella carceraria possono apparire luoghi rassicuranti a chi si nutre d’ansia, perché là “tutto è semplice”. Autore di cult orrorifici come Re-Animator, ma anche rodato regista teatrale, Gordon riveste la parabola col linguaggio filmico adeguato.

RRoberto Nepoti, La Repubblica, 13 aprile 2007

 

Dal 1982 in cui andò in scena per la prima volta a Chicago, Edmond di David Mamet è diventato un piccolo classico del teatro postmoderno, da poco ripreso sulle scene londinesi in un applaudito allestimento di Kenneth Branagh. Questa vibrante e sintetica versione filmica di Stuart Gordon (durata un’ora e dieci) ha l’avallo del drammaturgo stesso, che per l’occasione ha apportato scarni e sapienti ritocchi al copione, conscio che nel cinema ciò che si vede non ha bisogno di venir ripetuto nei dialoghi. Sui lontani modelli dell’espressionismo tedesco dedicati all’autodistruzione dell’eroe borghese, la cupa metafora racconta la follia di un contabile che per l’insofferenza di una vita grigia rompe con la moglie e affronta l’avventura nella metropoli notturna attirandosi sciagure, soprattutto dopo aver acquistato un coltello. Da sempre interprete e consociato nelle imprese teatrali di Mamet, William H. Macy sprofonda negli abissi della perdizione portando una presenza di ingenuità iperrealista che umanizza e giustifica ogni eccesso paradossale. Attorniano lo splendido protagonista bravissimi attori, tra i quali spicca Julia Stiles. Di un rigore esemplare, Edmond è destinato a restare un punto di riferimento, nei discorsi sulla drammaturgia contemporanea fra scena e schermo.

AAlessandra Levantesi, La Stampa, 13 aprile 2007

 

«Vivi una vita che non è la tua», dice una veggente a Edmond Burke (William H. Macey) verso l’inizio di Edmond. È venerdì, e già il piccolo impiegato sa che cosa gli toccherà fare in ufficio lunedì. Entrando in ascensore, sì è sorpreso a invidiare due sconosciuti legati in un bacio molto carnale. E ora quella donna legge nei tarocchi qualcosa che lui già sospetta. In inglese: «You are not where you belong».
Sta fuori dal mondo cui appartiene, straniero nella sua stessa vita, il protagonista del film scritto da David Mamet e girato da Stuart Gordon (già autore di film horror come Re-animator, del 1985, e From Beyond, del 1986). In platea subito si pensa a un altro straniero, al Mersault raccontato da Albert Camus nel 1942. Ma i due non hanno molto in comune, oltre alla scoperta dell’assurdità della loro vita. Entrambi uccidono, e quasi con la stessa inconsapevolezza. Però Edmond è solo la caricatura di un uomo in rivolta. In ogni caso, come Mersault, anche l’omino di Mamet all’improvviso vede crollare attorno a sé ogni significato possibile. Tornato a casa, la moglie (Rebecca Pidgeon) lo tedia con la storia di una lampada rotta, certo dalla serva. Insiste, la donna, tutta presa dentro l’orizzonte di questa tragedia della banalità. E lui, con una freddezza che si direbbe spietata, se non fosse solo stupida, le annuncia che la lascia. Non la ama, da anni. Non la “sente”, come in un’anestesia del cuore e del corpo. E quando la offende con questa sua verità crudele, quando le fa male senza neppure ricavarne piacere, in lui gioca il ricordo dei due in ascensore. Quel loro desiderio, quel loro toccarsi e cercarsi, valgono come conferma e misura della sua mancanza di desiderio, del suo stare nel mondo da straniero. Se Edmond fosse Mersault, ora vivrebbe questa estraneità se non con coraggio, almeno con coerenza. Non cercherebbe di trovarle ragioni, ma le si abbandonerebbe come a un fato. Lui invece, del tutto inconsapevole, stupido della stessa stupidaggine che lo ha portato a incrudelire sulla moglie, si mette un abito ben stirato e se ne va al bar. Lì, quasi uscisse dalla Casa dei giochi, il film di Mamet del 1987, gli si affianca uno sconosciuto (Joe Mantegna) che ha l’aria di conoscere il mondo. La colpa, gli dice quello, è dei “negri”, che invece di starsene in Africa a oziare, secondo la loro natura, pretendono di farlo tra noi, bianchi operosi. Non dice di più, pago del suo dire apodittico. Come lui se ne accontenta Edmond. Quanto al resto, sarà sufficiente farsi una scopata. È sconvolgente, la nullità di quest’omino. Convinto del diritto a vivere la sua vita, si lascia prendere dal più orrido dei sentimenti: quello che s’intesse di codardia e di odio, di ignoranza e di presunzione. Se sono i “negri” – e poi aggiunge gli omosessuali, come fanno sempre gli omini – la causa del niente che sente dentro di sé, basterà imitarli. Basterà farsi i propri comodi, senza altro pensiero. Così immagina, caricatura sempre più sarcastica, e sempre più capovolta, dei Mersault di Lo straniero. Ora dunque Edmond inizia a precipitare verso quel fondo del niente che tanto lo attrae. Cerca una donna, ma ogni volta tira sul prezzo. Pretende di ribellarsi a non si sa quale complotto, ma poi si ferma alla pedanteria del contabile. È un orrido uomo da niente, appunto. Il suo orizzonte non comprende nemmeno la tragedia d’una lampada rotta dalla serva. La strada è segnata. Il mondo contro cui fantastica di ribellarsi lo circonda, lo inganna, lo depreda. E mai gli riesce di sollevarsi di quel poco che sarebbe sufficiente a intravedere la propria nullità. Ogni volta suppone di potersi contrapporre, di poter prevalere, di fare appunto come fanno i “negri”. Non si accorge che non è la sua vita, quella in cui viene catturato, ma un inferno senza via d’uscita. Così, ignaro e irresponsabile come si conviene alla sua stupidità cattiva, immagina di pareggiare i conti con il mondo brandendo un pugnale da marine. È il miglior coltello per uccidere del mondo, gli dicono. E lui lo ripete, con l’orgoglio risibile che gli detta la sua vigliaccheria colma di risentimento. Alla fine uccide davvero, in un impeto di rabbia furioso e cieco. E poi pretende di nascondersi fra quegli stessi “negri” che hanno per lui la responsabilità della sua estraneità al mondo. Ed è qui che Mamet gli riserva l’ultimo colpo, il più sarcastico. Quando il film finisce, lo lasciamo steso in un letto di prigione, teneramente abbracciato a un nero enorme e possessivo (Bokeem Woodbine) che l’ha violentato, e che l’ha conquistato. Ora i due passano le loro giornate parlando dell’assoluto, fors’anche di un dio. Edmond è felice, ben dentro il suo mondo.

RRoberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 6 maggio 2007

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